Danièle Nouy (foto LaPresse)

Dove vuole arrivare la gendarme della Bce con l'eugenetica del credito

Renzo Rosati

Nei discorsi di Danièle Nouy emerge un approccio dirigista per eliminare i rischi e gli istituti "contagiosi" dall'Eurozona. Terapia di fusioni e fallimenti

Roma. Per solennizzare i tre anni di vita della Vigilanza della Banca centrale europea, che cadono il 4 novembre, il presidente dell’organismo Danièle Nouy, 67enne civil servant francese – è stata funzionaria alla Banque de France e numero uno dell’Autorità di controllo di banche e assicurazioni – ha scelto tre occasioni. Il 27 settembre un discorso al Forum finanziario di Madrid dal titolo “Troppe ghiottonerie? La necessità di consolidare il sistema bancario europeo”. Il 29 settembre un intervento a Bruxelles su “L’Unione bancaria tre anni dopo: ha mantenuto le promesse?”. Il 4 ottobre una nuova stretta sulle riserve a copertura dei Non performing loans (Npl), i crediti deteriorati. Se per questa erano prevedibili le perdite in Borsa dei titoli delle banche e la loro levata di scudi, può valere la pena di analizzare i discorsi della Nouy. Nel primo, ricorda che anche se la cioccolata e la vitamina B piacciono o fanno bene, l’eccesso può causare gravi danni. E avverte che “se in linea di principio l’attività bancaria è una buona cosa, un’economia ‘overbanked’ può nuocere seriamente a se stessa”. A supporto della tesi che in Europa ci siano troppe banche, la Nouy elenca una serie di dati: benché dal 2008 il loro numero si sia ridotto del 20 per cento, ne esistono tuttora circa 5 mila. I dipendenti, nonostante 300 mila tagli, sono 1,9 milioni. Gli asset bancari rappresentano il 280 per cento del pil dell’Eurozona (il 320 nel 2012), rispetto all’88 per cento degli Stati Uniti – dove le aziende hanno più facilità a finanziarsi in Borsa. Ma qual è la terapia proposta?

 

Un ulteriore massiccio consolidamento del settore, assistito dai governi, che comprenda fusioni, acquisizioni “e anche fallimenti, purché non a carico dei contribuenti”. Nouy, il cui mandato quadriennale scade a fine 2018, dichiara la propria preferenza per maxi-operazioni non in singoli paesi, ma nell’area euro. Quanto ai fallimenti, “potrebbe essere la sorte inevitabile per banche piccole, destinate ad andare fuori mercato, spargendo il loro virus sugli istituti in salute”. Può apparire un discorso di buon senso, sennonché l’obiettivo fissato è “la riduzione al minimo del rischio bancario”, e del “contagio che potrebbe nuovamente propalarsi all’economia e al benessere dell’Europa”. E’ una concezione vagamente eugenetica della finanza, e dello stesso concetto d’impresa, che ha per definizione il rischio incorporato. Nessun dubbio che in Europa di banche ce ne siano troppe, ma che dire della selezione della specie mirante alla perfezione? E’ un’idea quantomeno dirigista. Né si capisce quale potrebbe essere il ruolo dei governi in questi processi, se si richiama l’obbligo del bail-in, cioè del non salvataggio pubblico in caso di (salutari) fallimenti. Anche perché nell’altro discorso a Bruxelles il 29 settembre, tracciando il bilancio dei suoi tre anni di vigilanza, Nouy ammette che l’“Unione bancaria è completa solo per due terzi”. E cioè: “Due pilastri sono stati posti, la sorveglianza (Single supervisory mechanism) e le regole di risoluzione, cioè dei fallimenti (Single resolution mechanism), mentre manca il terzo, lo schema di assicurazione europea dei depositi (European deposit insurance scheme)”.

 

La mancanza di questo terzo pilastro è lamentata anche dai più convinti sostenitori delle euro-riforme, non certo dai sostenitori dello status quo. Ma il mix dei discorsi di Nouy genera l’immagine della massima responsabile della Vigilanza europea che chiede di non ostacolare o addirittura far scoppiare altre crisi, in nome di banche più forti e più pure, prima di aver attrezzato pronto soccorsi e ospedali per i risparmiatori (famiglie e aziende). E proprio perché viene preso a paragone il massiccio consolidamento del settore avvenuto negli Stati Uniti, sarebbe stato logico spiegare chi ne era stato il principale artefice, e perché: e cioè la presidenza democratica di Bill Clinton, che abolendo il divieto rooseveltiano della legge Glass-Steagall, invitò le banche commerciali a fondersi con le merchant bank di Wall Street. La presunzione del “too big to fail”, banche troppo grandi e troppo forti per subire o innescare crisi di sistema, che vagamente ricorda la selezione à la Nouy, è com’è noto franata sul fallimento della Lehman Brothers, infettando la finanza mondiale. L’opposto di quanto ora auspicato. E anche l’opposto di quanto praticato da Mario Draghi, l’alter ego (ma “separato da un muro”) della Nouy alla Bce con i suoi massicci stimoli monetari. Può capitare quando al pragmatismo si sostituisce l’idea che tutto possa essere previsto e realizzato in provetta, magari senza maschera di sicurezza. O quando i guardiani delle regole si mettono a dettare le regole stesse. In Italia ne abbiamo un esempio quasi quotidiano con la magistratura in stile Piercamillo Davigo. Absit iniuria.

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