Benedetto XVI (foto LaPresse)

Testimonianza più che battaglia per vivere da cristiani nell'oggi. L'Opzione Benedetto

“Gesù non ha promesso che gli inferi non prevarranno sulla chiesa in occidente”, scrive Dreher

New York. Da oltre un decennio Rod Dreher scrive e parla dell’Opzione Benedetto, espressione che racchiude i tratti essenziali di un metodo per vivere in modo cristiano dentro l’occidente scristianizzato, e da oltre un decennio viene frainteso. Agli occhi dei critici che guardano con sospetto il fervore di questo giornalista americano cresciuto nella chiesa cattolica e poi approdato all’ortodossia russa, l’Opzione Benedetto non è che una riedizione più sofisticata della grande rinuncia alla battaglia con il mondo che ha portato, decenni fa, buona parte degli evangelici americani a ripararsi in bolle monoculturali il più possibile protette da influenze esterne, una exit strategy dalla secolarizzazione, una riorganizzazione delle forze in riserve della fede dalle quali tenere il broncio alla modernità invece di puntarle la pistola o di darle un bacio, a seconda delle inclinazioni.

 

La riduzione quietista, rinunciataria dell’Opzione Benedetto è il modo più semplice per neutralizzare politicamente la proposta di Dreher sia dal lato conservatore sia da quello progressista. Per i tradizionalisti, l’Opzione Benedetto così rappresentata è una disonorevole rinuncia alla battaglia nell’arena pubblica, per i progressisti è una ostinata, occidente-centrica resistenza alle necessità di adattamento, per non dire di assimilazione, dell’esperienza cristiana al paradigma della vita secolarizzata che la realtà sembra reclamare a gran voce. Il libro The Benedict Option: a Strategy for Christians in a Post-Christian Nation, che esce oggi negli Stati Uniti, dovrebbe mettere fine alla proliferazioni di calcolati fraintendimenti che accompagnano una strategia, per riprendere il sottotitolo, che si definisce innanzitutto in termini negativi. L’Opzione Benedetto “non offre una agenda politica, non è un manuale di bricolage spirituale, non è una lamentazione standard sulla caduta e il declino”, scrive Dreher. Se è più semplice dire ciò che l’Opzione Benedetto non è, è perché in fondo l’autore non intende fondare una nuova sensibilità movimentista o costruire a tavolino un modello di comunità cristiana, un falansterio religioso da replicare ovunque, ma ripropone ciò che i cristiani hanno fatto per secoli senza necessariamente sentire il bisogno di dare alle loro azioni un nome. Hanno vissuto da cristiani. In modo creativo, flessibile, progredendo e correggendo la mira, adattandosi al mutare delle circostanze senza però credere allo spirito dei tempi. L’Opzione Benedetto non è dunque una fuga ordinata da un mondo dichiarato definitivamente inconciliabile con la mentalità cristiana, è un ritorno a casa.

 

Dreher ha coltivato in questi anni un’intuizione profetica che il filosofo Alasdair MacIntyre ha scritto nell’ultima pagina del suo capolavoro, After Virtue, tracciando un ardito parallelo fra la condizione contemporanea e l’età dei barbari: “Questa volta i barbari non stanno oltre le frontiere, ma ci governano da molto tempo. E la nostra mancanza di coscienza di ciò è parte del problema. Aspettiamo non Godot, ma un altro – certamente molto diverso – San Benedetto”. Il tentativo di Dreher è tracciare i contorni del volto di questo Benedetto “certamente molto diverso” che potrà vivere e trasmettere la fede in questo mondo di barbarie sorridente e democratica, e per questo il libro ha diverse velocità. Si tratta di un saggio critico che ripercorre la crisi della mentalità cristiana in occidente da Pico della Mirandola a Obergefell v. Hodges, la sentenza della Corte Suprema che ha legalizzato il matrimonio gay in America, ma ha anche una vena manualistica, prescrittiva, e sfocia infine nel registro della testimonianza, ché l’Opzione Benedetto la si può descrivere in teoria, ma è viverla in pratica che fa la differenza. La teoria è questa: “Potrebbe essere che il modo migliore per fermare la marea è… non fermare la marea? Cioè, smettere di disporre i sacchi di sabbia e costruire invece un’arca dove ripararci fino a che le acque non si saranno ritirate e potremo mettere i piedi di nuovo sulla terra asciutta?”.

  

La pratica passa dalle comunità concrete, dalle opere, dalle esperienze educative, dai gesti concreti dei cristiani che vogliono vivere in modo ortodosso questo tormentato momento della modernità, nella coscienza che “Gesù Cristo ha promesso che le porte degli inferi non prevarranno sulla sua chiesa, ma non ha promesso che gli inferi non prevarranno sulla sua chiesa in occidente”, e per contrastare la deriva culturale non è affatto detto che il modo più efficace sia la battaglia frontale. All’opposto di questa concezione sta, ad esempio, il cristianesimo di Shusaku Endo e di Martin Scorsese, che ha messo in scena il suo romanzo “Silence”, dove l’esperienza cristiana nell’incontro con la cultura asiatica abbandona la sua alleanza con il logos, superando perfino il principio di non contraddizione, per proclamare la necessità di de-occidentalizzare la fede.

 

Dreher non potrebbe essere più lontano da questa sensibilità, ma ha idee impopolari anche sui cristiani conservatori in battaglia permanente con cui lui pure s’identifica: “Anche se si pensava che i conservatori cristiani combattessero una guerra culturale, con l’eccezione dell’aborto e del matrimonio gay, era difficile vedere la mia gente combattere davvero. Sembrava piuttosto che fossimo contenti di essere i cappellani di una cultura che stava perdendo rapidamente il senso dell’essere cristiani”. E’ per recuperare quel senso che si apre lo scenario dell’Opzione Benedetto, che assume i tratti di padre Cassiano, ex abate di Norcia, che non si sogna nemmeno di descrivere l’esperienza monastica nei termini di una privazione, di una rinuncia: “Non è soltanto un no, è anche un sì”. L’esperienza benedettina in senso stretto è il paradigma di riferimento per Dreher, ma questo non significa che l’occidente dovrebbe tornare ai monasteri per recuperare l’idea di un ordine superiore che la modernità ha perduto. “I monaci benedettini di Norcia – scrive Dreher – sono un po’ come i Marine della vita religiosa, si addestrano costantemente per la guerra spirituale”, ma l’esercito non è fatto solo di corpi scelti, e l’autore racconta di esperienze, per lo più laiche, che danno forma contemporanea allo spirito benedettino in senso lato. L’autore parla a lungo di Marco Semerini e della comunità dei Tipi Loschi, che a San Benedetto del Tronto hanno aperto una scuola e diverse opere di carità per vivere ed educare in modo autenticamente cristiano.

 

Dreher arriva fino a indicare passi molto concreti, in molti casi rivoluzionari, per i cristiani che vogliono vivere come tali date alcune circostanze storiche inevitabili: “E’ ora che tutti i cristiani tolgano i loro figli dalla scuola pubblica”, suggerisce, constatando il profondo stato di crisi del sistema educativo americano. Queste manifestazioni concrete sono che conseguenze dell’esperienza cristiana vissuta, non sono il loro motore, così come la conservazione dei testi di Aristotele non poteva essere sufficiente per tramandare una mentalità aristotelica. E’ il cuore del paradosso cristiano e in particolare benedettino, lo stesso paradosso che ha portato autorevoli economisti a notare che il modello dell’economia monastica produce profitto proprio perché non è orientato al profitto. In questo senso, il valore del libro di Dreher sta innanzitutto nel ritrovare e condividere alcuni frutti della vita cristiana sullo sfondo della frammentazione contemporanea. Nel grande discorso al Collèges des Bernardin, Benedetto XVI – che è “l’altro Benedetto” cui Dreher fa appello – diceva che i monaci che hanno ricostruito l’Europa non volevano “creare una cultura e nemmeno conservare una cultura del passato” ma “il loro obiettivo era quaerere Deum”. Tutto il resto è conseguenza.