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Se la Chiesa vira a sinistra

Matteo Matzuzzi

È la grande occasione del cattolicesimo democratico italiano, che dopo l’epopea wojtylana e l’intermezzo ratzingeriano può imprimere una svolta al destino che pareva ineluttabile. L’occasione c’è, si chiama Sinodo

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Le timeline di Twitter e i post sugli altri social network traboccavano di citazioni dell’omelia del cardinale Matteo Zuppi, tenuta davanti alle massime cariche dello stato, in occasione dei funerali solenni di David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Fedeli devoti e atei convinti, femministe e pie donne, lodavano le parole del porporato arcivescovo di Bologna scandite dal pulpito della basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, a Roma, davanti al feretro di un uomo per bene. Salvare l’eredità di Sassoli, rendere testimonianza della sua esperienza di operaio per il bene comune, recuperare quel portato di azione e valori che ne hanno segnato la vita e il suo essere cattolico. Poche settimane dopo, addirittura il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, veniva lanciato come possibile candidato del centrosinistra nella partita per il Quirinale. Il tutto nel distacco, chissà quanto riflessivo, della Chiesa italiana che – come ha scritto su Repubblica un acuto osservatore come Alberto Melloni, “sa riconoscere con generosità il valore morale dei propri uomini migliori solo da morti o accettare di vederli ridotti a bandiera”.

   

Un’operazione, quella di Riccardi, che solo un decennio fa sarebbe stata impensabile, nel rigido schema bipolare che contava gli amici da una parte e i nemici dall’altra, destra e sinistra come universi non comunicanti e votati al conflitto ideologico, culturale e perfino etico. L’orgoglio del cattolicesimo democratico, rimasto tramortito durante l’epopea di Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI poi, tenuto a bada nei decenni di controllo ruiniano della Conferenza episcopale, ha ritrovato spazio d’azione e soprattutto voce. Prima sulla scena politica, con Sergio Mattarella al Quirinale, poi all’interno della Chiesa, dove il percorso sinodale – pochi vescovi, chi per prudenza chi per timore, vogliono parlare esplicitamente di “Sinodo italiano” – prossimo venturo si ripromette di dare quella sterzata a sinistra che di certo proprio a uno come Camillo Ruini non può piacere. Lui che solo tre anni fa, intervistato dal Corriere della Sera, disse che “il cattolicesimo democratico, in concreto il cattolicesimo politico di sinistra, in Italia ha sempre meno rilevanza”, quasi si trattasse del ricordo di un tempo passato da relegare all’album di famiglia da riaprire di tanto in tanto. E invece, no. Mai come ora, in questa fase storica, è quel cattolicesimo a cercare di rimorchiare la malconcia Barca italiana fuori dal porto, al largo, verso orizzonti non ben definiti ma – questo sì – ben teorizzati in speculazioni letterarie, dissertazioni saggistiche, conferenze e convegni molto d’élite e (ancora) poco di popolo. Manca la terra promessa, ma la rotta – almeno in una prima parte – è tracciata. 

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Il settennato di Mattarella, la candidatura di Riccardi, l’omelia del cardinale Zuppi ai funerali di Sassoli: un orgoglio ritrovato

 
Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, l’ha scritto con una chiarezza non sempre di casa presso le alte gerarchie già nel 2019: “La forza propulsiva del cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma”. Si trattava allora di rilanciare, ancora una volta, il progetto del grande Sinodo per la Chiesa italiana, evento che si vorrebbe stimolato dal basso, dal popolo di Dio “infallibile in credendo”, atteso protagonista. Uno stile sinodale da vivere “sul campo, fra la gente”, come ebbe a dire il cardinale presidente della Cei, Gualtiero Bassetti. Si domandava Spadaro: “La Chiesa italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad attendere tempi migliori? E come?”. Qui sta il punto fondamentale. 

 
L’analisi della crisi l’aveva fatta il Papa, a Firenze nel 2015, in occasione del Convegno ecclesiale italiano. Parlò a lungo Francesco, davanti all’episcopato lì riunito che ebbe fretta di applaudire con viva partecipazione ed eclatante calore il discorso papale, salvo poi destinarlo rapidamente agli archivi più inaccessibili, laggiù in qualche scantinato dove s’usano accatastare ferri vecchi, libri di scuola, vestiti consunti. Francesco aveva invitato a essere creativi, a lasciare perdere “condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative”. Basta con formule retoriche ormai desuete che poco hanno da dire all’uomo – e al cittadino – d’oggi. 

  

Tre anni fa, il cardinale Ruini disse che “il cattolicesimo politico di sinistra, in Italia, ha sempre meno rilevanza”. Una previsione, forse, azzardata

  
Da allora sono passati sei anni e mezzo e solo ora si mette a tema l’avvio di un percorso sinodale che non si sa dove porterà. Resistenze e tensioni, rallentamenti e paure: tutto s’è messo in mezzo. Notava Gianfranco Brunelli, direttore della rivista cattolica Il Regno, autorevole testata dell’area cattolica-democratica, sul numero dello scorso novembre: “Occorre osservare che al momento c’è poca attesa nel popolo di Dio, e una certa tiepidezza in una parte dell’episcopato. Bisogna confidare che a un certo punto il processo si metta in moto. Convintamente. E questa constatazione suscita più che un’amarezza: una preoccupazione. C’è come ancora uno scarto di comprensione tra il pontificato di Francesco e una parte dell’episcopato. Anche quello italiano. Compresa la cosiddetta ala progressista. Dietro alle critiche a Papa Francesco, alla sua gestione, soprattutto a quella istituzionale, al governo della Chiesa, si nascondono talora abitudini conservative, riflessi meramente gestionali, delusioni personali, qualche obiezione o timore dottrinale: tutte cose ricapitolabili in un disegno più ampio, qual è quello di Papa Francesco”. L’episcopato è sì tiepido, un po’ perché disilluso davanti alle chiese sempre più vuote e abitate solo da sparuti gruppi di fedeli con molte primavere sulle spalle, un po’ perché le rotture con il si-è-sempre-fatto-così tolgono il sonno. Bisogna muoversi, darsi da fare. Proprio il cardinale Zuppi l’ha detto aprendo la fase diocesana sinodale a Bologna, invocando lo Spirito affinché preservi “dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire”. “Non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili”. 

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Il tema è sempre quello, che cosa fare per sfuggire al disincanto e alla disillusione. Immergersi nel mondo coltivandone la relativa intelligenza,  o puntare tutto sulla sfida antropologica. Ruini, su mandato di Giovanni Paolo II, puntò ogni gettone sulla seconda opzione, teorizzando che il laicato dovesse essere guidato dai vescovi, orientato verso mete e obiettivi prefissati. Dall’altra parte dello schieramento, gli si ribatteva che no, i laici dovevano essere liberi di articolare la propria fede, in modo adulto. Senza bisogno di troppi maestri e precetti. Ma a forza di diluirsi nel mondo, sensibili al canto delle sirene dello Zeitgeist, si rischia di essere irrilevanti e di avere poco da dire, è la replica di chi rivendica la svolta di Loreto risalente al 1985 e l’epopea ruiniana che, benedetta da Giovanni Paolo II, portò la Chiesa italiana nel Terzo millennio. Un tentativo fu fatto, con il Progetto culturale lanciato dalla Cei di Ruini, esperienza che tra alti e bassi si concluse nel 2013, all’alba del pontificato bergogliano. Le premesse erano ovvie e il fine giusto: si trattava di prendere atto del declino culturale e dell’inevitabile secolarizzazione che avrebbe, prima o poi, interessato pure l’Italia. Disse una delle personalità coinvolte, Sergio Belardinelli: “Bisognerebbe chiedersi se oggi questo declino non sia molto di più che  semplicemente politico. Dopo la crisi della Democrazia Cristiana, il progetto culturale mirava come è noto soprattutto a evangelizzare la cultura, puntando su un ideale antropologico, con la speranza che col tempo questo potesse avere efficacia anche sulla dimensione politica. Un lavoro meticoloso durato quasi due decenni, culminato nei tre ‘Rapporti-proposta’ pubblicati dal Comitato per il progetto culturale della Cei negli anni 2009-2013, dedicati rispettivamente all’educazione, alla demografia e al lavoro: un esempio eloquente di cultura da tradurre in progetto politico, forse l’unico vero progetto per l’Italia elaborato in questi ultimi anni. Ma la storia, lo sappiamo, finì in una sorta di rimozione generale. Così, liquidato il progetto culturale come espressione del famigerato ‘ruinismo’, ci ritroviamo con una chiesa politicamente e culturalmente sempre più irrilevante, che balbetta sui problemi spesso con il linguaggio degli altri”.

  

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Fece discutere un articolo del gesuita Occhetta in cui si osservava che “la priorità per il mondo cattolico è la cura della democrazia in tutte le sue forme”

  
Che fare, dunque? Servirebbe intanto prendere atto dell’evidente stanchezza che permea la Chiesa italiana. Non solo nelle sue strutture gerarchiche, ma anche in un Popolo che anche qui inizia a manifestare in modo crescente i sintomi di quell’indifferenza che altrove – basta valicare le Alpi – è la regola già da anni. E’ una stanchezza spirituale e intellettuale, come dimostra la crisi dell’editoria religiosa. Librerie chiuse, case editrici fallite – è il caso, da ultimo, delle Edizioni Dehoniane Bologna – giornali che hanno cessato le pubblicazioni, scarso interesse verso la cultura cattolica nelle sue varie espressioni.

 

Si è chiusa la lunga fase del Concilio, in cui un popolo cercava libri e giornali per capire e non solo informarsi. Oggi ci si limita a diffondere la parola del Papa, a costruire dibattiti e cronache sulle visite di Francesco ai negozi di ottica o di dischi o a proporre una lettura della quotidianità religiosa in chiave meramente melensa, la caritas declinata ad abbracci e carezze, il Papa buono che sorride ai bambini e ai nonni. Materiale perfetto per una religione da social network, un po’ infantile e sempre superficiale. Quasi che il resto, la sostanza, sia affare dei dotti e delle università, di chi è in grado di capire cose che la gente comune non può sapere. E’ in questo scenario depresso che s’inseriscono le sfide per la Chiesa italiana, chiamata a rinnovarsi per circoscrivere e poi reagire al declino che pare ineludibile. Ed è in tale quadro che il cattolicesimo democratico ha indubbio vantaggio, soprattutto perché ha maggiore esperienza e una base che rendono – oggi, data la contingenza storica che vede a capo della Chiesa una personalità di certo né ostile né diffidente verso quel mondo – la sfida favorevole. Nel travaglio di questi anni, destò sorpresa il fatto che un protagonista eccellente di quel mondo, Enzo Bianchi, fosse incappato nell’ira vaticana. Costretto a lasciare Bose, la sua creatura, e a trasferirsi in nome di un “decreto singolare” d’oltretevere, altrove. Al di là della vicenda di Bianchi, era un colpo durissimo a un modo d’intendere la Chiesa, a un sistema di cultura che aveva segnato la realtà italiana fin dalla radiosa primavera conciliare che parve sinceramente aprire le porte di un nuovo corso per la Chiesa fatto di messe abbondanti e di dinamica partecipazione alle sue vicende. 

    
Certo, osservano gli ostili alla cultura cattolica-democratica: forti nelle redazioni e in libreria, da sempre sono più in difficoltà in diocesi e parrocchia, dove non di rado lo scontro con i gruppi più conservatori e identitari è teso. Un dato che sovente, soprattutto in certe regioni ecclesiastiche (in Piemonte, ad esempio), viene fatto notare è che laddove il cattolicesimo democratico ha avuto per decenni gioco facile a permeare la cultura anche grazie al generoso impegno di vescovi e di un clero sbrigativamente definito progressista, oggi la Chiesa appare in stato catatonico. Seminari vuoti, vocazioni che sono un lontano ricordo, chiese che non si rianimano neppure con lectio divine, cattedre di non credenti, conferenze sulle catastrofi climatiche  ed eventi condivisi con altre confessioni cristiane. Molti contatti ed effusioni  con il mondo che però non sembrano eccitare troppo chi quel mondo lo abita.

  

Lo stallo della Chiesa italiana, “un vuoto che non è segno di un paese più laico, ma la prova di un paese più povero”, ha scritto Alberto Melloni

  
Il cattolicesimo democratico, diceva anni fa un gesuita accorto e fine come Francesco Occhetta, “ha rappresentato in Italia un modo di concepire e di vivere la democrazia nel suo orizzonte antropologico ed etico. Oggi invece la politica ispirata dai cattolici sembra avere perso la bussola”. Aggiungeva che “il significato che oggi il cattolicesimo democratico va oltre l’esperienza di Dossetti, La Pira, Moro e va inteso come l’esperienza di quei cattolici che fanno i conti con la politica, che si sentono pienamente tali e pienamente democratici”.

 

Un orizzonte per la Chiesa italiana, in questo tempo di crisi e di disorientamento, c’è, scriveva Occhetta sulla Civiltà Cattolica già nel 2014: “La priorità per il mondo cattolico, oggi, non può che essere la cura della democrazia in tutte le sue forme: una cura da nutrire con i princìpi della Dottrina sociale della Chiesa e con i princìpi costituzionali. E’ la costruzione di una griglia di discernimento da cui far filtrare tutte le scelte. Questo – sottolineava – è il nucleo su cui costruire l’unità dei cattolici”. Il presidente uscente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, fin dall’inizio del suo mandato, cinque anni fa, ha fatto di La Pira il modello che deve ispirare il cammino della Chiesa italiana nel prossimo futuro: “La Pira rappresenta, senza dubbio, quella fedeltà e quell’unità del magistero sociale della Chiesa cattolica a cui tante volte mi sono richiamato. Un magistero unitario che non può essere strumentalizzato o dimenticato in alcune sue parti proprio oggi che viviamo in un mondo liquido, dove tutto sembra precario e incerto”, diceva nel 2019 presentando alla Camera dei deputati l’opera omnia dedicata al grande fiorentino. Ricordava però Bassetti – quasi come monito a evitare semplificazioni politiche – che “la dimensione della fede precede e ispira ogni azione dell’impegno sociale e politico di La Pira”. 

 
Bene i modelli, ottime le parole, ma si torna al vuoto, che poi è una stasi: una Chiesa ferma e con poche idee. Lo si è visto in occasione del voto per il Quirinale: solo qualche comunicato con buoni e rituali auspici, ma nulla di più. Attenzione, notava ancora Melloni, che di quella galassia del cattolicesimo di sinistra è assoluto protagonista: sarà pure un vuoto colmabile, temporaneo e forse attendista. “Ma a oggi un vuoto. Che non è segno di un paese più laico, ma la prova di un paese più povero di quella intelligenza spirituale, morale, civile con cui il cattolicesimo ha nutrito la democrazia italiana per decenni”.

 
Il cattolicesimo democratico quel vuoto è pronto a riempirlo. La congiuntura è favorevole, gli uomini adatti ci sono, l’occasione (il Sinodo) pure. Resta da vedere se dietro ai programmi e alle teorie, si darà da fare anche lo Spirito.

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