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uffa!

È con quel foglietto in Senato che tramonta l'epopea di Silvio Berlusconi

Giampiero Mughini

Stazione ultima del suo formidabile destino? Credo di sì, e lo dico non senza una qual certa commozione. Quel che alla sinistra non era riuscito in tanti anni, ossia il cassarlo via dalla prima linea della politica, è riuscito alla destra in tre minuti

Stavo a rimuginare di che diavolo scrivere questa settimana sul Foglio, quando un mirabile “Buongiorno” di Mattia Feltri sulla Stampa di pochi giorni fa mi ha persuaso che il personaggio del momento altri non era che Silvio Berlusconi. Ancora una volta lo era. Sì, l’uomo che così tanto è stato un protagonista della storia italiana degli ultimi quarant’anni – anni che lui ha letteralmente divorato prima da imprenditore e poi da leader politico –, l’uomo che adesso in Senato lo sorreggono mani amiche mentre si sposta da un seggio all’altro, l’alleato politico al quale Giorgia Meloni ha sbattuto in faccia un “no” inesorabile quanto al destinare a uno dei ministeri del nuovo governo la Licia Ronzulli prediletta dal Cavaliere. Ebbene scrivere su un foglietto che la Meloni è “arrogante” come ha fatto il Berlusca è un’impresa accessibile a tutti, fare a cazzotti con lei in questo momento è tutt’altra cosa. Un Berlusconi invecchiato e politicamente impotente è dunque giunto alla stazione ultima del suo formidabile destino? Credo di sì, e lo dico non senza una qual certa commozione. Quel che alla sinistra non era riuscito in tanti anni, ha scritto magnificamente Mattia, ossia il cassarlo via dalla prima linea della politica, è riuscito alla destra in tre minuti.

Sì, è ormai lontano il tempo in cui non c’era articolo sulla stampa italiana che non cominciasse da una dichiarazione d’odio o d’amore nei confronti di Berlusconi. L’antiberlusconismo più ancora che il filoberlusconismo erano un ingrediente fondamentale di quella stampa. Pro o contro il Cavaliere, ne dipendevano le carriere di ognuno e le identità di ognuno. Per essermi augurato che il Milan vincesse una certa partita di Champions, il mio amico Marco Travaglio mi ha incluso in un famigerato elenco di “leccatori” del Cavaliere. Un formidabile giornalista come Claudio Rinaldi, mio indimenticato direttore a Panorama, fece dell’antiberlusconismo il suo cavallo di battaglia e purtroppo per noi (i suoi giornalisti), se ne andò all’Espresso quando Berlusconi nel 1991 divenne il proprietario della Mondadori. Il nome di Berlusconi portava del bene a tutti, tanto agli italiani che lo elogiavano da mane a sera quanto a quelli che lo maledivano da mane a sera. Scrivevi un libro in cui l’odio verso di lui era annunciato fin dal titolo e già questo ti assicurava migliaia e migliaia di copie vendute. Sino all’assurdo di Indro Montanelli, il più grande giornalista italiano del secolo scorso e per me come un padre, il quale diede vita a un quotidiano nel quale nove volte su dieci la prima pagina era colma di sberleffi antiberlusconiani.

Una trentina d’anni fa, fu il Cavaliere a telefonarmi, ed era la prima volta che avevo a che fare con lui. C’era che a una puntata di una trasmissione Mediaset della sera prima, un giornalista fin troppo innamorato di Berlusconi aveva pronunziato con voce stentorea che lui aveva appena vinto l’Oscar per il miglior film straniero dell’anno. A voce bassa feci osservare che l’Oscar col suo “Mediterraneo” lo aveva vinto Gabriele Salvatores, e con quella vittoria Berlusconi c’entrava solo per essere il capintesta della società che aveva prodotto il film. Al telefono Berlusconi mi ringraziò di aver fatto quella precisazione. Ammetterete che non è cosa da tutti. Dopo un paio di volte che c’eravamo incontrati, nell’estate del 1993 mi telefonò di nuovo ad annunciarmi il suo ingresso in politica. Quando mi chiese se volevo essere della partita, feci finta di non aver sentito. E pur tuttavia alle elezioni politiche del marzo 1994 votai per lui, e perché mi piaceva l’idea di una forza politica liberale e perché quel voto ai miei occhi riscattava l’assassinio del Partito socialista craxiano al quale a suo tempo era andata tutta la mia simpatia. Mai più ho votato per lui dopo.

Un altro che ho incontrato poche volte, ma per il quale provo una sorta di simpatia istintiva, è Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Berlusconi ai tempi più eroici di Mediaset. Mi ricordo di lui al funerale di Maurizio Ferrara, il padre di Giuliano, e l’essere stato fra quanti hanno accompagnato Maurizio nell’ultimo suo viaggio io lo giudico un titolo di merito. Vedo che adesso sta per scattare il processo palermitano teso a stabilire se sì o no lui è un pericolo per la Repubblica, da quanto è ammanigliato con i mafiosi del capoluogo siciliano. Che lui li conoscesse e talvolta frequentasse, ad esempio in un noto ristorante milanese, non v’ha dubbio. Che lui in quelle occasioni stesse agendo a proteggere gli interessi e i beni e le persone della famiglia Berlusconi, anche lì a mio parere non v’ha dubbio. Lo intervistai una volta sull’argomento.

A questo punto mi  chiamarono dalla procura di Palermo perché andassi in tribunale a testimoniare su quello che ci eravamo detti. Dopo avere giurato, spiegai che tutto quello che ci eravamo detti con Dell’Utri era contenuto nero su bianco nell’intervista pubblicata su Panorama. Altro non c’era, né io ero un giornalista talmente addentro a quelle faccende piuttosto torve: ammetto di essere uno che preferisce leggere un romanzo di Fëdor Dostoevskij o Louis-Ferdinand Céline che non gli stabocchevoli atti di accusa nei tantissimi processi alla mafia siciliana e ai suoi presunti complici. E’ un mio limite, lo so, lo so. Nello scendere dal podio riservato ai testimoni passai innanzi a Dell’Utri e al suo avvocato difensore, uno che a Catania era stato mio compagno d’università. Ovviamente strinsi la mano a entrambi. Poco più in là era seduto il pubblico ministero, il quale aveva l’aria di essersi accovacciato in disparte in modo da neppure sfiorarmi mentre gli passavo accanto. Naturalmente anche a lui tesi la mano nel gesto del saluto. Al che, evidentemente sorpreso, scattò in piedi nel porgermi a sua volta la mano.