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Da Renzo Arbore a Lucio Dalla

Catalogo degli artisti stregati dalla luna a Napoli

Francesco Palmieri

Milioni di visualizzazioni su YouTube, ammiratori da tutto il mondo. Non serve esserci nati per scegliere la città partenopea. Basta mettere al centro la musica e vestirsi della sua lingua. Così disincanto ed enfasi hanno reso eterne certe canzoni

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Caro Jovanotti, lascia perdere Caruso e Lucio Dalla. Sì, perché le due riscritture del celeberrimo brano, presentate dal cantautore romano quest’estate, sono solo un’eco smorzata dell’originale, che fu la più compiuta parafrasi di una canzone napoletana. Riuscì per caso magico a Lucio Dalla ed è storia nota. Costretto a fermarsi una notte a Sorrento, al Grand Hotel Excelsior Vittoria ebbe la suite dove Enrico Caruso aveva trascorso gli ultimi giorni di vita nel 1921. Fantasticando, fumando e riflettendo nelle sparute ore insonni, Dalla abbozzò le parole e la modesta cellula melodica. Da un testo che ricombina (e scombina) Dicitencello vuje e Te voglio bene assaje, con romantica imprecisione, alle vicende biografiche del grande tenore, sortì la straordinaria operazione alchemica di una canzone che avrebbe scavalcato gli oceani.

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Caro Jovanotti, lascia perdere Caruso e Lucio Dalla. Sì, perché le due riscritture del celeberrimo brano, presentate dal cantautore romano quest’estate, sono solo un’eco smorzata dell’originale, che fu la più compiuta parafrasi di una canzone napoletana. Riuscì per caso magico a Lucio Dalla ed è storia nota. Costretto a fermarsi una notte a Sorrento, al Grand Hotel Excelsior Vittoria ebbe la suite dove Enrico Caruso aveva trascorso gli ultimi giorni di vita nel 1921. Fantasticando, fumando e riflettendo nelle sparute ore insonni, Dalla abbozzò le parole e la modesta cellula melodica. Da un testo che ricombina (e scombina) Dicitencello vuje e Te voglio bene assaje, con romantica imprecisione, alle vicende biografiche del grande tenore, sortì la straordinaria operazione alchemica di una canzone che avrebbe scavalcato gli oceani.

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A oggi, 40 milioni di visualizzazioni su YouTube attestano un successo che dal 1986 ha sbriciolato ogni critica e se n’è beffato, mentre lo interpretavano anche Pavarotti, Murolo, Bocelli, Al Bano. I commenti degli internauti americani, francesi, brasiliani, romeni, spagnoli attestano Caruso fra i brani d’amore più belli presumendolo nel repertorio storico napoletano. Alle creazioni destinate a diventare un classico succede così, che appena pubblicate la loro nascita si smarrisce in una nuvola priva di tempo in cui la data non risulta necessaria. Al di là del pregio artistico e al di qua della filologia. Per la riuscita, Dalla adoperò tre ingredienti tutti legati alla peculiarità di Napoli: la lingua, il protagonista della storia e lo scenario – Sorrento – dove persino il cuore di cinesi e giapponesi sa che bisogna tornare (anche se i fratelli De Curtis composero il rinomatissimo Torna a Surriento con l’intento pragmatico di salutare il presidente del Consiglio, Giuseppe Zanardelli, che terminava una vacanza nel 1902, per perorare l’apertura del sospirato ufficio postale nella cittadina). E’ al panorama delle “notti là in America” immaginate oltre il Golfo che Caruso s’era rivolto, ottenendo contratto stabile e duratura fama al Metropolitan di New York; ma è il Golfo il panorama di cui ha beneficiato la canzone di Dalla e che ha accompagnato il successo globale di incanti e disincanti della fiction negli anni più recenti, come L’amica geniale di Elena Ferrante. Anche laddove il mare si vede poco o niente perché, parafrasando un titolo abusato di Anna Maria Ortese, non bagna certi lembi della città.

 

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C’è sempre desiderio di Napoli nel mondo, sicché vestirsi della sua lingua anche se non è la propria, a patto di amarla, ha funzionato da lasciapassare artistico per Dalla come per l’ornamentale napoletanismo di Renzo Arbore con la sua Orchestra Italiana. Filologi e puristi storcono il naso ma infine se ne fanno una ragione. E’ il destino di un’ex capitale: la bigiotteria finisce in vetrina assieme alle gemme e all’oro a diciotto carati. Non potrebbe essere altrimenti per la città che ha coltivato, anche dopo il dissolvimento del Regno, il concetto immateriale di “nazione napoletana”, come la definì Antonio Ghirelli. Napoletano pertanto s’è fatto Arbore il foggiano come napoletano si fece l’altro pugliese Domenico Modugno, cantando Resta cu’ mme o Tu sì ‘na cosa grande (reinterpretata successivamente da Renato Zero) oppure, con le parole del “partenopeo in esilio” doc, Riccardo Pazzaglia, intonando Io, màmmeta e tu, Lazzarella e ’O ccafè del 1958. Fu un ricalco musicale di quest’ultima l’ironica Don Raffaè di Fabrizio De André, al quale nel 1990 riuscì l’operazione alchemica sulla base dei tre ingredienti ben sposati alla peculiarità di Napoli, di cui due già usati da Dalla: la lingua e il personaggio, in questo caso non il tenore incantatore ma il disincantatore boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo; per terza cosa, invece dello scenario iconico (Sorrento), l’artista genovese sfruttò il topos della napoletanità: il caffè, secondo solo alla pizza o terzo considerando il mandolino. La differenza, notò lo scrittore Francesco Durante, è che nel brano di Modugno la musica resta in modo minore, mentre in De André “dopo il minore dell’introduzione, il ritornello si scioglie in un rassicurante maggiore”. Non sono dettagli: il marchio del neapolitan sounding ha poggiato oltre che sulla lingua su riconoscibili stilemi armonici, di cui l’accordo di sesta napoletana resta principe per chiunque voglia imprimere a una composizione coloritura vesuviana. Questa fu arte, o mestiere, dei maggiori musicisti della canzone classica, primo fra tutti Mario Pasquale Costa, tarantino di madre e di nascita come Giovanni Paisiello, ma per l’altra metà e per formazione napoletano (come il maestro Riccardo Muti, nativo di Molfetta però napoletano di madre). Costa campeggia nel repertorio fra Otto e Novecento, epoca d’oro della canzone, fosse solo per avere messo in musica Era de maggio di Salvatore Di Giacomo e Scétate (diluvio di seste napoletane e spagnolismi) dell’altro straordinario poeta Ferdinando Russo. Quando non era ancora New York ma Parigi la capitale artistica del mondo, e la metropoli che più influiva sulla cultura e i gusti napoletani, Costa seppe fare import-export di suggestioni artistiche tra i café chantant del Vesuvio e quelli della Ville Lumière, intercettando con una canzone di cui scrisse anche il testo il fenomeno imponente delle sciantose: ’A Frangesa, la francese, sapida parodia di una di queste Sirene minori e incantatrici, improbabili ma seducenti, zoccole e dive, fini e ignoranti, che scipparono cuori e portafogli della meglio gioventù (ma anche della peggior vecchiaia) napoletana fra il Salone Margherita e il Cirque des Variétés.

 

Incanto e disincanto che la colonia dei “napoletani a Parigi” (pittori, letterati, giornalisti) assaporava nel pendolarismo fra le due città, a dispetto del lungo viaggio in treno passando per Torino e Modane, scendendo all’alba nella capitale francese e prendendo alloggio – se le finanze permettevano – al modernissimo Hotel Terminus (oggi Hilton Paris Opera) dotato di tutti i comfort elettrici, persino il controllo centralizzato delle luci nella stanza, dove facevano il pieno di stranianti avventure che avrebbero descritto (esagerando o sminuendo) una volta tornati al Caffè Gambrinus o di cui avrebbero scritto sulle pagine del Mattino. Quelle avventure diventavano qualche volta canzoni e le canzoni si riversavano nella vita confondendo biografia e musica, amore e disamore: nella parodia del maestro Costa sulla sciantosa o nella tragedia del maestro Carlo Mirelli, il quale riarrangiando il pezzo La regina del contado per la divetta Yvonne De Fleuriel se ne invaghì troppo e – respinto – si uccise gettandosi dal balcone. Profetici erano i versi sciapi della canzone: “La mia bocca non si bacia, no! La mia mano non si tocca, no!”. Ma Mirelli seguiva più la melodia che il testo e notava più i brillanti che lei s’era fatta incastonare nei denti che le parole pronunciate da quella bocca inespugnabile. In realtà Yvonne, proprio come la Frangesa di Costa e molte altre colleghe, di parigino aveva solo il nome d’arte. Si chiamava veramente Adelina Croce e veniva da Teano, ma francesi o italiane che fossero queste Sirene in paillettes nel loro strascico di incanti tramutati in disincanti sarebbero inciampate per prime. Come Gabrielle Bressard, infatuata del giornalista Edoardo Scarfoglio e suicida davanti alla soglia di casa sua. Come Maria De Browne, uccisa per gelosia dallo scultore Filippo Cifariello, che l’aveva sposata, dopo una lite esacerbata all’alba dallo champagne in una pensioncina di Posillipo.

 

Per fare scudo al cuore bisognava ricorrere a un minimo sindacale di cinismo ma meglio se era di più, come quello di cui era dotato per indole e mestiere il re dei cronisti mondani, Ugo Ricci: “Tina Perla, mal fatta e mal vestita, / gesticola, sgonnella, si dimena… / Io distolgo lo sguardo dalla scena / e m’occupo a sorbir mezza granita”. O bisognava avere l’ironia di Costa e di un altro musicista baciato dai trionfi, Francesco Paolo Tosti, il quale si struggeva di nostalgia per Napoli ma s’era splendidamente sistemato a Londra: quando Costa andò a trovarlo a casa, una sera ch’erano presenti altri colleghi tra cui Luigi Denza (autore di Funiculì funiculà), Tosti pregò il cameriere di annunciare l’arrivo dell’amico con speciale solennità. Pertanto, non appena il domestico ebbe finito di scandire “Mister signor commendator Pasquale Mario Costa”, partì a tempo perfetto una intonata orchestra di pernacchi dalle bocche degli illustri artisti che amavano giocare.

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Ci voleva, d’altra parte, commozione e disincanto, empatia sì ma scherzosa per mettere le note giuste sotto una poesia come ’A vucchella, scritta da un altro non napoletano che prendeva a prestito la lingua: Gabriele d’Annunzio, il quale volle vincere così con Ferdinando Russo la scommessa di firmare un brano dialettale. Lo fece con la libertà di definire quella vucchella, la boccuccia, con l’aggettivo di appassuliatella (alquanto appassita), introducendo nel napoletano una parola inesistente che però gli avrebbe asseverato lo stesso Di Giacomo rubandola più tardi. E il bello è che ’A vucchella, sottotitolo ufficiale Arietta di Posillipo, quindi un prodotto ipernapoletano, fu opera di due abruzzesi, essendo Tosti originario di Ortona in provincia di Chieti, e che la cifra musicale di questa romanza era tipicamente francese. E il bello è ancora che col suo reinventato napoletano diventò il cavallo di battaglia di Enrico Caruso, il quale ne fu sempre grato a Ciccio Tosti di cui stimava peraltro le qualità di cantante. Scrivendo alla moglie Dorothy dopo una serata a Denver, il 9 ottobre 1920, nel suo (anch’esso reinventato) inglese, Caruso si compiaceva: “A very funny thing is that everybody knows ’A vucchella, and soon the maestro attack the introduction, there is a big applause”.

 

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Per riconoscerla bastavano le primissime notine al pianoforte, come ancora basta la frasetta melodica che introduce Marechiare, testo di Salvatore Di Giacomo, per riassumere in otto, nove battute il sapore popolare per cui è legittimata “musica napoletana”. E si sa che Di Giacomo, sulla riva di Marechiaro, non era mai andato prima di scrivere la canzone che pure fece esistere la cosiddetta ‘fenestrella’, ritagliata nel muro dopo il successo del brano a dimostrazione che l’arte spesso produce le realtà che ha vagheggiato. Perciò alcuni giurarono addirittura che la finestra c’era sempre stata a dispetto di chi non se n’era mai accorto.

 

La verità è che Napoli è un’idea riproducibile di cui sente desiderio il mondo – fa niente che a volte sia simulazione e la sua lingua solo uno sproposito, come la parossistica Spassiunatamente dell’astigiano Paolo Conte. La verità la raccontava forse proprio Ciccio Tosti quando se n’era andato diventando, in Gran Bretagna, persino baronetto. E’ contenuta in un reportage noto ai musicofili, con intervistatore d’eccezione il maestro Enrico De Leva, quello di Spingule frangese: era una sera di pieno luglio e “il vento faceva tremare le vetrate” dell’elegante studio londinese di Tosti, che “parla sempre di Napoli con la maggiore commozione” anche trent’anni dopo. Confidò così come nacque la frasetta iconica di Marechiare, o meglio lui – allievo dell’illustre Mercadante – a chi la rubò. All’ossessivo refrain di un “flauto stonato” di una comitiva di “posteggiatori” nei quali s’imbatteva, ogni notte, in una trattoria di via Toledo nei suoi anni di bohème. “Le note di quel flauto”, raccontava, “le ho tuttora, a trent’anni di distanza, nell’orecchio, tanto che le ho riprodotte integralmente nel preludio di Marechiare”. Si sedette al pianoforte e mentre la suonava “e cantava pianamente”, “la pioggia scrosciava contro i vetri e per la via. Egli così sognava di Napoli, e non ebbi la forza di dirgli una sola parola. Attesi che si destasse dal sogno, ma, mentre cercavo di nascondere una lacrima che mi scorreva su una guancia, egli pure, il Maestro, aveva gli occhi bagnati”. Magari avesse potuto sentire, oltre al vento che faceva vibrare i vetri, qualche seducente melodia nel cielo di Londra. Ma Londra non è Napoli.

 

Non era Napoli, New York, ma la desiderava. E così John Turturro (un altro pugliese d’origine) dovette tornare sotto il Vesuvio per scombinare e ricombinare i classici della canzone e scagliarli fra vicoli disassati e palazzetti scheggiati per scrivere con Federico Vacalebre il documentario musicale Passione, nel 2010. Operazione comparabile, con stili assai lontani, a Carosello napoletano, il musical che prima a teatro con una tournée mondiale quindi nel ‘54 a cinema si fece spot, retorica, propaganda sentimentale per la canzone autentica che consta sempre di una culla immaginaria. E ci fu anche per Carosello chi si finse napoletano: il romano Paolo Stoppa, ovviamente chiamato Esposito, che tirava il malmesso carretto di venditore di copielle (i foglietti su due o quattro facciate con testo e spartito, talora neanche armonizzato, per voce e mandolino). E il coreografo Léonide Massine, che danzò nel camicione di Pulcinella. Ma la storia di chi ha scelto Napoli mettendo la musica al centro è continuata fino ai film Song’e Napule e Ammore e malavita dei romani Manetti Bros., con l’impeccabile Claudia Gerini nel ruolo di Donna Maria moglie del boss – meritando tutto il suo David di Donatello per la migliore attrice non protagonista nel 2018.

 

Non era Napoli, ma lui a New York se ne rifece uno spicchio. Lui Caruso, che prima di affacciarsi dall’Hotel Vittoria di Sorrento e poi, l’ultima notte della vita, dall’Hotel Vesuvio sul lungomare, godette anni sontuosi come star del Metropolitan così indiscussa che tuttora – nel mondo – resta il napoletano più famoso. Quello spicchio di città se lo rifece in un “dark little restaurant” della 47esima strada gestito dall’amico Alfredo Pane, dove le tovaglie non erano candide e la posateria non luccicava, dove il menù era semplice pollo o manzo bollito con l’insalata, frutta, formaggio e caffè. La vera attrattiva era nel dopocena, quando “the old and ugly” Pane – rievocava la vedova Caruso – prendeva un vecchio mazzo di carte napoletane e i due cominciavano lunghe partite a scopa ribattute in dialetto. Mentre Dorothy s’assopiva in silenzio o tediata torceva le dita in una costosa collana, per un’ora o due la nostalgia di Pane e Caruso evaporava in quella bolla sulla 47esima strada che adesso poteva benissimo essere il trasandato Caffè dei Mannesi all’angolo di via San Biagio dei Librai con via Duomo o dovunque immaginassero, perché a qualunque latitudine un tavolo occupato dal mazzo di napoletane per la scopa diventa, finché la partita dura, un metro quadro all’estero della città, come una provvisoria sede diplomatica. E poiché Pane premorì a Caruso, quell’ultima estate del 1921 se il tenore ripensava “alle notti là in America”, sicuramente oltre alle luci del Metropolitan rimpiangeva il “dark little restaurant” ora che proprio a Sorrento, nel lusso della suite e nel purgatorio della salute compromessa, gli mancava un compagno di scopa all’altezza. Così a sir Tosti, sebbene spalancasse eleganti finestre, mancava il suono del flauto, quel regalo d’aria che bastava semplicemente portare su pentagramma per trasformarlo in arte. Chissà perché, cambiando il tempo e tante mode, Napoli ha incantato il mondo col genere minore della canzone. Vale ancora quel che scrisse, più di cent’anni fa, Matilde Serao? “La canzone napoletana non si definisce; essa si sottrae all’arida spiegazione della scienza; è una cosa vaga, fuggevole, senza contorni determinati, evanescente… E’ tutto ed è nulla… ha una fragile esistenza e intanto resiste al trascorrere degli anni… è l’espressione di un momento, la durevole rappresentazione di un sentimento rapidissimo”. Può darsi (donna Matilde ebbe quasi sempre ragione).

 

Eppure certe volte si tende a enfatizzare, per cui forse il poeta Libero Bovio, autore di Reginella, Zappatore, Lacreme napulitane e Guapparia avrebbe meritato un’altra lapide sul palazzo di via Duomo dove abitò e morì anziché questa: “…E j’ so’ Napulitano/E si nun canto moro!”. E può darsi anche che il commediografo Armando Curcio esagerasse quando proclamava: “Vorrei che sulla mia tomba vi fosse questo epitaffio: Nacque, cantò alcune canzoni napoletane, e morì” (ma dubitiamo che effettivamente ciò sia stato scritto). Meno incerta sebbene più paradossale la definizione dell’immancabile Giuseppe Marotta, paroliere di un classico come Mare verde: “E’ il nostro continuo ritratto, è il nostro infrangibile specchio, la canzonetta. Offrite a un napoletano la scelta fra un dolore che egli possa confidare a tutti e una gioia che egli debba nascondere: preferirà il dolore”. Detratta l’enfasi però l’incanto della canzone (e talora il disincanto) resta una tentazione costante. Dei suoi riferimenti sono intercalati discorsi, certi sogni, nomi di pizzerie, soprannomi di delinquenti, calamite per frigorifero, riferimenti minatori e amorosi, citazioni sbagliate, diminutivi femminili o maschili, scritte a spray sopra i muri – tutto questo anche contro la propria volontà. Non sorprende perciò che alcune pagine del romanzo Malacqua, capolavoro di Nicola Pugliese degli anni Settanta, narrino la metafora di certe monetine da cinque lire che cominciarono a suonare canzoni per un prodigio occorso o suscitato da una bambina triste: “E quello stesso giorno, in quello stesso momento, in tutte le case di tutta la città le bambine di dieci anni trovarono le loro monetine sonore, e vi fu un inverosimile affollamento di genitori che volevano sapere e che volevano sentire, ma in effetti quando prendevano la monetina in mano e se l’accostavano all’orecchio non riuscivano a sentire proprio niente di niente, le bambine soltanto udivano la musica”. “Loro semplicemente accostavano le monete da cinque lire all’orecchio e ne uscivano musica e canzoni”. E non sorprende che il padre del romanziere, Antonio, anch’egli giornalista, avesse vinto nel 1958 un Festival di Napoli come paroliere di Vurria, musica di Furio Rendine, dedicata alla nostalgica rievocazione della città (e di una donna) da cui si è andati via: “Vurria turnà addo te, / pe’ n’ora sola, / Napule mia, / pe’ te sentì ‘e cantà / cu mille manduline”. Il sentimento della lontananza fu epica e retorica di un mondo migrante che neppure sognava la futura globalizzazione. Ci avrebbe ricamato ancora Paolo Conte nel suo sconclusionato pseudonapoletano di Naufragio a Milano del ’75.

 

Ma a Conte e Dalla quasi tutto si può perdonare, come suggeriva Francesco Durante, anche se le parole di Caruso “non hanno alcun significato. Come può una catena (una catena, non una passione), ‘sciogliere il sangue dentro le vene’?” si domandava. Eppure per quei milioni di appassionati che la cercano su YouTube sembra un meraviglioso omaggio d’amore grazie alla musica e forse agli accenti sulle parole bene, catene e vene perché “esprimono comunque un sentimento passionale e carnale insieme, e sono dunque una convincente epitome partenopea”. Autore di Italoamericana, monumentale antologia delle opere composte dagli italiani emigrati Oltreoceano, Durante conobbe nei dettagli la tratta Napoli-New York-Napoli su cui s’era mosso Caruso e si sarebbe mosso Turturro. Conosceva perciò la regola che Napoli dà però Napoli prende, cominciando dal 1911 quando invece di consegnare canzoni a coloro che emigravano ne importò una da due di loro: Core ‘ngrato fu un regalo americano cui ne sarebbero seguiti altri di suggestioni e generi diversi, e basti ricordare come li spesero Renato Carosone o Pino Daniele. E quanto prima ancora piacquero le canzoni arrivate nella guerra con i soldati americani come Pistol packin’ mama, o film come Gilda con Rita Hayworth, che ispirò la parodia di ’O surdato ‘nnammurato, canzone di un’altra guerra (poi quasi inno del Napoli Calcio): “Oi Rita, oi Rita mia/oi core ‘e chistu core…”. Per non parlare di Tammurriata nera sorta dal fertile incontro fra truppe di colore e signorine indigene. Trascorsi ormai tanti anni, quell’incontro è recepito più folclorico che neorealistico perché il tempo, oltre a far invecchiare, serve ad aggraziare le tinte. Però un articolo di giornale non può durare più di una partita a scopa (e chi scrive avrebbe voluto giocarne una a Sorrento con Caruso, oppure a Capri con Francesco Durante).

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