Campionato, ultimo atto

Grazie Juve che vinci sempre ma senza annoiarci

Beppe Di Corrado
Il vecchio, la sorpresa, il gol, il mattatore: highlight di una stagione che a molti è sembrata mediocre, figlia della precarietà del nostro calcio. Eppure è stata combattuta, con lo scudetto vinto alla quartultima giornata

Quindi finisce un campionato mediocre. Sicuri? A leggere, sentire, annusare i commenti questo weekend c’è quasi la sensazione di una liberazione dalla Serie A. Il che è poco spiegabile con elementi oggettivi e molto con una serie di suggestioni alimentate per molti mesi sulla modestia del nostro calcio, sulla precarietà del nostro gioco, sulla bruttezza delle nostre partite. Ci siamo autoconvinti di essere entrati in una spirale senza uscita. Eppure è stato un campionato combattuto, in cui lo scudetto è stato vinto alla quartultima giornata e non alla prima di ritorno come negli anni precedenti. Eppure, ammesso che sia un valore, ci sono state cinque diverse squadre (Juventus, Napoli, Roma, Inter, Fiorentina) che si sono alternate nella stagione davanti a tutti in campionato. Eppure abbiamo avuto l’esplosione di calciatori forti che quest’anno sono diventati pazzeschi, la conferma di ragazzi che non sapevamo ancora che futuro potessero avere, la scoperta di giovani e giovanissimi che per anni erano banditi dalle prime squadre e che invece sono entrati in fretta in campo e ci sono rimasti da titolari. Non avere nessuna squadra ai quarti delle coppe europee non è un dato che misura l’oggettiva inferiorità del campionato italiano. L’anno scorso l’Italia aveva tre squadre in semifinale tra Champions ed Europa League e l’Inghilterra zero sin dai quarti pur avendo più club che partecipano alle coppe. Siamo quello che siamo. Punto. Siamo un campionato che alla 37^ giornata ha segnato 872 gol. Siamo il campionato del quinto scudetto consecutivo della Juventus. Siamo il campionato di Higuaín. Siamo il campionato di molte altre cose. Belle, brutte, modeste, esaltanti. E’ da qui che partiamo per riflettere che cosa ci lascia questa Serie A.

 

La squadra
La Juventus. Che vuoi dire? O meglio: c’è qualcuno che può dire il contrario? Cinque scudetti consecutivi. La rimonta che ha permesso la vittoria alla Juventus è stata impressionante, ma è l’accessorio che s’aggiunge alla sostanza. E la sostanza è quel numero: 5. Perché le statistiche parlano spesso più di ogni altra cosa e adesso raccontano che negli ultimi trent’anni non è successo in alcuno tra i tornei più importanti del mondo che una squadra abbia vinto cinque campionati consecutivi: bisogna tornare indietro agli anni Ottanta per trovare il Real Madrid di Butragueno e Hierro (sempre campione di Spagna tra il 1985 e il 1990). Nessuna tra le più grandi squadre d’oggi è riuscita a fare quello che ha fatto la Juventus tra il 2011 e il 2016. Anche a voler sminuire il valore della Serie A di questi ultimi anni, sarebbe intellettualmente disonesto non riconoscere che questa squadra sta entrando nella storia del calcio europeo. Il calcio moderno esclude supremazie del genere: il Bayern Monaco, che gioca in un campionato dove le squadre competitive sono meno di quelle italiane, quest’anno ha vinto il suo quarto titolo consecutivo. Lo stesso vale per il Paris Saint-Germain, che in Francia il campionato lo vince già prima di cominciarlo.

 

La rimonta è lo strumento della supremazia: 25 partite vinte nelle ultime 27. Recuperati 21 punti al Napoli e 25 alla Roma, che all’epoca era prima in classifica. E’ come quei film in cui si comincia che tutto è perduto e poi si risale, si risale, si risale. Questo campionato verrà ricordato come quello in cui la Juventus fece l’impresa di passare da undicesima a prima. E’ la bella storia che trasforma un risultato straordinario in epica. Aiuta a rendere sexy la ciccia vera: l’organizzazione con cui il club ha costruito il successo sportivo. Dieci anni fa, la Juventus era in Serie B. E’ passata per un terzo, un secondo, due settimi posti, dal 2007 al 2010 non ha mai superato le semifinali di coppa Italia. Ha lavorato come un’azienda, collegando direttamente i risultati economici a quelli sportivi e viceversa. I calciatori sono oggi, come nei quattro anni passati, l’espressione evidente di ciò che significa un club moderno. Business e spettacolo. Perché non c’è altra strada: valorizzare tutto il possibile, monetizzare tutto il possibile per ottenere risultati in campo e, quindi, ancora valorizzarli. Un circolo che se non si interrompe può proseguire come una giostra divertente. La mentalità Juve è qualcosa di sfuggente a chi juventino non è.

 

Il calciatore
Gonzalo Higuaín. 33 gol in 34 partite. Non serve neanche che raggiunga il record di Nordhal (35 gol). E’ il miglior calciatore del campionato per distacco, uno dei migliori d’Europa. Come ha scritto il Post qualche giorno fa, Higuaín non ha mai segnato così tanti gol in un campionato, né con il River Plate, squadra in cui è cresciuto, né con il Real Madrid. In Spagna, nella stagione 2009-2010, aveva stabilito il suo precedente record di gol realizzati: 27 in campionato e 2 in Champions League, eguagliato al Napoli lo scorso anno con 29 gol segnati tra campionato e coppe. Quest’anno ha segnato complessivamente 35 gol, 33 dei quali in campionato e due in Europa League, dove il Napoli è stato eliminato ai sedicesimi di finale dal Villarreal. Con 33 gol ha eguagliato la cifra raggiunta dall’attaccante dell’Inter Antonio Valentin Angelillo nella stagione 1958-1959, in un campionato disputato da 18 squadre. Il che appunto basterebbe. Oggi può arrivare al record dei record di Nordhal, che resiste dal 1950. I numeri spiegano molte altre cose: quando si dice che un calciatore vale mezza squadra bisogna pensare a Gonzalo, che da solo ha segnato il 40 per cento dei gol dell’intero Napoli. La distanza tra lui, primo in classifica dei marcatori, e gli altri, ovvero Dybala e Bacca è la più ampia di sempre: gli attaccanti di Juventus e Milan sono praticamente alla metà dei gol di Higuaín: 17. Un calciatore così è uno spot per la Serie A che vale spesso più di una partita. Perché riesce a trascinare un intero movimento e quindi un intero campionato. Poi c’è l’aspetto economico. Tutti parlano del suo valore: oggi se qualcuno lo volesse comprare, dopo la stagione appena finita, dovrebbe spendere più di 70 milioni, forse più di 80. E d’accordo. Ma gli altri? Ovvero il club? Quanti soldi ha portato il suo campionato al Napoli? Basti un altro numero: arrivare secondo – e ciò è stato possibile in gran parte per i gol di Gonzalo – vale più di 30 milioni di euro. Se il Napoli dovesse vincere infatti, sarebbe definitivamente qualificato ai gironi di Champions, il cui premio per la partecipazione è di 12 milioni di euro, e ne riceverebbe almeno altri venti dal “market pool”, i soldi provenienti dalla vendita dei diritti tv e dalle sponsorizzazioni della Uefa che le squadre impegnate nei tornei europei si dividono su base nazionale a seconda dei risultati raggiunti. A questi si potranno aggiungere i premi partita, gli incassi e quelli derivanti dal merchandising.

 

La partita
Roma, 20 aprile 2016. Stadio Olimpico. C’è Roma-Torino. Sarà la partita dell’anno, senza che nessuno possa anche soltanto immaginarlo. Perché noi siamo pronti sempre a guardare gli altri: ricordiamo ossessivamente Manchester City-Leicester, che è stato il match simbolo della incredibile storia di Claudio Ranieri e della Premier League di quest’anno. Poi se vogliamo qualcosa di più andiamo a cercare su YouTube Watford-Leicester, la partita del 2013 in cui il Watford di Zola passa dal baratro alla gloria in venti secondi, con il rigore parato dal portiere a tempo già scaduto e il gol decisivo che arriva sull’azione seguente. Ecco, va bene. Pensiamo a questo e poi teniamo uno spazio della nostra memoria per Roma-Torino. Per i quattro minuti in cui la carriera di Francesco Totti diventa definitivamente immortale. Entra con la Roma sotto 1-2 e da solo fa 3-2. Non ci sarà un’altra partita così né ci sarà un’altra storia così. E questo prescinde dall’amore o dall’odio che si possa provare per Totti. Perché basta la trama, anche senza personaggi: il calciatore più importante della storia di un club che sta per finire una carriera incredibile, ha 39 anni, sta litigando da settimane con l’allenatore che non lo fa giocare più di cinque minuti a partita e ovviamente neanche tutte le partite, è già entrato diverse volte risolvendo la situazione e s’è sentito dire che non è un tipo speciale. Adesso va in campo, con la situazione disperata ci va quasi per acclamazione popolare. Entra: boato. Tocca la prima palla: boato. Tocca la seconda: boato doppio, perché su una punizione che sembra buttata via, sbuca dietro tutti i difensori, si lancia in spaccata e la mette dentro. Minuto 85 e secondi 58. Boato triplo. Rigore, rasoterra, alla destra del portiere, sotto la Curva Sud. Minuto 88 e secondi 9.

 

Totti potrebbe anche non c’entrare con la grandezza di questa storia. Ma il fatto che c’entri la rende ancora più grande. Perché Totti, comunque la si pensi, è un calciatore diverso. Per tutto quello che si sa: ovvero l’essere romano e non aver mai lasciato la Roma, per essere il secondo marcatore della storia di questo paese, per essere un campione del mondo, per essere un simbolo. Per essere il talento. Per essere un pezzo di calcio che non è soltanto Roma.

 

L’allenatore
Rolando Maran. E’ uno di cui non parla nessuno. Ha portato il Chievo nono in classifica, senza passare mai per un pericolo, senza mai andare in crisi, senza mai scendere quest’anno in una zona in cui le cose si fanno complesse. A gennaio gli hanno portato via anche il miglior attaccante che aveva, Alberto Paloschi finito a fare la panchina nello Swansea. Maran è un allenatore di quelli che pensi non possano mai uscire dalla provincia. Era lo stesso pregiudizio che accompagnava Maurizio Sarri fino all’anno scorso. Poi con lui è stato superato. Maran sta lì, invece. Ci sta adesso come accadeva ieri e come probabilmente accadrà domani. Lì, ovvero alla periferia del calcio italiano, preferibilmente Nord-Est. Chievo o forse altrove. Però nessuno che a oggi pensi a lui per una grande o anche per una media, nonostante lui con 49 punti (possibilità di arrivare in questo weekend a 52) nel Chievo abbia avuto performance oggettivamente migliori di quelle di allenatori per i quali si prospettano piazze e squadre più grandi. Come se l’apprendistato non finisse mai.

 

Lo frega la comunicazione, completamente diversa rispetto a quella di altri colleghi. Il che dimostra che come parli e quanto parli in fondo conta. Maran è uno che dice così: “Sono arrivato in Serie A a 49 anni. Sono orgoglioso, mi ha rinforzato. A qualcuno magari la gavetta non serve. Ma ogni giorno si presentano situazioni diverse. Impari a elaborarle, mica puoi affrontarle tutte allo stesso modo. E allora realizzi che la tua conoscenza ti aiuta a trovare soluzioni veloci con meno errori. Se mi chiedono che allenatore sono dico: schietto. Ci metto la faccia. Se mi camuffo commetto un errore. Non sono più me stesso e io mi sono ripromesso di essere me stesso. Sempre e comunque”.

 

Il gol
Avete presente il gol di Florenzi? No, non quello contro il Barcellona. Qui si parla di Serie A, di Italia. Il gol è quello della trasferta di Udine. Non è un tiro da fuori, tantomeno da 50 metri, come quello segnato al Barcellona. E’ semplicemente un gol intelligente. Per questo meraviglioso. Dkezo che sulla trequarti allarga per Salah che stoppa di destro e di esterno sinistro tocca indietro per Pjanic che di prima lancia verso Florenzi che nel frattempo ha fatto una sovrapposizione sulla destra e sta arrivando veloce: Florenzi segue la palla con lo sguardo, la porta giù con il collo del piede destro mentre sta uscendo il portiere e sempre col destro la tocca d’esterno per anticipare lo stesso portiere.

 

Non serve la fantascienza per segnare il gol più bello del campionato. Quello che ha portato al gol di Florenzi è il calcio: quattro giocatori coinvolti, pochi tocchi, tutti i fondamentali del gioco messi insieme: stop e passaggio, tocco di prima, lancio, testa alta, sovrapposizione. Qualcosa di fantastico per ogni allenatore.

 

L’assist
Torino-Juventus, stadio Olimpico. Sarà una partita molto contestata, con più di una ragione, da parte del Toro. Però al minuto 18 del secondo tempo: Pogba insegue Maksimovic, gli toglie la palla sulla trequarti, l’avversario ritorna, lo affianca, lo supera, gli mette una gamba tra le sue, lui con il tacco destro fa passare la palla proprio tra le gambe di Maksimovic, poi alza la testa, vede il taglio in profondità di Morata, la tocca sotto morbida a scavalcare l’ultimo difensore del Torino.

 

E’ raro vedere una giocata così bella in qualunque campo di calcio del mondo. Se qualcuno voleva una prova del fatto che Pogba sia tra i cinque calciatori più forti del mondo oggi l’ha avuta con quell’assist. Perché non è normale. E’ qualcosa che non si riesce neanche a immaginare. E’ stato uno degli undici assist di Pogba in questo campionato. Ha fatto fare più gol di quanti ne abbia fatti lui. E’ l’unità di misura con cui si valuta la classe, spesso il talento, sicuramente il potenziale futuro di uno dei leader del calcio mondiale. Perché dicevano: è egoista. E lui all’inizio di questa stagione aveva fatto di tutto per dare ragione a chi non è ancora convinto che sia uno degli eletti. Maurizio Crosetti ha scritto: “La cifra degli assist è quella che spiega lo sblocco vero di Pogba, che fino a qualche mese fa col pallone faceva due cose: o il gesto meraviglioso, oppure lo svolazzo. Dopo essere precipitato nel calcio come un meteorite da un pianeta sconosciuto, il francese è stato come preso in ostaggio dal proprio talento, oltre che dalla spaventosa valutazione mercantile, i famosi 100 milioni di euro. E quel talento lo ha convinto, magari inconsciamente, che ogni palla da lui toccata dovesse essere memorabile. Questo lo ha fatto entrare in una sorta di tunnel barocco: ma quando Pogba ha capito che non doveva fare il fenomeno a ogni tocco, ha ricominciato a esserlo”. Quella giocata contro il Torino racchiude una stagione. E spiega perché ci sia così tanta inquietudine rispetto anche alla sola idea che la Juventus lo possa vendere.

 

Il giovane
Il nome è Piotr Zielinski. Avrebbe potuto essere Gigio Donnarumma che a 16 anni è diventato titolare in Serie A. Ma paradossalmente è già oltre. Zielinski è il vero giovane di questo campionato. Sta per compiere 22 anni, ha giocato nell’Empoli, è di proprietà dell’Udinese. E’ stato appena convocato dalla Nazionale polacca per l’Europeo. E’ una mezzala, corre, copre, attacca, tira. Ha segnato tre gol in 28 presenze. L’Udinese lo comprò per 100 mila euro nel 2001, per la Primavera. Quest’anno è cresciuto come pochi altri calciatori del campionato. In silenzio, in una squadra che era salva già a metà del campionato. Alla fine di questa Serie A, è considerato uno dei calciatori che muoverà il mercato di quest’estate: potrebbe tornare all’Udinese, o più probabilmente andare in qualche squadra più importante. Come la Fiorentina o come il Napoli che, stando ai resoconti di mercato dei giornali lo vorrebbe subito.

 

 

 

 

 

Il vecchio
Certo che potrebbe essere Totti. E però è Gianluigi Buffon. Per il record e per la stagione complessiva. Perché avrebbe meritato il Pallone d’Oro – anche se lui dice di no – e perché non l’hanno neanche incluso nella lista di chi era in corsa per il trofeo lo scorso anno. La sua reazione è stata fare la miglior stagione individuale della sua carriera a 38 anni. Il record di imbattibilità ha formalizzato quello che il calcio ha già raccontato: 974 minuti senza prendere gol, superati Zoff e Sebastiano Rossi. Superati tutti per ratificare una certezza: Gigi è il portiere più forte degli ultimi vent’anni. Italiano. Europeo. Mondiale. Che forse vorrebbe dire anche il più forte degli ultimi Cinquanta e dunque anche il più forte di sempre. Ma si entrerebbe in un campo minato, fatto di paragoni insensati, di confronti impossibili, di giudizi soggettivi a cavallo tra le ere geologiche del pallone. Gli ultimi venti anni sono sufficienti per lui e per il calcio: quattro volte scelto dall’International Federation of Football History & Statistics. Poi i trofei. Poi il resto. Ovvero lo stile di gioco e la personalità. Buffon è un mito. E’ un campione. Punto. Stop. Ha vissuto successi e pure sconfitte. A testa alta. Passato dalla goliardia alla maturità: ragazzino, ragazzo, poi adulto. Grande. Mezzo mondiale 2006 è nelle sue mani, come molti dei trofei della Juventus. Il record di quest’anno merita applausi anche da chi legittimamente gli tifa contro. Per onestà. Gli ultimi anni della carriera l’hanno reso più universale, più condiviso, meno trascinato da una parte per tifo: la maturità ha consegnato al calcio italiano un uomo che racconta spesso di essere stato in balia di se stesso e di essersi ripreso, di aver sbagliato e di aver rimediato agli errori. La vecchiaia calcistica è questa cosa qui, semplicemente. Viverla come la vive lui è meraviglioso. Per lui e per il calcio italiano.

 

La delusione
Per molti potrebbe essere il Milan. Per qualcuno l’Inter. Per qualcun altro il Verona. Per altri forse addirittura la Lazio. Invece è l’Udinese. Perché erano anni che non andava così male. E perché per la prima volta dopo molto tempo questo campionato ha messo in crisi il suo modello: comprare bene e vendere meglio. In un campionato potenzialmente più facile ha portato a una salvezza complessa, ottenuta aritmeticamente solo alla penultima giornata e per demeriti altrui. Con un’altra aggravante: il club che è riuscito a costruire uno stadio di proprietà, a entrare pur da piccolo, in un calcio nuovo, che ha stabilito con i tifosi un certo tipo di rapporto, ha subito la contestazione degli stessi tifosi che per anni hanno sostenuto ogni mossa, senza mai polemizzare per le cessioni. Ha perso molto quest’anno l’Udinese. Probabilmente più di quanto dicano i punti in classifica.

 

La sorpresa
Leonardo Pavoletti. E’ il miglior marcatore italiano: 13 gol, nonostante un infortunio complicato nel momento migliore della stagione. Per molto tempo quest’anno ha avuto un record: un gol ogni 33 palloni toccati. A vederlo non sembra un calciatore di quelli contemporanei: non è particolarmente graziato nei movimenti e neanche pulito nei fondamentali. Eppure è incredibilmente efficace. E’ un centravanti. Sta lì, viene incontro a fare la sponda, poi va in profondità. E’ un attaccante d’area, classico ma al tempo stesso moderno. Sente la porta, ma non si limita a starci davanti. Corre molto, aiuta in ripiegamento, torna, pressa, lotta e apre spazi per i compagni. Il Genoa sfrutta la sua altezza con le palle alte: Pavoletti è primo in campionato per contrasti aerei vinti, 4,1 a partita, davanti a Milinkovic-Savic della Lazio e Dzeko della Roma (entrambi 3,8). E’ anche il giocatore che ha segnato più di tutti di testa. E’ necessario nell’economia di squadra, non solo quando la butta dentro. Pavoletti ha saltato sette partite (quattro per squalifica, tre per una distorsione) e quella con il Carpi praticamente non l’ha giocata, visto che è stato espulso dopo sei minuti (una gomitata “senza senso”, per Gasperini). Ecco, in queste otto partite il Genoa ha sempre perso, e cosa ancor più rilevante ha segnato soltanto un gol. Con Pavoletti in campo, il Genoa ha perso solo due volte su tredici, con una media punti completamente diversa. Per questo Gasperini lo accosta a Higuaín, per il peso specifico che ha nel complesso della squadra. A molti potrebbe sembrare un’esagerazione ma ognuno degli allenatori che ha avuto, a cominciare da quelli delle squadre di B in cui ha giocato, dice la stessa cosa. E’ arrivato in Serie A tardi: oggi ha 27 anni e dice di essere diventato calciatore praticamente per caso. Imperfetto. Efficacissimo. “Sarebbe molto utile a Conte”, ha detto più volte Gasperini. Potrebbe essere il centravanti dell’Italia all’Europeo.