Kieran Culkin e Jeremy Strong in "Succession" 

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Di Jeremy Strong, il New Yorker scrive che non ha la faccia da celebrità. Provateci in Italia

Mariarosa Mancuso

Ma la faccia è solo l’inizio. Michael Schulman racconta l’attore che si prende terribilmente sul serio, recita le battute del copione come se fosse l’“Amleto”, non si mischia con gli altri per non uscire dal personaggio. Sul set di "Succession", in cui Strong è Kendall Roy, figlio del miliardario Logan Roy, in lotta con il patriarca

“Non ha la faccia di uno destinato alla celebrità”. Provate a scrivere qualcosa di simile, nel ritratto-intervista di qualsivoglia attore italiano, famoso o sul punto di diventarlo, e finirete in un girone infernale. Nella lista nera, se non vi piace la puzza di zolfo. Unico rimedio, cambiare mestiere. Nessuno avrà più voglia di parlare con voi, e firmerete con uno pseudonimo le righe che illustrano i film in programma alla tv locale. “Uno che non ha la faccia destinata alla celebrità”: per il New Yorker, a firma Michael Schulman, è Jeremy Strong, l’attore che in “Succession” (su Sky Atlantic, anche on demand, e su NOW: di questi tempi non si vive di cinema soltanto) ha la parte di Kendall Roy. Il figlio del miliardario Logan Roy, in una feroce lotta per il potere con il patriarca. Colpito da infarto nella puntata inaugurale, il genitore ha saldamente ripreso il potere e non ha ancora deciso chi sarà il suo successore. Per accelerare la pratica, Kendall accusa il padre di tutte le brutte cose accadute nel ramo crociere della Waystar Royco.

La faccia è solo l’inizio. Michael Schulman racconta l’attore che si prende terribilmente sul serio, recita le battute del copione come se fosse l’“Amleto”, non si mischia con gli altri per non uscire dal personaggio. Non ama rifare le scene, cosa che su un set cinematografico o televisivo capita più spesso del contrario. Finito di girare, strappa le pagine del copione (questo lo capiamo: finito di scrivere un articolo strappare i fogli con gli appunti dà una certa soddisfazione). Quando girava “Il processo ai Chicago 7” – era Jerry Rubin, l’attivista che disse “non fidarti di nessuno che abbia più di 30 anni” – aveva preteso dal regista Aaron Sorkin veri gas lacrimogeni. In “Detroit” di Kathryn Bigelow doveva fare il soldato della Guardia nazionale. Studiò valanghe di documentari e si esercitò al poligono di tiro. E si ritrovò licenziato: “Non era il personaggio che avevo in mente”,  disse la regista.

Il personaggio di Kendall Roy è la sua rivincita. Lui però avrebbe preferito il fratello Roman Roy, toccato invece a Kieran Culkin (vi ricorda qualcosa? meglio di no perché è bravo, non dovrebbe restare incatenato alle performance da ragazzino). Nell’intervista James Strong cita Cechov, Raskolnikov, Keith Jarrett, Scott Fitzgerald, T. S. Eliot: “una spugna di citazioni”. Più lapidaria e definitiva la diagnosi di Brian Cox, l’attore – di scuola inglese, recitare è tecnica – che si gode ogni sillaba nel ruolo del patriarca. “Malattia americana”, sostiene. L’ultima colpita dal morbo è Lady Gaga, che per “House of Gucci” di Ridley Scott fa sapere di non essere uscita dal ruolo di Patrizia Reggiani, con tanto di pesante accento italiano, per un anno e mezzo. 

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