Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe stato possibile reinventare pure Manzoni

Marco Archetti

“Poco a me stesso”, il nuovo di libro di Alessandro Zaccuri.  Un gioco ambizioso, una continua variazione sul tema dell’identità. O meglio: di un’identità.

Quasi come Dumas. Alessandro Zaccuri si prende tutto il divertimento della reinvenzione narrativa e stilistica da feuilletton e consegna un romanzo che non è di cappa e spada solo per un pelo. E non lo è perché è altro, di più sofisticato: un gioco ambizioso, una continua variazione sul tema dell’identità. O meglio: di un’identità. Nella fattispecie, quella di Alessandro Manzoni. Che avrebbe potuto essere se stesso o, chissà, scrittura in controluce tra le righe di un’altra storia.

 

Il tema Zaccuri lo dichiara immediatamente, citando in apertura una frase tratta da un sonetto giovanile intitolato “Autoritratto” in cui l’autore dei Promessi sposi scrive: “Poco noto ad altrui, poco a me stesso / Gli uomini e gli anni mi diran chi sono”. In Poco a me stesso (Marsilio, 234 pp., 16 euro) ci sono uomini, anni, vicissitudini, rovesci, agnizioni e, a mo’ di postfazione, una “Giustificazione e congedo” nella quale Zaccuri mette le mani avanti ma anche un po’ indietro. “Non riesco più a ritrovare il quaderno nel quale per la prima volta, alla metà degli anni Novanta, ho provato a immaginare la storia di Evaristo Tirinnanzi”, scrive. Ma che importa? Perché seppur questa frase nasconda un gioco coi topos tutto rivolto a se stesso (sono i propri, quei bauli in cui Zaccuri dice di poter ritrovare il quaderno con un inizio di idea per questo romanzo, quaderno che però, di fatto, non ritrova – e questa è anche una storia di bauli), il romanzo gira alla perfezione intorno a un’invenzione-ipotesi che sa di “Sliding doors”, anzi, di un più nobile antenato – “Il caso o Destino cieco” di Krzystof Kieslowski. 

 

La centralità della figura di Evaristo Tirinnanzi, orfanello e poi contabile di palazzo Beccaria (“in Milano, nella via di Brera”, in cui il romanzo è in gran parte ambientato), uomo ambiguo e letteralmente doppio, è evidente, e in competizione con quella degli altri personaggi, tutti dotati di un segno descrittivo altrettanto vivace. C’è il rivoltante Faggini, manigoldo, strozzino, “mandrillo addobbato in foggia di dignitario”, uno che condanna a botte indicando col bastone, re e demonio del Bottonuto, quartiere purulento di questa Milano ottocentesca. C’è il fascinoso barone di Cerclefleury (ma è un barone?), seguace del mesmerismo (ma ha sul serio settant’anni pur dimostrandone venticinque?), allievo del Maestro Franz Anton Mesmer (ma si sono davvero conosciuti?), che irrompe, dopo una lunga peripezia di viaggio, in casa Beccaria, privato di bagaglio da numerose inefficienze burocratiche (ma è veramente disperso?) e che intanto tesse trame che coinvolgono la casa e le amicizie della contessina Giulia Beccaria.

 

Sì, c’è anche lei, ispirata alla madre di Manzoni, che fu figlia di Cesare e notoriamente grande inquieta, portò in dote il cognome che il figlio aggiungeva volentieri al proprio, meditò il convento e alla fine sposò un conte forse nemmeno conte, Pietro Manzoni appunto. Ma nel romanzo vive una vita diversa, contribuendo a innescare una serie di conseguenze che riguardano anche Alessandro, e sposando in sé (in sé personaggio) i se e i ma con cui non si fa la Storia ma si fanno le storie. Ossia: e se avesse abbracciato le teorie del mesmerismo? E se non si fosse sposata? E se avesse scelto di affidare il figlio a un istituto religioso, sorvegliandone la crescita e favorendone gli studi?

 

Meditazione sulla trama dell’esistenza attraverso l’esistenza di un’altra trama, prisma di sdoppiamenti e barbagli, vera e propria botola narrativa, vaso comunicante e felice travaso di stile, “Poco a me stesso” è un romanzo in cui si intravede, sfuggente, la sembianza manzoniana che aleggia e conferma la propria complicità e il riflesso col quale Zaccuri gioca, evocandolo (anche se è più giusto dire “insinuandolo”) e portando il lettore a perdersi in un gioco d’illusionismo, in un labirinto che sta tra il romanzo d’appendice e l’esercizio finissimo. Tra possibilità e verità, risposte che – come accade in ogni bel romanzo – complicano tutte le domande.
 

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