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Perché il Papa ha toccato anche chi non crede? Un’ipotesi oltre le immagini

Mattia Ferraresi

Come mai quella circostanza il Pontefice ha saputo comunicare in modo così potente? L’uomo che implora e l’uomo che sa

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Roma. Generalizzare i sentimenti è un’attività sommaria e iniqua (qualcuno la chiama anche giornalismo) ma tocca talvolta ricorrervi quando ci si trova di fronte ad accadimenti straordinari, di quelli che, appunto, suscitano sentimenti. L’evento in questione è la preghiera, con benedizione Urbi et Orbi, di Papa Francesco venerdì scorso in piazza San Pietro, davanti al crocifisso miracoloso di San Marcello al Corso e all’icona bizantina di Santa Maria Maggiore. Il gesto ha prodotto un’impressione dirompente, a prescindere dall’osservanza religiosa. Gabriele Romagnoli su Repubblica ha scritto: “Neppure il giorno in cui uscì dal conclave per presentarsi al mondo ha mai avuto tanti occhi su di sé, tante anime in affidamento, tante persone disponibili, fede o non fede, a sentirlo, non ascoltarlo, sentirlo”. Ci saranno state anche le milionate di persone che sfottevano e bestemmiavano contro il popolo dei beghini che credono nella mano divina che ferma la pandemia, ma da una selezione aneddotica dei commenti e delle timeline è emersa la sensazione che il Papa, in quel momento, abbia detto qualcosa anche a chi è lontanissimo dalla fede. Un tweet di Federico Ferrazza, direttore di Wired, sembra testimoniarlo: “Sono ateo da circa 28 anni. Ma quella immagine è di una forza incredibile. E fa piangere”.

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Roma. Generalizzare i sentimenti è un’attività sommaria e iniqua (qualcuno la chiama anche giornalismo) ma tocca talvolta ricorrervi quando ci si trova di fronte ad accadimenti straordinari, di quelli che, appunto, suscitano sentimenti. L’evento in questione è la preghiera, con benedizione Urbi et Orbi, di Papa Francesco venerdì scorso in piazza San Pietro, davanti al crocifisso miracoloso di San Marcello al Corso e all’icona bizantina di Santa Maria Maggiore. Il gesto ha prodotto un’impressione dirompente, a prescindere dall’osservanza religiosa. Gabriele Romagnoli su Repubblica ha scritto: “Neppure il giorno in cui uscì dal conclave per presentarsi al mondo ha mai avuto tanti occhi su di sé, tante anime in affidamento, tante persone disponibili, fede o non fede, a sentirlo, non ascoltarlo, sentirlo”. Ci saranno state anche le milionate di persone che sfottevano e bestemmiavano contro il popolo dei beghini che credono nella mano divina che ferma la pandemia, ma da una selezione aneddotica dei commenti e delle timeline è emersa la sensazione che il Papa, in quel momento, abbia detto qualcosa anche a chi è lontanissimo dalla fede. Un tweet di Federico Ferrazza, direttore di Wired, sembra testimoniarlo: “Sono ateo da circa 28 anni. Ma quella immagine è di una forza incredibile. E fa piangere”.

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Come mai quella circostanza ha saputo comunicare in modo così potente, tanto da commuovere anche chi non crede? La sequenza cinematografica, si dirà. L’uomo biancovestito nella piazza deserta, il cielo di Blade Runner, la città eterna che trattiene il respiro, la fotografia monumentale, la scenografia di Gian Lorenzo Bernini; e poi l’esibizione dell’iconografia cristiana in tutta la sua fisicità da vicino, anzi da vicinissimo, con il bacio dei piedi del crocifisso sotto la pioggia, l’ostensione del Santissimo al cospetto del mondo, tutti puntelli su cui un critico cinematografico normodotato potrebbe costruire un saggio d’occasione sul Bergoglio regista che abbraccia Tarkovskij, Pasolini e forse anche Malick. Tutto ineccepibile, naturalmente. Non abbiamo scoperto venerdì scorso che Francesco ha vinto a mani basse la competizione delle immagini, quella a cui forse il suo predecessore non ha mai nemmeno voluto partecipare, e pazienza se i critici del Papa regnante lo accusano di protagonismo e vanità. Ma la capacità di raggiungere i lontani, di dire loro qualcosa a cui non si crede ma che un po’ fa piangere, non si spiega solo con una grande sequenza, e si può ipotizzare che ci sia dell’altro.

 

Che cos’è questo altro? E’ l’immagine, anzi l’orientamento, della persona umana che Francesco ha rappresentato agli occhi dell’urbe e dell’orbe: era l’uomo che implora, il mendicante che non ha nulla ed è bisognoso di tutto, l’essere fragile che si rivolge a Colui a cui anche le acque e il vento obbediscono, come da lettura evangelica scelta in modo perfetto (nel saggio sul Bergoglio regista ci va anche un capitolo sulla sceneggiatura, però più breve di quello sulla fotografia). Il Papa che si prostra questuante, chiedendo non solo la fine della pandemia ma la felicità umana tutta intera, illustra l’uomo religioso, non solo quello strettamente cristiano, e perciò risuona, o può risuonare, anche nell’intimo di chi non crede al dogma, di chi disprezza il precetto, perché descrive un atteggiamento umano che d’improvviso appare ragionevole. Una specie di arrendevolezza che tuttavia convive con il fervore di chi perora una causa urgente.

 

Venerdì Francesco ha mostrato la differenza fra l’uomo che domanda e l’uomo che sa già. Fra l’uomo che implora e quello che domina e signoreggia, l’essere che determina e si autodetermina, alfa e omega del proprio destino. In questo senso, ha compito un gesto religioso, prima ancora che cristiano, ché illustra l’atteggiamento proprio della religiosità. Ora, il coronavirus è affare da scienziati, e la scienza – Dio la benedica – dà indicazioni straordinarie per mitigare gli effetti della pandemia e darà, nel tempo, un vaccino che ci farà esultare e festeggiare come si potrebbe esultare e festeggiare per un mondiale vinto contemporaneamente da tutte le nazionali. Ma nelle circostanze presenti non è che il mondo stia sperimentando primariamente quel grande senso di controllo e onnipotenza che la modernità ha messo al centro del suo ideale. Sperimenta piuttosto smarrimento, incertezza, solitudine, impotenza, urgenza di un senso di fronte al dolore e alla morte. Di fronte a tutto questo, l’atteggiamento dell’uomo che implora è parso per un momento ragionevole anche a chi non crede al Dio a cui il Papa si rivolge.

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