La conferenza stampa di Minniti, Del Sette, Gabrielli e Toschi (foto LaPresse)

Polizia contro il fango

Claudio Cerasa

L’operazione di Milano ci ricorda perché il terrorismo non si può battere stando solo sulla difensiva

La cronaca la conoscete tutti: l’uomo più pericoloso d’Europa, Anis Amri, il terrorista sospettato della strage di Berlino, è stato ucciso nella notte tra giovedì e venerdì in piazza I Maggio, a Sesto San Giovanni, da un poliziotto di ventinove anni, in servizio da nove mesi, che con un collega, rimasto ferito a una spalla, stava pattugliando l’hinterland su indicazione della questura di Milano, che aveva segnalato la possibile presenza del terrorista sul territorio milanese. Ieri mattina, intorno alle undici, il ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha raccontato i dettagli dell’intervento: chiamando accanto a sé il comandante dei carabinieri, Tullio Del Sette, quello della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, e il capo della polizia, Franco Gabrielli, e sfidando il partito del fango quotidiano, specializzato nel delegittimare le forze dell’ordine a colpi di avvisi di garanzia sventolati come se fossero scalpi da appendere in soggiorno (Del Sette è indagato dalla procura di Napoli per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio) e rivelando poi, in un eccesso di foga evitabile, i nomi dei poliziotti autori del blitz (gli americani hanno onorato alla Casa Bianca i marines che sul treno per Amsterdam placcarono un terrorista, non si capisce perché l’Italia non possa fare lo stesso). L’operazione di successo con cui due semplici poliziotti hanno neutralizzato il jihadista più ricercato d’Europa ci dice molte cose rispetto all’approccio che il nostro paese ha nella lotta al terrorismo. Alcune buone, altre meno.

 

Ci dice che fino a oggi carabinieri, esercito, polizia e intelligence – nonostante il tentativo quotidiano di delegittimarne i vertici (con inchieste fuffa e veline delle procure spesso utilizzate per giochi di potere) e nonostante la predisposizione naturale di una parte della magistratura ad accanirsi contro le forze dell’ordine (i Ros, l’intelligence) che per combattere il terrorismo si muovono facendo leva più sui mandati dei governi che sui mandati delle procure – sono riusciti a fare quello che ad altri paesi è riuscito meno: prevenire gli attentati. Ci dice che fino a questo momento il sistema di sicurezza italiano nella lotta al terrorismo è il migliore d’Europa: sappiamo come si fanno i controlli, sappiamo come coordinarci con le altre intelligence, sappiamo come agire contro i terroristi.

 

Ci dice questo ma la storia di Anis Amri ci dice anche altro. Ci dice, per esempio, che il vero bug del sistema italiano non riguarda la prevenzione ma riguarda un buco nero importante che si trova all’interno del nostro modo di operare nell’ambito della lotta all’immigrazione irregolare. Anis Amri, come noto, in Italia, prima di giovedì notte, c’era già stato a lungo: era arrivato a Lampedusa nel 2011 e dopo aver preso parte a una violenta protesta di migranti venne arrestato e condannato a quattro anni di carcere, scontati all’Ucciardone di Palermo. In carcere la sua radicalizzazione venne monitorata dalle forze dell’ordine e a maggior ragione quando venne rilasciato nel 2015 sarebbe stato importante dare seguito alla sua pena accessoria che prevedeva l’espulsione dall’Italia. Una volta lasciato l’Ucciardone Amri venne mandato in un Cie e contro di lui venne emesso un provvedimento di espulsione. Dopo un mese nel Cie però (in Italia ci sono cinque Cie, con una capienza di 900 posti l’uno, secondo il Viminale i richiedenti asilo in Italia sono 50.000, e per questo all’interno di un Cie è difficile che ci si rimanga fino ai 18 mesi massimi previsti dalla legge) Amri venne fatto uscire con il semplice ordine di lasciare il territorio italiano entro sette giorni.

 

In quei sette giorni piuttosto che tornare in Tunisia (suo paese d’origine, che si è rifiutato di riaccogliere il futuro terrorista, facendo leva anche su una scarsa capacità dell’Italia di fare pressione su questo fronte) Amri andò in Germania e il resto purtroppo è noto. Ci dice tutto questo dunque la storia del terrorista più pericoloso d’Europa ucciso in piazza I Maggio, a Sesto San Giovanni. Ma ci dice anche, infine, che l’Italia ha dentro di sé un doppio virus: quello di considerare le forze dell’ordine eroiche solo nelle occasioni straordinarie; e quello di considerare la lotta al terrorismo legittima solo quando l’Italia mostra la sua forza nelle operazioni difensive. Il terrorismo, però, non lo si combatte solo difendendosi. Lo si combatte anche offendendo e facendo cioè quello che a Natale è spiacevole ricordare: mettendo in campo una forza incomparabilmente superiore a quella messa in campo dai nemici. E quella forza non la si può sprigionare solo quando ci si difende da un terrorista che spara, ma la si deve sprigionare andando a cercare i terroristi nei luoghi in cui il jihad viene teorizzato e alimentato. Siamo in guerra. E finché saranno solo gli altri a combattere con tutti i mezzi possibili, sarà una guerra che non potrà mai essere vinta. Buon Natale.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.