Cosa ci dice sull'Europa la sfortunata sorte del capitalismo nella storia islamica

Marco Valerio Lo Prete

Jean Baechler scrive che “l’espansione del capitalismo ha la sua origine e la sua ragion d’essere nell’anarchia feudale”, adotta dunque un approccio istituzionale. Un modo per sottoporre a verifica tale ipotesi, è quella di analizzare la parabola di altre società che quella fase di “anarchia feudale” non l’hanno attraversata.

    La scorsa settimana ho passato in rassegna, in occasione della ripubblicazione di un suo importante lavoro in Italia, le tesi di Jean Baechler, accademico di Francia e professore emerito di Sociologia alla Sorbona. Baechler è tra quanti si sono cimentati con il tentativo di dare una spiegazione al “miracolo europeo”, inteso come processo di arricchimento e fioritura straordinari. Nel suo libro del 1971 “Le origini del capitalismo” enfatizzò per primo i fattori “istituzionali” e non “economici” o “culturali” che erano dietro la nascita del sistema capitalistico, influenzando tutti i maggiori studiosi dopo di lui. In estrema sintesi, Baechler scrive che “l’espansione del capitalismo ha la sua origine e la sua ragion d’essere nell’anarchia feudale”, adotta dunque un approccio istituzionale.

     

    Un modo per sottoporre a verifica tale ipotesi, è quella di analizzare la parabola di altre società che quella fase di “anarchia feudale” non l’hanno attraversata. E’ quanto ha fatto in molte delle sue opere il sociologo italiano Luciano Pellicani, studioso del capitalismo e uno dei primi a rilanciare  e sostenere in maniera decisa, nelle sue analisi sul mondo islamico, le tesi di Baechler. Quanta responsabilità hanno le istituzioni nel processo di decadenza e pietrificazione, economico e intellettuale, del mondo islamico?

     

    Per rispondere, Pellicani in particolare cita lo storico islamico Ibn Khaldun, vissuto nel XIV secolo. “La sua tesi è così riassumibile: la rovina economica della civiltà islamica era da imputare al fatto che i diritti di proprietà erano metodicamente calpestati dai governanti, i quali ritenevano di poter disporre ad libitum dei beni dei sudditi, con l’inevitabile conseguenza di soffocare sul nascere ogni motivazione a lavorare e intraprendere” (Luciano Pellicani, “Dalla società chiusa alla società aperta”, Rubbettino, 2002). Scriveva infatti Ibn Khaldun nella sua opera intitolata Muqaddimah del 1377: “Vessare la proprietà privata significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi sono universali e se investono tutti i mezzi di esistenza, allora la stagnazione degli affari è generale, a causa della scomparsa di ogni incentivo a lavorare. Al contrario, a lievi attentati alla proprietà privata corrisponderà un lieve arresto del lavoro. Poiché la civiltà, il benessere e la prosperità pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il loro profitto. Quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la loro vita e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio. Gli uomini per trovare lavoro di disperdono all’estero. La popolazione si riduce. Il paese si svuota e le sue città cadono in rovina. La disintegrazione della civiltà coinvolge quella dello Stato, come ogni alterazione della materia è seguita dall’alterazione della forma”. Così parlava Ibn Khaldun nel XIV secolo, descrivendo il dispotismo che in quei secoli caratterizzava il Dar al-Islam, la casa dell’Islam.

     

    Non che la figura del cittadino, con un set compiuto di diritti, fosse già affermata in tutta l’Europa, ma almeno qui – osserva Pellicani rifacendosi a Baechler – i baroni, i cavalieri, gli ordini religiosi, le università, i mercanti, gli artigiani e persono i contadini godevano di diritti stabiliti con precisione e, di regola, rispettati. Lo Stato islamico “ingabbiava” le società sulle quali esercitava il suo dominio, impedendo “quell’originalissimo sviluppo che ebbe l’Europa occidentale. Uno sviluppo che iniziò a partire dalla rivoluzione comunale, durante la quale – grazie alle libertà e ai diritti strappati, armi in pugno, dai borghigiani – furono messe le basi istituzionali della ‘società civile’, vale a dire della ‘società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati conseguenti liberamente i loro fini’ (Marx ed Engels), dunque della società centrata sul mercato ed egemonizzata dalla borghesia imprenditoriale, protagonista assoluta di quella smisurata metamorfosi espansiva che va sotto il nome di capitalismo”.

     

    [**Video_box_2**]La conclusione di Pellicani è perciò la seguente: “La superiorità tecnologica, grazie alla quale le potenze europee, fra il XVI e il XIX secolo, hanno potuto estendere i loro tentacoli sull’intero pianeta, è stata la conseguenza di lungo periodo della nascita delle città autocefale, della formazione della società distributrice di diritti e della istituzionalizzazione di uno spazio protetto – il mercato – in cui la borghesia ha avuto agio di creare una economia autopropulsiva a vocazione planetaria”. Al contrario, come ha scritto lo storico arabo Amin Maalouf, nel mondo islamico non fu posto “alcun limite al potere arbitrario del Principe”, perciò “lo sviluppo delle città mercantili, come l’evoluzione delle idee, non potevano che essere ritardati”. Una conferma della felice intuizione di Baechler sulla prolifica “anarchia feudale” che a un certo punto regnò in Europa.

     

    Qui potete ascoltare l'audio della mia rubrica "Oikonomia", in onda ogni lunedì mattina su Radio Radicale.