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Buone forchette

Pesi da farmacia, esercizi sodi e niente litri. E' il mondo dei food writer

Mariarosa Mancuso

Garantiscono di essere scrittori (e buone forchette). E' la nuova categoria che propone appositi corsi di scrittura: si definiscono intenditori oltre possedere una ricca collezione di libri da cucina

Bisogna chiamarli food writer. Se no si offendono, e rischiamo l’etichetta di boomer – oggi condanna peggiore non c’è. Food writer, dunque. Girellando su internet si trova anche un apposito corso di scrittura, “con esercizi sodi, strapazzati e à la coque” (stentata battuta sugli “esercizi svolti”, neanche i boomer ridono). Non siamo contro per principio, figuriamoci. C’è da divertirsi, per esempio leggendo su un supplemento che si dà un certo tono una ricetta che alla voce “ingredienti” elenca: 822 grammi di latte, 822 grammi di panna, 592 grammi di tuorli, 526 grammi di zucchero. 
Pesi da farmacia, precisi al grammo. Il dettaglio dei tuorli che noi miserelli abbiamo finora contato, e neanche il latte si pesava, per cosa li abbiamo imparati i litri e i decilitri? Poi – catastrofe – arriva la glassa: un vagone di glassa: tre chili di burro di cacao, tre chili di cioccolato fondente.

Il malcapitato che volesse rifare la ricetta si ritroverebbe nel libretto di Julian Barnes intitolato Il pedante in cucina. Tra le disavventure capitate a lui o a altri: la marmellata di more con “mezzo chilo di zucchero e mezzo chilo di frutta” (la sventurata senza bilancia misurò con un barattolo, confondendo pesi e volumi), il pesto con il basilico essiccato (lassù in Canada), la ricetta delle carote Vichy che avevano il punto 1, il punto 2 e il punto 4. 
La mancanza del punto 3 non sembrava fare nessuna differenza. Forse diceva “fate riposare le carote che durante la cottura hanno tanto sofferto” – non l’abbiamo inventata, sta nella ricetta per la marmellata giapponese di fagioli rossi, l’abbiamo vista preparare in un film. Francamente, erano più interessanti le sculture di burro che sono uno sport locale nell’Iowa. Un montagna di panetti a formare un blocco, una stanza refrigerata perché l’artista lavori di bulino, il pubblico intorno che aspetta il capolavoro.

Julian Barnes racconta le sue pedanterie da romanziere attento ai dettagli. Nel Pappagallo di Flaubert parte da un pappagallo impagliato trovato in un negozio di anticaglie della Normandia per un viaggio intorno a “monsieur Bovary”: così si discolpò, al processo per oscenità “Madame Bovary c’est moi!”. Rivendicazione che qualsiasi scrittore mediocre gli invidia, e siccome non lo mandano a processo trova il modo di sottolinearlo nelle interviste, a intervistatori che di solito smaniano per la rivelazione. E’ il tormento degli scrittori che inventano: a Edith Wharton i lettori della Old New York dicevano “naturalmente abbiamo tutti riconosciuto tua zia Elisabeth”.
Di Flaubert, Julian Barnes conosce anche i gusti mangerecci. “Da buona forchetta, più che da intenditore, in Egitto assaggiò carne di cammello e le sue prelibatezze preferite erano i mandarini e le ostriche”. Dall’alto della sua esperienza, e della sua ricca collezione di libri di cucina, garantisce che i food writer sono come tutti gli altri scrittori: “Molti di loro hanno dentro di sé un solo libro, e alcuni, tanto per cominciare, non avrebbero nemmeno dovuto farlo uscire”.