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Il ricordo

Lisetta Carmi e la fotografia dedicata ai margini della società

Costantino della Gherardesca

Scappata dalle leggi razziali, la genovese è stata una pianista, ha fondato un ashram, è stata vicina ai queer ante litteram, ma soprattutto ha raffigurato i soggetti emarginati. Sperimentale come Grifi ma malinconica come Ghirri

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Sono un vecchio disilluso e non ne ho mai fatto mistero. Ma ogni tanto anche uno come me – nei tempi e nei modi concordati con la sua equipe medica – deve recuperare il contatto con il mondo. Ecco perché l’altro giorno ho chiesto alla mia giovane assistente Agnese di portarmi a visitare Genova, la sua città.

“E cosa vorresti vedere?” mi ha chiesto.
“Lo sai che ormai sono un’Ornella Vanoni: non ho idea di cosa voglio vedere, dimmelo tu!”.
“Be’, avrai saputo che pochi giorni fa, il 5 luglio, è morta Lisetta Carmi… ne hanno parlato sui giornali, anche in tv…”.
“Agnese, io in tv ci lavoro, figurati se do retta all’informazione! Gli italiani non hanno ancora capito che della loro politica non gliene frega niente a nessuno: un giubbotto digitale prodotto in Giappone per un videogioco californiano può provocare una guerra in Congo… Cosa vuoi che me ne freghi di quello che dice il Ministro della Bottarga da Floris…”.
“Quindi non hai mai sentito parlare di Lisetta Carmi.”
“No, chi era?”.
“Era una storica fotografa genovese, voglio portarti a vedere il suo archivio, alla galleria Martini & Ronchetti”.
“Ok, ma dove mi porti a mangiare? Niente posti da studenti, eh!”.
“Ma no, ti porto alla storica Osteria di Vico Palla, nella zona del porto, vicino a un magazzino del cotone…”.


“Oooh, che meraviglia… Ma cosa può fare a Genova una sciura come me? Io so che lì un tempo le signore ricche prendevano tanti psicofarmaci e poi cadevano dalle scogliere”.
“Se a Genova vuoi fare la signora, è sufficiente andare da Mangini, una pasticceria storica…”.
“E’ la terza volta che usi la parola storica… Quando esci, comprati una copia di Cifre della trascendenza di Karl Jaspers, e prendimi l’ultimo Vanity Fair. Adesso però parlami di questa fotografa…”.
“Lisetta Carmi è nata a Genova nel 1924, ma si è dovuta trasferire in Svizzera a causa delle leggi razziali (era di origini ebraiche). E’ stata a lungo una pianista, ma tra gli anni Sessanta e gli Ottanta si è dedicata alla fotografia, che ha abbandonato definitivamente nel 1984, perché nel frattempo aveva mollato tutto e si era trasferita in Puglia per fondare un ashram e dedicarsi al buddismo”.
“Quanto la capisco… Anche io ho fatto una cosa simile: ho mollato San Babila e mi sono trasferito vicino al consolato americano, così sento queste buone vibe reaganiane… Il consolato americano è il mio ashram… Ma che soggetti fotografava questa Lisetta?”.

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“Più che altro la gente del porto, gli operai dell’Italsider e i travestiti del centro storico”.
“Oooh, i travestiti… Negli anni Settanta li chiamavano ancora così… Come mai erano nel centro storico?”.
“Perché è lì che ancora oggi si concentra la prostituzione”.
“E’ così anche a Milano, soprattutto nelle case di produzione televisiva…”.
“Insomma… Queste persone erano i suoi soggetti preferiti, perché vivevano ai margini della società. Erano sfruttati come i portuali, ma a differenza degli operai non c’era un movimento politico che difendesse i loro diritti, erano dei reietti…”.
“E quindi lei era vicina alla comunità queer prima che esistesse una comunità queer vera e propria, un po’ come Fernanda Pivano”.
“Sì, tra l’altro anche Pivano era genovese”.

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“Ah, tutte frociarole voi genovesi… Ecco perché lavori con me: per tenere in vita la tradizione locale! Comunque, a quali fotografi si ispirava Carmi? Basta che non nomini quella coi capelli rossi, porta troppa sfiga…”.
“Letizia Battaglia?”.
“Ma no, quella che dico io è americana… Fotografava tutti i suoi amici che morivano di Aids. Ha seppellito più froci lei che i becchini di San Francisco…”.
“Ah, ok… No, per me Carmi ha qualche punto in comune con i lavori di Alberto Grifi…”.
“Agnese, pensa a Ghirri: una volta che si è spento il boom degli anni Sessanta, tutta l’Italia è diventata melanconica come una foto di Ghirri…”.
 

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