"Fedeltà e tradimento" di Chaim Grade

Marco Archetti

Un teatro a due voci che indaga i fondali dell’umano. E non è Dostoevskij

C’è una sorprendente qualità che sfavilla cristallina nel racconto lungo “La mia contesa con Hersh Rasseyner”, racconto che compone, insieme a “Il giuramento”, l’opera Fedeltà e tradimento (Giuntina, 200 pp., 18 euro, traduzione di Anna Linda Callow) dello scrittore Chaim Grade. Una qualità profonda, vertiginosa come l’indagine che conduce, che si serve delle voci di due ex compagni di studi. Si tratta di Chaim, poeta di successo e portatore di una visione laica dell’ebraismo, e di Reb Hersh, intransigente studioso di Torà e sfasciatore di tutti i leggii per la foga con cui si dà ai testi di morale. Dopo essersi incrociati mille volte nella vita, i due si fronteggiano dialetticamente, in un pugilato filosofico e personale, a Parigi, su una panchina nei pressi dell’Hôtel de Ville. Immaginate due uomini che sono stati vicini e adesso sono lontani, due uomini che la Storia ha unito e poi disperso, due amici in fondo nemici, anime diverse eppur simili e similmente combattute, ognuna alle prese coi propri criteri morali, col travaglio e il tentativo di far valere un significato dell’esistenza e di capire non solo da dove venga il male, ma dove vada, e che effetti produca; ognuno preoccupato anche di rassicurare se stesso e di rinfacciare all’interlocutore ottusità e scarsa conoscenza dell’essere umano per far prevalere definitivamente la propria etica – quella religiosa contro quella razionalista, quella che cerca nel Libro il senso e quella che nei libri insegue solo i dubbi. “Nemmeno i lager hanno reso l’uomo diverso”, afferma a un certo punto Chaim accusando reb Hersh di voler addomesticare il mondo con valori inadeguati alla complessità dell’epoca e della vita. “I filosofi sono mai riusciti a rendere migliore un popolo?”, ribatte Hersh.

E così, ecco un pezzo di magnifico teatro a due voci che, testimone il lettore, si dispiega per cinquanta pagine. Un dialogo serrato eppure disteso, che si muove secondo partiture dostoevskiane, non fosse che ha luogo all’aperto e non in un tugurio, non fosse che questa non è letteratura russa ma, indubbiamente, le fa concorrenza quanto a inesausta volontà di indagare i fondali dell’umano e nel carattere con cui affronta i grandi assoluti: il bene, il male, l’uomo, la vita, la morte. E la Shoah. “Per tutti gli anni della mia giovinezza ho camminato con gli occhi fissi a terra per non vedere il mondo. E’ arrivato il tedesco, mi ha preso per la mia barba ebraica, mi ha tirato su la testa e mi ha costretto a guardarlo dritto negli occhi. E ho conosciuto il vero volto del mondo”.
Nel primo racconto della raccolta, invece, Chaim Grade racconta un pezzo di Lituania ebraica tra le guerre nel solco di una narrazione appartenente alla cosiddetta yiddish renaissance di questi anni, quella – si perdoni l’approssimazione – singeriana cui il lettore italiano è abituato. E ci regala la storia di Bat Sheva, una donna che, rimasta vedova, cerca di garantire il compimento della promessa fatta al padre dal figlio Gavriel, di diventare uno studioso, sorvegliando nel frattempo anche la vita della figlia, più attratta da uno scapestrato comunista che dagli ambienti dell’ebraismo ortodosso: pagine di grande bellezza, tra le quali sboccia la splendida figura del rabbino Avraham Abba Zelikman.

Infine, lo si dica con sollievo, finalmente una postfazione che serve a comprendere meglio ciò che si è letto e non è una capriola narcisistica di chi, scrivendo, ci racconta il “suo” Grade: qui Grade è raccontato per ciò che è, per ciò che ha rappresentato. E siamo più nei dintorni del saggio breve che dell’elucubrazione arruffa-lettori.

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