Un'auto della flotta Uber-Volvo

La rigenerazione di Volvo. Dalle station vagon ai Suv per Uber

Michele Masneri

Dietro la casa svedese c'è Li Shufu. L'investitore cinese è passato dai frigoriferi a fabbricare sia i taxi sia l'auto che li seppellirà

Roma. In tempi più sessisti si sarebbe scritto: Uber si fa la svedese. Ma per le note vicende, meglio soprassedere. Con l’ordine di venticinquemila dei suoi suv da parte del gruppo di San Francisco annunciato due giorni fa, Volvo non mette a segno solo la più grande commessa che una azienda automobilistica ricordi; consacra anche una sua nuova giovinezza digitale.

  

Per chi abita in Silicon Valley vedere sfrecciare i suv grigi senza conducente targati Uber non è una novità: sono il modello prescelto per la sperimentazione autonoma che Volvo e il gruppo di ride sharing portano avanti da qualche anno (con varie vicissitudini, permessi dati e poi ritirati dal comune di San Francisco, polemiche, drammi). Adesso però arriva questo ordine bestiale. Per Volvo è una seconda giovinezza dopo gli anni Ottanta, quando l’azienda inoculò il concetto di station wagon alla classe affluente anche italiana che voleva stivare in macchina il cane o la mazza da golf, reale o solo sognata (con la scusa che erano le auto più sicure del mondo). Adesso però il “Volvone” è tornato di moda, in versione suv. Piace di nuovo alla gente che piace. E non scandalizza più nessuno che dietro quell’estetica sofisticata nordeuropea ci sia un azionista cinese.

 

Se Jaguar è indiana e Rolls Royce tedesca, Volvo è invece del gruppo Geely, fondato nel 1986 come fabbrica di frigoriferi, e poi motorizzatore di massa cinese. Il proprietario, Li Shufu, è uno dei pochi imprenditori non legati al governo di Pechino; quando andò a Detroit nel 2007 per comprarsi Volvo dalla Ford che lo faceva agonizzare agonizzando lei stessa gli risero in faccia ma poi l’anno dopo nel pieno della crisi dei mutui gli americani abbassarono il sopracciglio e vendettero al piazzista di frigoriferi. All’epoca Volvo perdeva 600 milioni di dollari l’anno.

  

  

Shufu ve ne ha investito 900 e oggi la casa ne fa altrettanti di utili. Ma Volvo è solo parte del disegno di questo imprenditore immaginifico che sta evidentemente perseguendo un polo alternativo ai grandi gruppi come Volkswagen e Daimler: ha un approccio molto laico, investe in marchi e aziende in cui crede, lasciando ampia libertà al management. E’ uno stile nuovo per il settore automobilistico, che ricorda più quello del lusso. Una specie di Lvmh dell’auto, che vende borsette, profumi, orologi e vestiti, spostando brand e sostituendo stilisti, creando collaborazioni tra “alto” e “basso”.

 

Per esempio nel 2008 Geely aveva partecipato alla realizzazione della prima Tesla, la famosa Roadster, ma adesso della Tesla potrebbe diventare concorrente. Un altro progetto su cui sta lavorando è infatti Polestar, marchio nuovo di zecca che non ha ancora prodotto un’auto di serie ma che farà molto parlare. E’ nato dalla divisione auto elettriche della Volvo ed è stato reso indipendente. Dagli stabilimenti cinesi dovrebbe uscire l’anno prossimo la Polestar 1, 600 cavalli, estetica da auto europea (meglio di Tesla), mentre lo stabilimento stesso, con design più da Apple store che da Foxconn, offre anche “esperienze”, tipo parco a tema Fico-Eataly.

 

Molto bravo a capire la contemporaneità, il fichetto cinese ultimamente ha acquistato anche Terrafugia, una startup che progetta auto volanti, settore in cui tutti i grossi di Silicon Valley hanno messo un piede (più che altro per moda). Ha poi lanciato il marchio Lynk, sviluppato sulla stessa piattaforma dei Suv Volvo, ma con prezzi minori (tipo Skoda per Volkswagen). E si è comprato pure la Lotus. Ma il capolavoro è l’acquisto di London Taxi, il gruppo che produce i classici cab inglesi. Azienda decotta, è stata subito rilanciata e convertita all’elettrico. Naturalmente fa un sacco di soldi. Vedremo le prossime mosse: per ora si registra il capolavoro andreottiano cinese: fabbricare sia i taxi sia il veicolo che li seppellirà, l’auto di Uber.

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