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La chiusura delle scuole euforizza un po' anche i genitori

Annalena Benini

I ragazzi si abbracciano perché la scuola resterà chiusa fino al 15 marzo, in famiglia si va nel panico ma poi si dice: avoja

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La paura del contagio e la paura di questa apocalisse con complicazioni respiratorie è stata sostituita, in una giornata, dal pensiero di tutti i nostri figli a casa, senza scuola. Che ne sarà di loro, anzi che ne sarà di noi. Un minuto prima eravamo terrorizzati dal coronavirus, un minuto dopo siamo terrorizzati dai figli a casa. La domanda quindi è sempre la stessa, sempre un po’ scema: come faremo? Loro sono euforici, per tutto il giorno hanno tifato via chat per la chiusura, si sono scambiati notizie false e notizie vere, parodie, preghiere e salti di gioia. Mia figlia mi guarda sempre smarrita se le chiedo di prendermi una forchetta (una forchetta? Dove si trovano le forchette? Che cosa sono le forchette?), ma ieri pomeriggio mi ha inoltrato la circolare del ministero dell’Istruzione almeno due minuti prima che io leggessi sui flash delle agenzie di stampa la notizia che stavo aspettando da ore. (“Ma quindi siete felici?”, “Avoja”). Chiuse tutte le scuole sul territorio nazionale fino al 15 marzo. Chiuse per “emergenza contagio COVID-19”. Chiuse per tenerci a distanza di sicurezza gli uni dagli altri ancora di più. Chiusi dentro le nostre case ancora di più. In questo modo il virus circolerà di meno, su autobus, metropolitane, cattedre, banchi, bagni, corridoi, ci aggredirà di meno, ci ucciderà di meno. Ci sentiremo più al sicuro, soprattutto perché ci sembrerà che i nostri figli siano più al sicuro. Anche se ci stiamo sporgendo sull’orlo di un disastro economico e di una paura degli esseri umani senza precedenti, ieri quell’entusiasmo incosciente degli studenti, mescolato alla nostra disperazione organizzativa, ha sciolto per qualche ora il congelamento dei rapporti umani che adesso ci viene richiesto come atto responsabile. Che comincia a venirci spontaneo. Il sospetto con cui guardiamo un uomo starnutire, il fastidio per una eccessiva vicinanza, il trasalimento per un colpo di tosse alle nostre spalle. Anche per chi cerca di mantenere un’ostinata fiducia nella razionalità e nel buon senso, anche per chi si rifiuta di ascoltare il richiamo dell’apocalisse, questa razionalità vacilla davanti a un raffreddore in un bar. Davanti alla tazzina del caffè. Davanti ai nostri stessi banali sintomi influenzali. Davanti ai nostri amici che hanno più di sessantacinque anni e che non vogliono essere guardati come categoria a rischio.

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La paura del contagio e la paura di questa apocalisse con complicazioni respiratorie è stata sostituita, in una giornata, dal pensiero di tutti i nostri figli a casa, senza scuola. Che ne sarà di loro, anzi che ne sarà di noi. Un minuto prima eravamo terrorizzati dal coronavirus, un minuto dopo siamo terrorizzati dai figli a casa. La domanda quindi è sempre la stessa, sempre un po’ scema: come faremo? Loro sono euforici, per tutto il giorno hanno tifato via chat per la chiusura, si sono scambiati notizie false e notizie vere, parodie, preghiere e salti di gioia. Mia figlia mi guarda sempre smarrita se le chiedo di prendermi una forchetta (una forchetta? Dove si trovano le forchette? Che cosa sono le forchette?), ma ieri pomeriggio mi ha inoltrato la circolare del ministero dell’Istruzione almeno due minuti prima che io leggessi sui flash delle agenzie di stampa la notizia che stavo aspettando da ore. (“Ma quindi siete felici?”, “Avoja”). Chiuse tutte le scuole sul territorio nazionale fino al 15 marzo. Chiuse per “emergenza contagio COVID-19”. Chiuse per tenerci a distanza di sicurezza gli uni dagli altri ancora di più. Chiusi dentro le nostre case ancora di più. In questo modo il virus circolerà di meno, su autobus, metropolitane, cattedre, banchi, bagni, corridoi, ci aggredirà di meno, ci ucciderà di meno. Ci sentiremo più al sicuro, soprattutto perché ci sembrerà che i nostri figli siano più al sicuro. Anche se ci stiamo sporgendo sull’orlo di un disastro economico e di una paura degli esseri umani senza precedenti, ieri quell’entusiasmo incosciente degli studenti, mescolato alla nostra disperazione organizzativa, ha sciolto per qualche ora il congelamento dei rapporti umani che adesso ci viene richiesto come atto responsabile. Che comincia a venirci spontaneo. Il sospetto con cui guardiamo un uomo starnutire, il fastidio per una eccessiva vicinanza, il trasalimento per un colpo di tosse alle nostre spalle. Anche per chi cerca di mantenere un’ostinata fiducia nella razionalità e nel buon senso, anche per chi si rifiuta di ascoltare il richiamo dell’apocalisse, questa razionalità vacilla davanti a un raffreddore in un bar. Davanti alla tazzina del caffè. Davanti ai nostri stessi banali sintomi influenzali. Davanti ai nostri amici che hanno più di sessantacinque anni e che non vogliono essere guardati come categoria a rischio.

 

Le strade vuote, le stazioni vuote, i ristoranti vuoti sono qualcosa che non riusciamo a esorcizzare fino in fondo, perché è un vuoto che ci riguarda e che rientra in un’idea di prudenza e responsabilità. La paura infatti riguarda anche la possibilità di esserci comportati da irresponsabili, e di venire scoperti. Quindi la chiusura delle scuole euforizza un po' anche noi, mentre ci fa lamentare, perché elimina l’irresponsabilità verso i ragazzi, elimina il tormento sul pericolo di quell’autobus, su quella professoressa in malattia da due giorni, su quell’umana impossibilità di mantenere distanze di un metro quando si sta a scuola insieme. Quanto è triste la distanza di un metro. Quanto sono allegri i ragazzi che si abbracciano perché la scuola resterà chiusa fino al 15 marzo. Sei felice? Avoja.

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