Foto Unsplash

Il libro

Il furore dell'infelicità, nella letteratura di Chaim Grade

Marco Archetti

Leggere “La moglie del rabbino” per trovare la cifra dello scrittore che si fece portatore di una visione laica dell’ebraismo, la sua letteratura piena di distanze incolmabili e lacerazioni. Dove ogni personaggio sa contenere mondi

C’è una bellissima scena isterica che esplode al centro dell’undicesimo capitolo de “La moglie del rabbino”, capolavoro di Chaim Grade pubblicato l’anno scorso dall’editore Giuntina per la prima volta in italiano – l’edizione originale è del 1974, l’opera è stata scritta e pubblicata un anno dopo la guerra del Kippur –, ed è una scena di rara potenza perché monta per otto pagine dopo che per dieci capitoli è stata preparata e presagita. La scena ha per splendida protagonista Perele, la nostra eroina infelice e rabbiosa, astuta e insaziabile, figlia di una star del rabbinato di Staripol, una donna che – diremmo, servendoci di un eufemismo – sa molto bene quello che vuole: per prima cosa, un marito diverso; poi un ex fidanzato che si penta, risarcendola della vergogna in cui l’ha gettata rifiutandola poco prima delle nozze; infine una comunità che le si stringa attorno concedendole il privilegio, che lei crede legittimo, di un’incondizionata ammirazione, di un compatto, unanime rispetto. In una parola sola: vuole una clamorosa rivincita personale.

 

Tutto ciò che Perele crede legittimo, però, non è ritenuto tale da chi le sta intorno. Né dai figli, né dal marito, men che meno da tutto il resto del mondo che lei sarebbe disposta a manipolare (infatti lo fa: infatti manipola, intriga, briga e dispone perché i conti tornino e la sua vita non sia una bancarotta dell’orgoglio e un trionfo avvilente della mediocrità), ma nonostante la solitudine dei moventi lei non si ferma, non conosce ostacoli, procede come un carrarmato e tutto travolge, tutto calpesta, minimizzando quel che va minimizzato, sottolineando quel che va sottolineato, distorcendo quello che, con opportunismo lietamente amorale, va distorto. Ma Perele sa bene che i giochi sono sempre seri e che non c’è riparazione se uno non va a cercarsela, se uno non la scova e non la persegue con la forza che può cavare da sé solo una donna offesa. E pazienza se hai sposato uno come Uri Zvi ha-Kohen Kenigsberg, pacifico rabbino di Graypeve, amena cittadina “grande come un fico” in cui non è possibile altro che “seppellirsi nella sabbia d’estate, nel fango in autunno e nella neve d’inverno” e alla mattina ci si sveglia “anchilosati come dopo aver dormito in una palude”; pazienza se sei madre di tre figli, i due maschi Yankel e Ghedalia, commercianti, che non appartengono alla cerchia dei maggiorenti della città né si sognano di diventarlo e preferiscono accontentarsi di quella condizione marginale, e di quella sciattona di Serel, una che dà sempre ragione al padre e lo giustifica nella sua indole, per quel capolavoro di mitezza e passività che è agli occhi di tutti, perché sì, tutti lo vedono, tutti sanno che è un uomo completamente privo di ambizioni, “semplicemente” un erudito e un predicatore che non desidera altro che starsene in un buco di provincia a godersi il niente che ha; e pazienza se Rabbi Moshe Mordechai ti ha rifiutato poco prima del matrimonio dicendoti che la ragione del suo gesto è che “non sei buona” (la moglie che aveva scelto subito dopo, Sara Rivka, aveva chiesto al marito come mai avesse rifiutato la figlia del rabbino di Staripol, sospettando all’improvviso di essere l’agnellino che quell’altra non era, sospettandosi versione dilavata della donna indomita che suo marito non aveva saputo governare, così lui l’aveva rassicurata e le aveva detto che nella sua famiglia le donne erano donne, non uomini, e che la moglie di un rabbino deve sapere come comportarsi coi notabili, essere cordiale con gli ospiti e non immischiarsi negli affari della comunità, cioè tutto quel che Perele non sarebbe mai stata, perché, al contrario, era una che “teneva il marito sotto la ciabatta”, una di quelle che subissano il consorte di consigli e lo sfiniscono con le pretese e le più aspre direttive, prendendo pian piano possesso della sua volontà e dirigendola a piacere finché tutta la città, fosse pure quella fossa fangosa di Graypeve, ride alle spalle di quello stesso rabbino umiliato, chiamandolo “il marito della rebetsin”).

 

Pazienza, pazienza, pazienza. Pazienza per questo e per altro: tanto Perele è una che non si arrende, è una abituata a darsi da fare per prendersi ciò che le spetta a qualunque prezzo e in qualunque condizione, anche se ciò che le spetta appare fuori portata, tanto sua quanto delle persone di cui deve servirsi. Ogni volta che se ne rende conto – cioè sempre, l’inettitudine di chi la circonda è il suo più grande incubo – Perele esplode. Sono gli unici momenti in cui, per un attimo, è visitata dall’angoscia, attraversata da una vena di resa alla fragilità, oltre che dal sospetto, con cui lotta ferinamente, di non farcela, di non potercela fare, di dover soccombere una volta per tutte alla nullità di suo marito, della sua famiglia e del proprio conseguente destino di comparsa malgré soi, nella cui anima macererà un’inevasa, focosa lista di eterne recriminazioni. 

 

Ma torniamo a quel capitolo undici che ce la rivela all’apice della violenta ribellione a ciò che ha intorno, mentre nulla le corrisponde. Torniamo a Perele: ha da poco ottenuto dal marito di traslocare a Horodne, la città in cui vive e regna il rabbino che la rifiutò a un passo dalle nozze, senonché il marito Rabbi Uri Zvi, nonostante sia stato accolto come predicatore, non vuole lavorare a un riconoscimento più prestigioso. Perele cerca di ricordarsi la bugia che si è raccontata, ossia che lei si trova a Horodne solo per stare vicino ai nipoti, ma la verità è un’altra, e per quanto lei cerchi di scacciarla per trovare un compromesso accettabile (la rare volte in cui), la conosce bene. La verità è che non sarà mai una classica nonna, perché, tanto per cominciare, vorrebbe aiutare Serel a mandare avanti quella casa-immondezzaio in cui vive, quella topaia disordinata e lercia in cui i figli si rotolano gridando e graffiandosi il naso vestiti alla bell’e meglio, topaia di cui, comunque, Serel vuole essere la regina incontrastata. A un certo punto glielo grida anche. “Non sopporto che con la scusa di farmi un favore tu venga a fare la padrona in casa mia!” e per poco non la sbatte fuori di casa anche il genero, quell’Ezra Eydlman che la tratta sempre con scortesia, mentre rinfaccia alla moglie che è uguale e sputata a sua madre. Così, dopo l’infausta visita dalla figlia, Perele va a trovare gli altri due. E si fa viva in negozio. Li trova indaffarati quanto i loro commessi, a correre come marionette su e giù con variopinte scatole di cartone, strisciando qua e là e inginocchiandosi ai piedi di “giovani mogli, lunghe, sottili e flessuose come molle” o “corpulente signore di mezza età in pesanti pellicce”, alla mercé delle richieste più capricciose di cafoni matricolati, vecchi stronzi, megere pittate e una marea di donne incontentabili e giovani viziati.

 

“Al mio Ghedalia” – si chiede Perele con un rammarico che la avvelena mentre guarda il maggiore dei due – “il figlio del rabbino di Graypeve e il nipote di quello di Staripol, tocca servire questi bifolchi dal muso di cavallo?”. Ebbene sì. E non solo: Ghedalia è pure raggiante per gli ottimi incassi, non fa caso a sua madre, e la degna di attenzioni solo per accompagnarla alla porta. Allora a Perele non resta che tornarsene a casa con dentro il fuoco della battaglia impossibile, con dentro l’infelicità delle retrovie e l’anima amareggiata dalla netta sensazione che le sia toccato un esercito familiare inadatto all’assalto. Appena apre la porta trova il marito che si dondola sulla Ghemarà con lo zucchetto piatto di velluto sulla testa, che non le chiede nemmeno come sta e non si scomoda per aiutarla a togliersi il soprabito. “Perele si guardò in giro nella stanza e all’improvviso vide che non c’era un mobile che fosse al posto giusto”. E allora pensa di rimboccarsi le maniche, ha bisogno di mettersi in movimento. Ma quando chiede aiuto al marito per spostare il canapé, lui cade dalle nuvole. Perché spostarlo? le chiede. Perché affannarsi? Non sta bene lì dov’è? “Tua figlia ti saluta”, gli ringhia contro Perele,  “anche lei vive nella spazzatura e nemmeno se ne accorge”. Così il marito si piega, acconsente, e i mobili vengono spostati. Ma quando rabbi Uri Zvi si rifiuta di procedere con altri ben più ingombranti cui sua moglie vorrebbe cambiare posizione perché “sembrano i banchi del mercato sparsi ovunque dopo una fiera”, ecco che Perele dà in escandescenze ed erutta una lava che tutto devasta: è colpa sua se i suoi figli non la rispettano – gli grida – del resto che esempio era stato per loro? Non li aveva mai spronati a raggiungere posizioni più ambiziose e gli andavano bene così, due bottegai schiavi del quattrino e una pazza che gli dava sempre ragione. E più Perele gridava, più Uri abbassava la testa, stupendosi di una cosa – ed è qui che arriva il capolavoro psicologico di Grade – cioè del fatto che sua moglie Perele era una donna razionale e intelligente e lui non riusciva proprio a capire quale fosse la relazione tra il cambiare posto ai mobili, i loro figli, e la sua carica di rabbino. Ma la relazione c’è, ed è la sconfitta, la distanza incolmabile tra i desideri e la realtà e le mille lacerazioni che ne derivano. 

 

In un certo senso, di distanze incolmabili e di lacerazioni è piena tutta la letteratura di Chaim Grade (per lo meno quella che abbiamo potuto leggere, augurandoci che Giuntina non si fermi qui, anzi, chiedendo apertamente, da queste pagine, che non lo faccia). Nato nella Gerusalemme di Lituania, a Vilna, nel 1910, figlio di un illuminista in attrito con le autorità rabbiniche e di una madre tradizionalista, cresciuto tra venti di secolarizzazione e accademie di “musernikers” (i “moralisti”) nel clima di autorevolezza intellettuale, spirituale e politico lituano, attratto in gioventù dalla poesia e poi, nel 1941, sotto l’avanzata funerea delle armate naziste costretto a fuggire da quel paese che racconterà instancabilmente per tutta la vita, approdato prima in Unione sovietica, poi in Polonia e a Parigi, quindi negli Stati Uniti dove scoprirà la scrittura in prosa e nel 1982 morirà, Chaim Grade è scrittore – appunto, sempre – di grandi distanze: tra il passato e il futuro, tra una cultura conservatrice e una progressista, tra le cause del mondo e le conseguenze degli uomini, distanze rivelatrici di lacerazioni che ardono alla luce di un presente sempre diviso tra i fantasmi del passato (politici, personali, ideologici) e uno spasmodico bisogno di superarlo.

 

Alla luce di questa sintesi, risulta particolarmente adatto ed emblematico il titolo del secondo volume uscito pochi mesi fa, sempre per Giuntina, “Fedeltà e tradimento”: nel primo dei due racconti che costituiscono il volume, i giovani Gavriel e Asne sono alla prese con l’inevitabile strazio di una vita che, forse, si allontanerà dalle promesse fatte al padre in punto di morte; nel secondo, splendidamente teatrale nella struttura – si tratta di un serrato confronto tra Hersh Rasseyner, un intransigente studioso di Torà, e Chaim Vilner, amico ed ex compagno di studi, meno intransigente, meno sicuro, irrimediabilmente lacerato dall’esperienza della Shoah.

 

Ma è anche, sempre, quella di Grade (per fortuna) letteratura di personaggi. Non la si immagini per pochi né per pochissimi, o addirittura per un esiguo mazzetto di interessati al mero dibattito religioso o filosofico interno al mondo spirituale ebraico, perché non è così, e arenati nell’equivoco si rischierebbe di perdere l’occasione di conoscere un autore universale, profondissimo e capace di sorprendente fluidità (merito da condividere con Anna Linda Callow, che lo traduce in modo da esaltarne le caratteristiche). Ogni personaggio di Grade è un manuale di scrittura e un organismo vivente: cesellato con abilità e pochi tocchi, sa contenere mondi. Ogni personaggio è capace di raccontare conflitti che lampeggiano nell’anima di chiunque, ed è proprio questo che rende i romanzi di Chaim Grade capaci di raggiungere i fondali e le cime di ogni genere di lettore: perché ognuno di noi ha dentro una Lituania cui vorrebbe tornare, ognuno di noi è strabico e guarda indietro credendo di guardare avanti, ognuno di noi è diviso tra rigore e volubilità, tra fedeltà a se stesso e tradimento di qualcun altro, ognuno sanguina a modo suo nella battaglia per la quale non sa se, alla fine, sarà valsa tanta pena, tutta la fatica, e la troppa stanchezza. Ognuno di noi vacilla tra ombre e densità, tra desideri e delusione. Ne va del significato della vita. E il significato della vita è ciò di cui si occupa la grande letteratura, la domanda che mette a ferro e fuoco il cuore degli uomini.

Di più su questi argomenti: