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La grande schiavitù digitale. Intervista all'economista Babeau

“La rete doveva essere il nuovo paese dei balocchi. Ora dobbiamo liberarci dalla sua iperdemocrazia numerica che ci rende schiavi”, dice l'autore del libro "Le nouveau désordre numérique"

Giulio Meotti

Il saggista francese Olivier Babeau: "La rivoluzione digitale non ignora i valori tradizionali. Al contrario, ne è ossessionata. Offre una teleologia alternativa. Il suo obiettivo principale è distruggere il vecchio ordine". E poi: "La tolleranza è diventata una sorta di antifrasi, come il Ministero della Verità in ‘1984’ o la democrazia in Cina. Non è più concepibile pronunciare un discorso contrario alla doxa. I vestiti che il progressismo fa indossare alla democrazia sono in realtà il suo sudario"

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Una società è organizzata attorno a tre tipi di relazione: lo scambio commerciale in un’economia di mercato; il vincolo sociale, che si basa sulla professione esercitata e sul livello di ricchezza, e l’accesso alla conoscenza, che si basa sul sistema educativo e sulla circolazione delle informazioni. La rivoluzione digitale avrebbe dovuto essere una panacea in queste tre aree, aumentando la concorrenza e promuovendo lo scambio, ampliando e arricchendo i rapporti personali, mettendo a disposizione di tutti una massa considerevole di conoscenze e consentendo di elevare il livello culturale della popolazione. Invece, le nuove tecnologie che cancellano le distanze hanno amplificato le divisioni, il “capitalismo cognitivo” ha bloccato la scala mobile sociale e acuito il divario culturale, i “Gafa” (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno creato un immenso monopolio economico e ideologico, la popolazione si è isolata sempre di più e l’odio ha visto una crescita esponenziale. E’ Le nouveau désordre numérique, l’ultimo libro di Olivier Babeau, saggista liberale, fondatore dell’Istituto Sapiens, docente di Economia all’Università di Bordeaux ed editorialista di Les Echos.

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Una società è organizzata attorno a tre tipi di relazione: lo scambio commerciale in un’economia di mercato; il vincolo sociale, che si basa sulla professione esercitata e sul livello di ricchezza, e l’accesso alla conoscenza, che si basa sul sistema educativo e sulla circolazione delle informazioni. La rivoluzione digitale avrebbe dovuto essere una panacea in queste tre aree, aumentando la concorrenza e promuovendo lo scambio, ampliando e arricchendo i rapporti personali, mettendo a disposizione di tutti una massa considerevole di conoscenze e consentendo di elevare il livello culturale della popolazione. Invece, le nuove tecnologie che cancellano le distanze hanno amplificato le divisioni, il “capitalismo cognitivo” ha bloccato la scala mobile sociale e acuito il divario culturale, i “Gafa” (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) hanno creato un immenso monopolio economico e ideologico, la popolazione si è isolata sempre di più e l’odio ha visto una crescita esponenziale. E’ Le nouveau désordre numérique, l’ultimo libro di Olivier Babeau, saggista liberale, fondatore dell’Istituto Sapiens, docente di Economia all’Università di Bordeaux ed editorialista di Les Echos.

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“Da un lato quelli che sono tutto, dall’altro quelli che non sono niente”, ci dice l’economista e saggista francese 

   

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“Il digitale ha consentito un’aggregazione di dati, persone e opinioni senza precedenti” racconta Babeau al Foglio. “Rimuovendo le barriere tecniche e fisiche alla comunicazione, ha causato l’accumulo sproporzionato di poteri economici e posizioni sociali. In una società della conoscenza in cui il lavoratore deve essere complementare a un’intelligenza artificiale che si assume facilmente tutti i compiti non trasversali, compaiono due categorie: da un lato, i lavoratori strapagati e iperconnessi; dall’altro, quelli le cui competenze non sono più necessarie. Da un lato quelli che sono tutto. Dall’altra quelli che non sono niente. La tradizionale società ‘a diamante’ sta scomparendo a favore di una società ‘a clessidra’. Più i due mondi sono separati, meno concepibile sarà per un membro della classe inferiore raggiungere l’altra estremità dello spettro sociale”. 

 
Internet ha tradito la sua   vocazione e il suo manifesto originari. “Avrebbe dovuto portare a un mondo unificato e parificato. Avrebbe dovuto cancellare le differenze. Aprendo le porte all’innovazione, alla mobilità sociale e alla comprensione, avrebbe dovuto dare a ogni azienda,  individuo e paese i mezzi per la propria emancipazione e sviluppo. Che disillusione! Tutto è a portata di clic. Ma la conoscenza, ad esempio, non è facilmente accessibile. La tecnologia digitale ha abolito gli intermediari, ma ha eretto enormi barriere che tagliano in due il mondo. Abbiamo una divisione dove ci aspettavamo l’unificazione e l’incipit  del Messia di Händel che cita il profeta Isaia: ‘Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati’. Internet fa esattamente l’opposto: accentua le dominazioni e sminuisce chi è sottomesso”. 

 

“La polizia del pensiero pretende di governare tutto. La realtà è chiamata a piegarsi all’egemonia della morale del momento”

    
I social intanto estremizzano il dibattito. “La moderazione tanto celebrata nell’antichità, la tendenza al centro e a emarginare gli estremi stanno svanendo di fronte a uno spettacolare trionfo dell’arroganza in tutti i campi. Non è più l’eccesso dionisiaco, controbilanciato da Apollo, tanto adorato dagli antichi greci, ma l’oblio dei limiti. Nel suo dialogo sulle leggi ideali di una città, Platone dedica la prima a ‘Zeus protettore dei punti di riferimento’. La pietra miliare è ‘quella piccola pietra che segna il confine tra amicizia e odio’. Senza limite, non c’è forma o unità. Oggi viviamo in una crisi di limiti: le idee si muovono alla velocità della luce, la nostra attenzione è continuamente distratta da notifiche incessanti, le capitalizzazioni di mercato stanno raggiungendo i massimi storici… Tutto questo sta sconvolgendo il nostro cervello, la nostra economia e le nostre istituzioni”.

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Prolifera il conformismo digitale, una minaccia per la società aperta. “I social, concepiti come luoghi di emancipazione, diventano macchine per produrre pensiero estremo, emarginare sfumature. Le minoranze si organizzano in branchi per mettere a tacere le opposizioni. L’iper-democrazia prodotta dalla tecnologia digitale non può che portare all’altro estremo: la dittatura. I due poli si uniranno nello stesso schiacciamento del diritto di proprietà e della volontà individuale. La dittatura del Bene divorerà tutto ciò che sarà alla sua portata. Nel suo libro Liberal Fascism and the Tolerance Myth, Andy Brown denuncia con forza lo stupefacente capovolgimento per cui una corrente di pensiero nata da un’opposizione ai dogmi conservatori è arrivata a incarnare una nuova forma di ortodossia. In pratica, la tolleranza è diventata una sorta di antifrasi, come il Ministero della Verità in 1984 o la democrazia in Cina. Non è più concepibile pronunciare un discorso contrario alla doxa. Qualsiasi dibattito viene immediatamente squalificato. Dubitare è opporsi. Mettere in discussione è criticare. I discorsi progressisti sono gradualmente diventati un arsenale che pretende di proibire ogni discorso alternativo. La polizia del pensiero pretende di governare tutto, riscrivere la storia, mettere a tacere i fatti imbarazzanti. La realtà è chiamata a piegarsi all’egemonia della morale del momento. Alla scienza viene chiesto di collaborare, confermare o tacere. Anche l’ortografia deve subire i peggiori oltraggi per diventare ‘inclusiva’, anche se significa sconvolgere la parola. Questo è proprio l’interesse di dare priorità al messaggio ideologico della forma rispetto al contenuto stesso. Il progressismo e il suo seguito di ‘guerrieri della giustizia sociale’ stanno preparando inconsapevolmente terribili regressioni”. 

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Le contraddizioni sono evidenti a tutti, almeno a chi vuole vedere: “Indignazione a geometria variabile, censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione… Quella che una volta era chiamata correttezza politica continua a fiorire in raffinatezze inaudite, declinando all’infinito con i suoi nuovi precetti morali. Vegani, antispecisti e altri ‘ultras’ del nuovo progressismo stanno conducendo una guerra linguistica terribilmente efficace, riuscendo a imporre il proprio vocabolario. Questa radicalizzazione non è il risultato naturale della dinamica egualitaria, ma il suo decadimento. L’ossessione progressista è il segnale paradossale di un esaurimento della dinamica dei diritti umani guidato dall’Illuminismo. Culminando in un’intolleranza di vedute esattamente come quella da cui secoli fa si voleva liberare l’umanità, il progressismo fanatico segna la decomposizione dell’Illuminismo anziché il suo perfezionamento”. 

 

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“I vestiti che il progressismo fa indossare alla democrazia sono  il suo sudario. Anziché il culmine, è la negazione della democrazia”

  
Un’intolleranza che si trasforma rapidamente in violenza: “Viviamo in un’epoca in cui la confederazione francese dei macellai deve chiedere la protezione della polizia contro la violenza di piccoli gruppi vegani”. L’estremismo progressista è solo l’eco dell’estremismo conservatore. “Condividono la stessa ostinata certezza di incarnare il Bene a esclusione di qualsiasi altro sistema morale, la stessa violenza di fronte a qualsiasi forma di dibattito. Mentre ci concentriamo sulla rimozione degli ultimi segni di patriarcato, la libertà di fare e di dire ciò che si vuole è oggetto di attacchi senza precedenti. Una scrittura inclusiva e l’ormai pervasivo stigma del ‘cisgender non razzializzato’ sono facili vittorie simboliche che mascherano l’oggettivo declino dello status femminile e del rispetto reciproco. Il rumore di questi pseudo avanzamenti nasconde una musica inquietante. Poiché le fondamenta dei nostri standard culturali sono minate dalle nuove culture, crediamo di aver trovato una scappatoia nell’innalzamento sempre più urgente di spettacolari frecce egualitarie”. Paradosso: “Più ragioniamo sulla nostra uguaglianza e più sofistichiamo i nostri meccanismi di equivalenza, più la debolezza del nostro sistema di valori diventa evidente, tremando di fronte ai suoi nemici dichiarati. L’estrema sensibilità a tutto ciò che potrebbe suggerire il vecchio ordine della società e ai presunti meccanismi di oppressione onnipresenti è paragonabile a una fuga formidabile dalla realtà”.

 
 La Cina e altre dittature sono state molto sagge e occhiute nell’usare la rivoluzione digitale occidentale per fortificare le proprie distopie. “Di fronte a tecno-dittature ciniche e metodiche, le democrazie non solo soffrono di un deficit politico di testosterone. Non sono solo afflitte dall’incapacità di decidere e dalla mancanza di ambizione. Il male è molto più profondo. Non è un’inferiorità passeggera, che sarebbe la conseguenza di una svolta tecnologica, ma  un masochismo che ci conduce in una spirale di autoironia. E’ la sindrome di Münchhausen, una malattia psichiatrica molto grave in cui il paziente finge malattie fisiche che lui o lei non ha per ottenere attenzione e compassione. Questo è esattamente il male di cui soffriamo. Passiamo il nostro tempo lamentandoci di crimini immaginari ed esagerando i nostri difetti. I paesi occidentali sono immersi nell’isteria della vittimizzazione. La tecnologia digitale ha conferito a questi impulsi malsani una dimensione particolarmente grave. Stiamo diventando democrazie caotiche incapaci di riformarsi di fronte a tecno-dittature regolamentate come la Formula 1”. 

   

“Rischiamo un totalitarismo molto più formidabile di quello del XX secolo, perché avrà il sostegno della tecnologia”  

  
Sembra che questa rivoluzione digitale sia impermeabile a qualsiasi discorso su religione, cultura, identità. “La mia sensazione è che la rivoluzione digitale non ignori i valori tradizionali. Al contrario, ne è ossessionata. Offre una teleologia alternativa. Promuove l’avvento di una nuova religione che, come ogni religione, è concepita sia come il culmine, il superamento e l’annullamento di tutte le precedenti. La tirannia dei puri non riguarda solo l’introduzione di nuovi standard. Il suo obiettivo principale è distruggere il vecchio ordine. Ottiene una damnatio memoriae, un’eradicazione della memoria metodica di ciò che ci ha creati. La dittatura della purezza è incarnata in modo spettacolare in una forma di ecologia inferocita, del tutto paragonabile a quei rivoluzionari promotori delle soluzioni più radicali. Nessuno può essere contro il progresso senza essere una specie di nemico dell’umanità. Come una religione, il progressismo ha i suoi dogmi, i suoi sacerdoti, i suoi tribunali, le sue scomuniche e le sue pire. Come una religione, non è lì per affrontare la realtà e adattarsi a essa, a differenza della scienza, ma al contrario per dettare la realtà, per imporre interpretazioni. Come una religione, vede se stessa come l’unica vera fede e presume il resto del mondo in errore. Come una religione, il progressismo crede che la coercizione, e talvolta la violenza, sia essenziale per garantire la diffusione delle sue convinzioni. Il ‘progressismo’ non è, o non è più, la preferenza per il progresso tecnologico. E’ pura moralità. Dietro questa parola, dobbiamo comprendere il desiderio sistematico di estirpare la maggior parte delle tracce di vecchi modi, ritenuti malsani. Il progressismo è la denuncia delle onnipresenti ‘relazioni di dominio’. Parole, libri, istituzioni, abiti: tutto va riscritto, cambiato, reinventato, soppresso, per far posto a una modernità libera da questi inestetismi. Il progressismo afferma di essere il culmine della logica democratica. Con i suoi metodi, il suo programma, ne è invece la negazione. I nuovi vestiti che afferma di mettere addosso alla democrazia sono in realtà solo il suo sudario”.

  
Come spesso accade, la letteratura si rivela un’anticipazione  lungimirante della realtà. “Oggi siamo tutti come Pinocchio nel Paese dei Balocchi. La magia dell’economia di mercato basata sul consumo di massa è la sua maledizione. Tutto è fatto per comprendere i nostri desideri e soddisfarli, se ne abbiamo i mezzi. Il XX secolo, col suo marketing trionfante e il suo entusiasmo pubblicitario, ha tutte le tecniche per manipolare il nostro comportamento. Man mano che apprendiamo di più su come funziona il cervello, queste tecniche potrebbero diventare più efficaci. La rivalità delle aziende per conquistare un posto nel nostro cervello, per grattare una briciola della nostra attenzione, è sempre più forte. In questo gioco di irruzione nelle nostre menti, diventeranno formidabilmente efficaci. Oggi, un consumatore è come Ulisse sulla propria barca. Sa che passerà davanti allo scoglio delle sirene che cercheranno di sedurlo per divorarlo meglio. Ma si sforza di resistere. Ma come restare sordi a queste sirene il cui canto sarà irresistibile? Lo stesso Odisseo ha chiesto al proprio equipaggio di legarlo all’albero della nave in modo da non tuffarsi. Chi verrà ad aiutarci per non soccombere? La capacità di resistere alla pressione e alla manipolazione è una delle grandi sfide del secolo. Dobbiamo trovare il modo di resistere all’infinito assalto delle notifiche. Dobbiamo riguadagnare la nostra capacità di concentrazione. Chi avrà la forza di resistere ai miraggi della realtà virtuale, necessariamente mille volte più perfetta della nostra? Possiamo temere un massiccio abbandono di individui che rinunceranno a questa vita per diventare una specie di morti viventi, collegati al flusso di immagini, suoni e sensazioni artificiali”. 
Se questa rivoluzione avrà pieno successo, che tipo di società dovremo affrontare? “La polarizzazione del mondo è una ferita aperta”, conclude Babeau. “Né l’economia, né la società, né la politica possono vivere armoniosamente in questo equilibrio malsano. Se non sapremo come cambiare le nostre istituzioni, sfruttare il potere prometeico delle nuove tecnologie, aiutare la società ad acquisire nuovi equilibri e l’umanità a forgiare una nuova identità, rischiamo di scatenare la violenza. Gli spasmi politici porteranno a nuovi episodi di totalitarismo ancora più forti di quelli che il XX secolo ha conosciuto, perché avranno l’enorme sostegno della tecnologia per controllarci”. 

 
Di fronte a questo naufragio della postmodernità, incapace di mantenere le  promesse di felicità, torna in mente una frase del filosofo e scrittore russo Nicolaj Berdjaev: “Le utopie sembrano essere molto più realizzabili di quanto si credesse in precedenza. E attualmente ci troviamo di fronte a una domanda molto più angosciante: come evitare la loro realizzazione e tornare a una società meno utopica e ‘perfetta’, ma più libera?”.

 

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