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popcorn a Venezia

Chi vincerà il Leone d'oro a Venezia?

Mariarosa Mancuso

Fare pronostici è diventato difficile: negli anni del Covid gli accreditati si incontrano solo su appuntamento, o dopo estenuanti prenotazioni da battaglia navale: “Io sono alla fila dieci posto otto, tu dove sei?”. Ma in testa c'è Sorrentino

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E allora, chi vince il Leone d’oro? Facile chiederlo, difficile indovinare. Negli anni pre Covid la domanda era sulla bocca di tutti gli accreditati. I vicini di fila o di poltrona, i compagni di caffè bevuti tra un film e l’altro nel baretto sulla spiaggia. Conservando accuratamente lo scontrino, dall’altro ieri obbligatorio per accedere ai bagni – in tempi remoti c’era l’Excelsior, poi la voce si è sparsa e anche lì si sono formate le code. Negli anni del Covid gli accreditati si incontrano solo su appuntamento, o dopo estenuanti prenotazioni da battaglia navale: “Io sono alla fila dieci posto otto, tu dove sei?”. I pronostici sono più complicati, neppure le riviste specializzate si sbilanciano.

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E allora, chi vince il Leone d’oro? Facile chiederlo, difficile indovinare. Negli anni pre Covid la domanda era sulla bocca di tutti gli accreditati. I vicini di fila o di poltrona, i compagni di caffè bevuti tra un film e l’altro nel baretto sulla spiaggia. Conservando accuratamente lo scontrino, dall’altro ieri obbligatorio per accedere ai bagni – in tempi remoti c’era l’Excelsior, poi la voce si è sparsa e anche lì si sono formate le code. Negli anni del Covid gli accreditati si incontrano solo su appuntamento, o dopo estenuanti prenotazioni da battaglia navale: “Io sono alla fila dieci posto otto, tu dove sei?”. I pronostici sono più complicati, neppure le riviste specializzate si sbilanciano.

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In mancanza delle chiacchiere che causavano improvvise passioni o sguardi del più feroce e irrevocabile disprezzo, quest’anno circola un nome solo: Paolo Sorrentino, che gareggia con “E’ stata la mano di Dio”. Non il film da tutti prediletto – il sito “Rotten Tomatoes” annota il 75 per cento di recensioni favorevoli, per fare un confronto Pedro Almodóvar con “Madres Paralelas” ha il 100 per cento. Ma con cinque titoli italiani in concorso uno deve vincere. Era già successo al festival di Cannes: presenza massiccia di titoli francesi, vincitrice Julia Ducournau con “Titane” (presto nella sale, per chi ha curiosità di vedere una donna che fa l’amore con una Cadillac – parola del fan numero uno Spike Lee).

Le Guerre Stellari di Ciak danno in testa Paolo Sorrentino. A pari merito (3.9 punti su cinque) con “Qui rido io” di Mario Martone. Napoli contro Napoli, autobiografia contro dinastia teatrale, relativa semplicità (pensate ai fenicotteri che furono, alla parodia “Fate entrare la nana”, al “Generatore automatico di film di Sorrentino”) contro esibizione di sfarzo e ricchezza guadagnati sul palcoscenico, risata dopo risata. Siccome è capitato che il premiato con il Leone d’oro veneziano vincesse poi l’Oscar, la posta in gioco è ghiotta. Si saprà stasera, sabato – dopo la cerimonia festeggiamenti a numero chiuso.

Sorprendentemente alto, rispetto alle attrattive del film, risulta il punteggio di “Il buco”, cinema speleologico di Michelangelo Frammartino. Speriamo che il presidente della giuria Bong Joon-ho ci regali un vincitore da consigliare anche a chi ama il cinema non punitivo (certa gente si aspetta che insieme al biglietto la cassiera fornisca un cilicio). “Parasite” dovrebbe valere come garanzia; ma non si sa mai, l’aria d’Europa a volte rende cinefili anche i registi meno portati. E in giuria c’è Chloé Zhao, vincitrice l’anno scorso con “Nomadland”, il che non è per nulla una garanzia.

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“Freaks Out” di Gabriele Mainetti sarebbe una gran bella scelta per il Leone. Il film è grandioso, dal punto di vista produttivo e per l’originalità della trama. E’ moderno. E’ pop. E’ la via italiana al cinema davvero spettacolare, che schioda la gente dal divano e la spinge al cinema (ne abbiamo bisogno, prima di smarrire la strada).

Il giurato italiano – funziona come il membro interno alla maturità – si chiana Saverio Costanzo: dopo tanta Elena Ferrante non è detto che gli piaccia una storia che intreccia i fenomeni da baraccone, i nazisti, i circhi e gli ebrei deportati. Potrebbe preferire, per familiarità, “The Lost Daughter”: il film che Maggie Gyllenhaal ha tratto da “La figlia oscura” (sempre made in Ferrante, o chi per lei). Altri meriti o pregi non ha. Scarsa anche la direzione di due brave attrici come Dakota Johnson e Olivia Colman: sprizzano solo  antipatia.

I film delle registe godono di un bonus. La smania di inclusione ha procurato numerosi fan a “Mona Lisa and the Blood Moon” di Ana Lily Amirpour, iraniana d’origine.  La femminilità assassina di una ragazza scappata da un riformatorio di massima sicurezza, ancora con la camicia di forza addosso (corta e con le cinghie slacciate, nei locali lo scambiano per un singolare abito firmato). Jane Campion si è dedicata ai cowboy. Nel “Potere del cane” c’è anche una donna, Kirsten Dunst: prima serve in cucina e appena trovato marito si attacca alla bottiglia. Lo spettatore immagina che abbandoni il consorte tonto, o almeno lo tradisca con il fratello sveglio Benedict Cumberbatch – uno che non si lava mai prima di cena, ma tiene i cavalli strigliati da fare impressione, sembrano usciti da uno spot pubblicitario. Errore: è un cowboy moderno, conserva in una cassa certe rivistine di cultura fisica ereditate da un caro amico.

Abbiamo un debole per “Le illusioni perdute” di Xavier Giannoli, ma con Balzac sceneggiatore è troppo classico per vincere una Mostra d’Arte Cinematografica. Abbiamo un debole anche per il polacco “Leave No Traces” di Jan P. Matuszynski e l’ucraino “Reflection” di Valentyn Vasyanovych, girati benissimo ma tosti e di poco svago. Se però siete stufi delle serie fatte con lo stampo, se mai usciranno nei cinema – o in streaming, roba di nicchia – meritano un’occasione. Sennò c’è “Dune” di Denis Villeneuve, al cinema  dal 16 settembre. Suggestive scenografie e paesaggi, trama appena accennata e tenuta in caldo per il sequel.

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