Matteo Salvini (foto LaPresse)

Perché Salvini ha detto addio all'indipendentismo che non funziona

Maurizio Crippa
Vista da Barcellona, la secessione è un bicchiere mezzo vuoto; visto com’era andato il referendum scozzese un anno fa, è un bicchiere vuoto del tutto.

Milano. Vista da Barcellona, la secessione è un bicchiere mezzo vuoto; visto com’era andato il referendum scozzese un anno fa, è un bicchiere vuoto del tutto. Il motivo di fondo è sempre quello: al momento di decidere, la maggioranza della popolazione che in linea teorica condivide tutte le motivazioni del passo d’addio, economiche o etnico-culturali che siano, fa invece un passo indietro. Si tiene la sicurezza del più grande è meglio, schiva l’ignoto, soppesa garanzie e svantaggi e mette da parte l’orgoglio. I partiti indipendentisti, quando superano la soglia di guardia dell’autonomismo, per quanto esasperato, non ottengono il consenso immaginato.

 

In una nazione come l’Italia, che l’autonomismo in quanto modello complessivo dello stato non lo ha mai conosciuto, è bastato anche meno. La Lega Nord, per vent’anni sostenitrice di una riforma in senso federale dello stato (al di là di qualche velleità secessionista che non ha mai superato il confine del folklore) ha dovuto fare i conti col sostanziale fallimento storico del proprio progetto. In vent’anni il federalismo non ha fatto passi avanti, neppure il minimo sindacale dei costi standard regionali, la riforma del Titolo V della Costituzione – fatta però dalla sinistra – ha prodotto più danni che benefici e ora sta per essere smantellata. Lo statuto del partito che fu di Umberto Bossi recita sempre “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, ma l’ultima campagna in nome dell’indipendenza dei popoli sostenuta con un minimo di afflato ideale è stata quella scozzese. Per la Catalogna, Matteo Salvini si è limitato a un commento che equivale a un tacere: “Spero che il voto in Catalogna sarà un segnale di libertà”. Un cambio di strategia trasparente, che ha le sue radici nel tramonto del berlusconismo, nella stretta economica e fiscale successiva alla crisi internazionale, nell’emergere del modello renziano col suo neocentralismo morbido. Ma c’è un altro motivo, meno considerato: il mito federalista non ha saputo andare oltre il modello di buona amministrazione di qualche regione, senza diventare maggioritario nemmeno lì. Ogni tentativo di esportazione, in un consenso elettorale più diffuso o nelle logiche della Pubblica amministrazione, si è arenato. Salvini, per Dna personale o per fiuto politico, ne ha preso atto. Anche tralasciando la freddezza per il destino dei “popoli fratelli” europei e i loro sogni indipendentisti, basterebbe osservare quale sia il reale atteggiamento del suo partito nel dibattito sulla riforma costituzionale, che comprende un ridimensionamento del potere legislativo e di spesa dei livelli locali e introduce addirittura una “clausola di salvaguardia” dell’interesse nazionale a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica: un sostanziale disinteresse, ben mimetizzato. L’unico esponente leghista a essersi esposto è stato Roberto Maroni (“una riforma che cancella le Regioni… se passa non ha senso che ci sia un governatore eletto, basta mandare un prefetto”. Con i suoi milioni di emendamenti, Roberto Calderoli ha assunto su di sé il ruolo del fool, più che quello di reale capo di un’opposizione parlamentare.

 

[**Video_box_2**]Salvini l’ha lasciato fare, distrattamente. Perché, in pura logica politica, la riforma di Renzi gli va bene, anche se azzoppa le regioni. La narrazione politica salviniana è tutt’altra, è quella dei “due Matteo”: portare la sfida a livello nazionale, in un sistema il più possibile bipolare, dove chi vince comanda, e prendersi, se possibile, l’Italia. Non il Veneto, non la Padania. Casomai (è il pensiero dei leghisti che non mollano la vecchia linea) federalismo o indipendenza ce li prenderemo da lì, da Roma, una volta conquistato un governo che governi. In questo c’è ovviamente della strategia (le primarie nel 2016, la golden share del centrodestra, la manfrina con Berlusconi, il passo indietro sulla candidatura). M c’è anche una visione delle cose (del mondo?) mutata. Nelle parole d’ordine di Salvini non c’è più la Padania contrapposta all’Italia, non c’è mai l’Europa dei popoli e nemmeno il tradizionale neutralismo-pacifismo (cfr. intervista al Foglio di sabato sulla Siria). C’è un punto di vista che vuole essere nazionale: piccolo non è più sinonimo di bello.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"