Contadini di ritorno dalla campagna

Le rivoluzioni storiografiche sul Mezzogiorno sono molto sopravvalutate

Guido Pescosolido
Appunti per l’economista Felice sulla debolezza economica del sud post borbonico e di quello attuale.

Nel domenicale del Sole 24 ore del 3 luglio scorso, prendendo spunto dai recenti dati pubblicati dall’Istat sul pil del 2015, che registrano dopo molti anni un saggio di sviluppo del pil superiore a quello del nord-est e pari a quello del nord-ovest, Paolo Bricco intervista Emanuele Felice, autore di un fortunato saggio uscito tre anni addietro (“Perché il Sud è rimasto indietro”) e di una Storia economica d’Italia uscita lo scorso anno (pretitolo: “Ascesa e declino” ed. il Mulino). Il commento di Felice ai dati Istat mi appare pienamente condivisibile. All’origine del risultato del Mezzogiorno, egli dice, “c’è soprattutto il più 7,3 per cento dell’agricoltura. Si tratta senz’altro di un fenomeno interessante. Ma non si può non notare come, invece, l’industria manifatturiera sia, nel Mezzogiorno, ferma o addirittura in ripiegamento. Dunque, il sud si assesta su una specializzazione produttiva più di base, meno sofisticata e con un valore aggiunto inferiore”. Al che aggiungerei a mia volta che sicuramente un anno è un lasso di tempo rispettabile, ma che una rondine non fa primavera, che il sud è in recessione gravissima dal 2008, che dal 2001 al 2007 era stato in crescita debolissima, inferiore a quella del resto del paese, e che quindi negli ultimi quindici anni il divario nord-sud nel pil pro-capite non ha fatto altro che allargarsi fino a raggiungere nel 2014 i livelli dell’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, che rappresentavano il massimo storico dall’Unità in poi. Sollievo dunque per il risultato sicuramente positivo, ma calma quindi prima di pensare a una vera inversione di tendenza nell’economia, che peraltro sarebbe solo rispetto al nord-est, al quale le recenti sanzioni alla Russia non hanno giovato.

 

Quel che però mi ha sorpreso negativamente nell’intervista, è stato il ritorno sulla polemica che accompagnò l’uscita tre anni fa del saggio di Felice, che avrebbe contribuito, secondo Bricco, a “mutare… le coordinate del dibattito pubblico sulla questione meridionale …(basandosi) sulla rottura, dal punto di vista metodologico e quantitativo di alcuni luoghi comuni della storiografia sull’unità d’Italia”. E i luoghi comuni, precisa l’autore, sarebbero stati quelli alimentati da una storiografia “quasi neo-borbonica”, che avrebbe sostanzialmente sostenuto che nord e sud al momento dell’Unità avrebbero avuto lo stesso reddito pro-capite, mentre le sue verifiche, che nessun’altro avrebbe fatto, lo avrebbero portato a constatare “che la ricchezza prodotta al sud era, già allora, inferiore rispetto a quella del centro-nord”. Avere scoperto una simile verità, secondo l’intervistatore, “equivale di norma, in Italia, al suicidio accademico”. E, di rincalzo, Felice osserva “Ho scelto di farlo… grazie all’incoscienza di avere un percorso tutto straniero, in particolare in Spagna”.

 

Ora, detto per inciso, i sostenitori della parità del pil al momento dell’Unità, sono stati, che io sappia, due studiosi di poco più anziani dello stesso Felice, che non mi risultano detentori di terrificanti poteri baronali. Ma il punto non è questo. Il punto è che la tesi sostenuta da Felice, secondo la quale nel 1861 la ricchezza prodotta dal sud era inferiore a quella prodotta dal centro-nord, prima di lui è stata sostenuta da un esercito di studiosi dall’indomani dell’Unità in poi. Ricordo che se Pasquale Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato, Salvemini, De Viti De Marco, lo stesso Einaudi, lo stesso Gramsci, con Gobetti, Ciccotti, Dorso, parlarono di “questione meridionale”, lo fecero perché ritenevano che esistesse un’inferiorità economica e sociale del Mezzogiorno rispetto al nord ereditata dal caduto regime borbonico. E nel secondo dopoguerra studiosi di diverso, e anche opposto, orientamento politico-ideologico, come Giuseppe Galasso, Rosario Villari, Pasquale Villani, Rosario Romeo, si interrogarono a lungo sul ruolo e sul retaggio del feudalesimo nel Mezzogiorno e in Sicilia, per rintracciare le radici del divario economico, sociale e civile esistente al momento dell’Unità. E a cosa alludeva Emilio Sereni quando parlava di residui feudali nelle campagne italiane, e meridionali in particolare, e alla persistenza di squilibri territoriali, se non a una differenza di ricchezza e capacità produttiva? Del resto Felice dovrebbe conoscere molto bene cosa scrissero, al di là dei loro studi sul feudalesimo, Galasso, Villari, Villani e Romeo sull’economia italiana al momento dell’Unità e le misurazioni dei dislivelli produttivi fatte nel 1861 da R. Eckaus; e anche se vuole trascurare l’Unità politica e dualismo economico in Italia (1861-1993), di Rosa Vaccaro – nota comparatista dei dualismi italo-spagnoli – non può dimenticare le valutazioni del divario di Vera Zamagni (Dalla periferia al Centro, 1990) e la posizione di Luciano Cafagna, al riguardo il più drastico di tutti nella stima delle distanze nord-sud al momento dell’Unita (Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, 1989) e uno dei più tenaci nel difendere il valore dell’Unità d’Italia contro leghisti da un lato e neoborbonici dall’altro.

 

Non vedo quindi nel lavoro di Emanuele Felice tutta la sconvolgente e rivoluzionaria novità che avrebbe addirittura messo in pericolo in Italia la sua carriera accademica.