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Un abbandono non è la fine

Quando la natura si riprende i suoi spazi, guarisce anche le ferite della guerra

Gaia Manzini

"Isole dell'abbandono" della scrittrice scozzese Cal Flyn è il saggio che esplora i luoghi dimenticati dall'uomo dove fiorisce nuova vita. Zone di confine, dove i conflitti sembravano aver lasciato segni indelebili, sono tornate a splendere

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L’isola di Inchkeith si trova a soli sei chilometri da Edimburgo. Questo vuol dire che è sempre visibile dalla capitale della Scozia, eppure sempre isolata. E’ stata la remota sede di una scuola paleocristiana di profeti, un’isola destinata alla quarantena per gli appestati di sifilide, una prigione. Un giorno del XVI secolo, il re Giacomo IV, affacciandosi dal suo castello la vide in lontananza e pensò subito che potesse essere il luogo perfetto per uno dei suoi esperimenti. Questa volta non c’entravano né il volo umano né l’alchimia, piuttosto il linguaggio. Fu così che il re fece trasferire a Inchkeith due neonati sotto la custodia di una bambinaia sorda. Sperava che i piccoli, separati da qualsiasi influenza culturale, crescessero parlando la “lingua di Dio”. L’esperimento si rivelò inconcludente e passò alla storia come “l’esperimento proibito”. L’isola di Inchkeith non poteva che avere un destino transitorio – abitata per poco tempo e continuamente lasciata. Per ritrovarla abitata da qualcuno, bisogna tornare alla Seconda guerra mondiale e a un gruppo di mille soldati destinati lì come vedette. Poi più niente, più nessuno.

Cosa succede quando un luogo viene abbandonato? 

Ci immaginiamo solo narrazioni di desolazione e cupezza, ci figuriamo degrado e caos, malinconia e mancanza di orizzonti. Invece no. Quasi ogni storia di abbandono si trasforma in un percorso di redenzione e di riconquista da parte della natura. Ogni luogo, per quanto devastato, può trovare un modo tutto suo di rinascere e diventare un simbolo di speranza. Cal Flyn, scrittrice e saggista scozzese, nel suo acclamato saggio Isole dell’abbandono (Edizioni Atlantide) ci porta alla scoperta di luoghi che, in tutto il mondo, sono tornati a nuova vita. Ci mostra percorsi interessantissimi, spunti di imprevedibili riflessioni. E così, mentre l’isola di Inchkeith sprofondava nell’oblio, cresceva la rilevanza ambientale della sua fauna: tra urie bianche, edredoni, foche, gazze marine.

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Cal Flyn, scrittrice scozzese, con “Isole dell’abbandono” ci porta alla scoperta di luoghi che, in tutto il mondo, sono tornati a nuova vita

La “Donna di Niddrie” è una grande opera di land art. No, non è vero. O meglio, sì, ma in un senso diverso da come siamo soliti pensare alle opere di land art. Nel 1975 all’artista concettuale John Latham fu chiesto di ripensare i giganteschi bing (cumuli di detriti di scisto) che caratterizzano il paesaggio di una parte della Scozia. Queste grosse e disarmoniche colline sono sempre state considerate una macchia nel paesaggio, qualcosa di brutto e di artificiale. John Latham con un’intuizione geniale non pensò a un progetto di rimodellamento o di parziale trasformazione. Non fece altro che consegnare alla Scottish Development Agency alcune immagini satellitari della vasta costellazione di bing. Cambiando prospettiva, se guardati con occhio nuovo, i cumuli avevano una loro incontestabile bellezza. La Donna di Niddrie era comparabile alla Venere di Willendorf, una statuetta paleolitica dai seni cadenti e dal ventre generoso. L’immagine era splendida e inaspettata. “Il punto non è che i posti in questione siano privi di bellezza”, scrive Cal Flyn, “ma che non abbiamo ancora allenato gli occhi ad apprezzarli per ciò che sono e per ciò che simboleggiano”. I depositi di scisto come una statuetta paleolitica simbolo di fertilità: la vittoria della nuova vita sulla sterilità.

Un luogo abbandonato è un luogo dove per una ragione o per l’altra l’uomo non mette più piede. E’ il caso delle zone cuscinetto tra territori in conflitto. A Cipro, tra la parte greca e quella cipriota si snoda una lunga linea di confine. Col passare del tempo in questo posto in cui nessun uomo poteva avventurarsi senza rischiare l’arresto si è lentamente affermata una vita di altro tipo. I nasturzi hanno cominciato a spuntare dalle crepe del terreno, i cactus a prorompere dai balconi delle case abbandonate; in mezzo alla strada sono cresciute le palme. Le piante hanno unito le forze: hanno fatto foresta. Le zone cuscinetto, idealmente create per separare, si trasformano invece quasi sempre in corridoi biologici, ovvero in luoghi di connessione. Invertono il processo, si pongono in antitesi. 

E’ quello che è successo anche tra Iraq e Iran: la striscia di terra che le separa è ormai diventata una roccaforte del leopardo persiano. E’ quello che è successo tra Perù ed Ecuador. Per un secolo e mezzo c’è stata tra i due paesi un’accanita disputa territoriale sulla Cordillera del Condor, motivo per cui questa regione non si è mai sviluppata, si sono interrotte le attività minerarie e le foreste vergini non sono state disboscate. Negli anni Novanta le indagini ambientali hanno mostrato come quel luogo sia diventato uno degli habitat più biologicamente diversificati di tutto il pianeta. Questa miniera di biodiversità è diventata a sua volta una cerniera di pace, l’elemento chiave dei negoziati. L’accordo di pace del 1998 prevede che entrambi i paesi si impegnino a preservarla e collaborino per la sua salvaguardia. Il corridoio biologico, da oggetto di disputa, si è fatto ponte tra popoli. E’ la forza guaritrice della natura.

La striscia che separa Iraq e Iran è  una roccaforte del leopardo persiano, tra Perù ed Ecuador c’è uno degli habitat più diversificati del pianeta

Il saggio di Cal Flyn alterna momenti di racconto in prima persona a dati scientifici. Più di tutto appassiona il tono da scoperta, l’incanto di chi riesce a scorgere la bellezza dove gli altri non la vedono: un effetto rigenerante, tutt’altro che cupo nonostante il tema dell’abbandono. In fondo, quelle raccolte sono bellissime storie di speranza. 

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Flyn, passando per Chernobyl, dove la Zona di alienazione è ora abitata da tantissimi lupi, arriva fino in New Jersey. Paterson – cantata dal poeta William Carlos Williams – era un centro industriale di tutto rispetto, dove venivano alimentati 350 mulini. Ora tutti quei mulini sono in dismissione, sono luoghi di nessuno. Seguiamo l’autrice in una perlustrazione thriller tra bottiglie vuote, incarti di cibo, bombolette di aerosol, bustine di crack, persone che si nascondono sottraendosi allo sguardo estraneo. Il mulino all’interno sembra una grossa cassa toracica. Ci sono immagini dipinte, teschi, donne dalla pelle blu. Dentro al mulino ci sono rifugi di fortuna, segni di stanzialità alternativa. Marlon fuma erba, viene dal Salvador: adottato da una famiglia americana, non si è mai sentito a casa in nessun luogo. Si sente bene solo in un posto come questo, dove nessuno ti disturba e ti viene a cercare. Nella sporcizia, nell’abbandono, si può trovare inaspettatamente una rinaturalizzazione dell’anima, scrive Flyn. Un luogo come questo può rappresentare un genere di libertà che non si trova da nessun’altra parte. Vivere in uno spazio abbandonato vuol dire uscire dai radar, scomparire momentaneamente o per sempre. Vivere inosservati è godere di una libertà anarchica, perché i luoghi abbandonati sono come deserti che ti inghiottono e ti restituiscono a te stesso. Nel caos c’è fertilità, insieme a molte contraddizioni. Anche le persone possono essere abbandonate, non solo i luoghi: abbandonate al loro destino, ai loro peggiori eccessi. 

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Mentre leggo questo saggio affascinante, vengo a sapere che il Premio Carlo Scarpa per il paesaggio è stato vinto da un parco di Berlino, il Natur-Park Schöneberger Südgelände. Prima della Seconda guerra mondiale, questa zona era un sito industriale e un importante scalo e deposito ferroviario. Poi, con la fine della guerra e con la città divisa, molti impianti industriali e ferroviari vennero dismessi, smantellati o abbandonati. Questa parte di Schöneberg si trasformò in un “vuoto urbano”, ma dal 1980 si è deciso di lasciare che la natura se ne riappropriasse, pur mantenendo traccia delle rovine di un passato diverso. La bellezza di questo luogo è composita e selvaggia. Ogni contributo di artisti, progettisti del paesaggio, ecologi e cittadini comuni è orientato a preservarne la spontaneità e l’estrema varietà della flora.

Il Premio Carlo Scarpa per il paesaggio vinto da un parco di Berlino. Prima della Seconda guerra mondiale la zona era un sito industriale

A volte i luoghi abbandonati rimangono visibili come ferite, come monito. Durante la Prima guerra mondiale sulle colline sopra Verdun, in Francia, due eserciti stavano per affrontarsi in un entroterra boscoso. Per nove ore ci fu un’incessante pioggia di morte. Dal confine col Belgio fino a quello svizzero, nei pressi di Strasburgo, la guerra aveva dilaniato il suolo: erano stati fatti esplodere un miliardo di colpi di artiglieria. Dove non c’erano i morti, il cadavere era la terra stessa. Un paesaggio Frankenstein. Si decise di piantare un manto di alberi sulla zona di guerra, una foresta dell’oblio. Oggi, tra quei sentieri tortuosi la vita si annida in ogni piega; felci, bacche scarlatte e orchidee rare. Eppure, in tutto questo vasto bosco c’è un punto dove gli alberi non sono mai ricresciuti. Tra le querce e i carpini si allarga una pozza rotonda apparentemente ricoperta di cenere. E’ in questa pozza che vennero accumulate le peggiori armi chimiche prodotte per la guerra. Iprite, gas lacrimogeno, agenti vomitivi, fosgene, difenilcloroarsina… Ne fu fatto un rogo, un fuoco per dimenticare, ma le sostanze contenute nelle armi avvelenarono il terreno, lo lasciarono sterile. La pozza scura che rimane ancora oggi contiene quasi il 20 per cento di arsenico. Ha in sé qualcosa di letterario e fiabesco. Anni fa, in cima alle Ande ho visitato un lago di arsenico alla base di un vulcano nero. La nostra guida ci raccontò di una spedizione di alpinisti italiani che si erano rifiutati di fare un’offerta votiva alla Pachamama (la Madre Terra), offerta da buttare nel lago verde prima di iniziare l’ascesa alla montagna. Uno di loro si era perso: a causa del vento non aveva sentito gli altri avvisarlo che stavano per ridiscendere dal crinale. Quando si era accorto che nessuno dei suoi era lì, aveva perso il senso dell’orientamento. Da alpinista esperto sapeva che doveva camminare di notte e dormire di giorno per non disperdere il calore corporeo, ma l’avventura si era trasformata lo stesso in un incubo. Ci vollero quarantotto ore prima che lo trovassero e lo riportassero sulle rive del lago color giada. Da quello stesso verde era rimasta stregata l’intera società vittoriana. Tutte le dame volevano abiti verdi, carta da parati e oggetti della stessa tonalità. C’era solo un problema: la tintura era altamente tossica, una miscela di rame e triossido di diarsenico. Le operaie che lavoravano alla sua produzione morivamo avvelenate: la schiuma alla bocca, occhi, unghie, stomaco, polmoni, tutto si tingeva di verde. 

Tornando alla radura francese sopra Verdun: un individuo intraprendente aveva costruito qui la sua capanna con il camino e il tetto ondulato, la finestra che affacciava sul giardino roccioso privato. Doveva sembrargli un luogo di grande serenità.

Vivere in uno spazio abbandonato vuol dire uscire dai radar, scomparire momentaneamente o per sempre, godere di una libertà anarchica

Tuttavia, anche la radura sterile, luogo simbolo di desolazione, ha messo in atto un processo di rivitalizzazione. Tutt’intorno, racconta Flyn, c’è un’aureola di piante. Sono licheni ricoperti di peluria e muschi soffici. Sono muschi e licheni di una specie particolare; le chiamano piante iperaccumulatrici, ovvero assetate di materiali che per altre piante sarebbero nocivi: vanno ghiotte di metalli pesanti. Li immagazzinano e li ridistribuiscono, preparando il terreno per altri organismi. E’ così che la natura inizia a rimarginare le sue ferite, anche quelle più difficili. 

Insieme a Cal Flyn visitiamo luoghi dove non immagineremmo mai di inoltrarci: spiagge dove sono state ammassate carcasse di navi in disuso; slum in mezzo al deserto dove si scappa dalla malvagità della città contemporanea e si usano i detriti trovati per creare colorate sculture; fondali di laghi evaporati interamente costituiti da ossa di pesci sbriciolate. Isole abbandonate dove a tornare selvatiche – a subire cioè un processo di rewilding – sono le mucche. L’isola di Swona, al largo della punta più settentrionale della Scozia, è stata abbandonata definitivamente negli anni Settanta dall’ultima famiglia che ci abitava. Eppure, chi la visita oggi trova il loro bestiame ancora lì. O meglio, trova i discendenti dei bovini abbandonati una notte del 1974. Dopo quarant’anni la loro natura è cambiata: sono diventati più difensivi, sono tornati a un istinto primordiale. Con una severa divisione gerarchica, sono una delle pochissime mandrie selvatiche esistenti al mondo. 

“Tutti questi luoghi, diversissimi per clima, cultura e storia, presentano le loro specifiche varietà di malinconia e speranza: osservandoli, impariamo che ogni posto, per quanto devastato, può trovare un modo tutto suo di riprendersi”. E’ tempo di allearci con la natura, di imparare qualcosa di fondamentale per la nostra stessa vita.

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