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Il Foglio weekend

Segreti d’autore. Parla il creatore di “Homeland”

Daniele Ranieri

Chiacchiere romane con Ran Tellem per capire come si scrive una serie tv e fino a dove ti deve portare una storia

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Ran Tellem è il creatore israeliano di “Homeland”, la serie molto seguita che è durata per otto stagioni, ed è in Italia per tenere un seminario chiuso di due giorni con otto autori televisivi italiani che hanno esperienza di scrittura e hanno già fatto cose in televisione ma sono ancora all’inizio della loro carriera. “Tra i 25 e i 35 anni, stanno facendo un po’ di esperienza extra ed è una cosa bella perché il mercato in Italia sta esplodendo e c’è gran bisogno di autori che sappiano scrivere show e serie tv”. Davvero? È una notizia per le orecchie dei profani. Siamo un paese vecchio, l’età media degli spettatori è alta e sono sempre soddisfatti con lo stesso tipo di televisione. Gli italiani meno vecchi avvertono la situazione di stallo e finiscono per rivolgersi al mercato internazionale, le serie su Netflix e su Amazon – che di solito non sono scritte e prodotte da italiani. Sono loro che guardavano “Homeland”, non i loro genitori. “Lavoro in giro per il mondo, questa cosa sta succedendo in molti paesi. Hai una televisione di tipo tradizionale e poi di colpo c’è uno show o due show, magari fatti da Netflix o da Amazon, che rompono lo stallo. Devi anche considerare i tempi di gestazione di una nuova serie, che sono tempi da elefante. Ci vogliono tre, quattro anni dal momento in cui cominci per avere una nuova serie. Quando dico che il mercato italiano bolle intendo che ci sono lavori in corso adesso che saranno visti fra un anno o due. Il tipo di show nuovo, ma con autori e produttori italiani. Lo vedo accadere in Brasile, in Spagna, in Argentina e in Israele. I giovani autori scrivono in modo diverso, fanno cose che non c’erano in passato. Se prima c’era – parlo con un’immagine per semplificare – l’autore in una mansarda che scriveva da solo davanti a un caffè freddo e non aveva soldi per pagare il riscaldamento, adesso c’è una stanza piena di gente che lavora assieme, all’interno di un processo con tempi ben definiti, e fa un lavoro molto complesso e con molti strati per creare una storia che sia interessante e profonda come le serie prodotte adesso”.

 

Ci sono serie che ti fanno dire: “Ah, l’avessi fatta io!”? “Molte. Dai facciamo un po’ di complimenti ad altre persone. Sono invidioso di ‘Fleabag’. Sono invidioso di ‘Scene da un matrimonio’. Stupefacente. Mi è piaciuto ‘Bodyguard’. Mi è piaciuto ‘Billions’. C’è un episodio in ‘Billions’ che mi ha fatto alzare in piedi e mi ha fatto applaudire davanti allo schermo per tre minuti. È quando nella seconda stagione il procuratore, Paul Giamatti, per fregare Axe rovina l’investimento del suo migliore amico e brucia anche i risparmi di suo padre e si siede sul letto e piange e invece di colpo scopriamo che sta ghignando. Quello è stato un momento nel quale ho invidiato l’autore che ha scritto quella scena e tutte le scene precedenti per arrivare a quella. Ci sono molte grandi serie. Anche il secondo episodio di ‘Squid Game’ mi ha colpito. Avevo visto il primo, avevo detto ok, è una serie dove sparano alle gente. Ma poi c’è questo secondo episodio con loro che prima votano per andare a casa e poi tornano lo stesso a giocare. Tutto quello che avevo pensato è stato ribaltato: qualcuno mi ha ingannato, mi ha fatto uno scherzo. E ho davvero apprezzato questa cosa da spettatore. Ho detto agli autori ieri che tutte le volte che guardo una serie o leggo una sceneggiatura la prima volta è da spettatore, fino in fondo, senza fermarmi. Non prendo appunti, non faccio pause. La seconda passata è già professionale, ma la prima è da spettatore”.

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E invece c’è qualcosa che ti fa dire “che errore” o “che cosa terribile” quando vedi una serie o quando leggi una sceneggiatura? “No, non uso nemmeno parole come ‘errore’ o ‘terribile’. Questo lavoro è un processo, devi rendere la storia affidabile e autentica, devi convincere gli spettatori che è una storia che potrebbe davvero accadere, anche se parla di alieni. Se costruisci il personaggio dell’alieno bene, puoi dire ok, so come si comporterà questo alieno. Quando scrivi devi essere in grado di chiudere gli occhi e pensare: che tipo di caffè ordinerebbe il mio personaggio? Prenderebbe un macchiato o un cappuccino? Lo berrebbe subito quando è caldo o aspetterebbe? Ho bisogno di sapere tutte queste cose a proposito del mio personaggio. E se seguo queste regole sempre, allora sento che è autentico. Se beve un cappuccino con molta lentezza e lo beve in un bicchiere di carta – una cosa per la quale voi qui a Roma gli sparate, no? – e all’episodio cinque della serie beve un espresso in piedi al bar, quello è un errore. E allora mi chiedo: è davvero un errore? Oppure il personaggio sta facendo così per qualche ragione che capirò e sta cambiando? Questa è la domanda che faccio all’autore. Mi siedo con l’autore e domando: perché beve un espresso così? E tutto quello che mi serve è che l’autore abbia una risposta”.

 

C’è una scena di un vecchio poliziesco con Clint Eastwood. Lui entra nel diner dove tutte le mattine compra il caffè da asporto senza zucchero e la cameriera versa apposta molto zucchero nella tazza. Così capisce che c’è una rapina in corso e che ci sono dei rapinatori nascosti. “Esattamente questo. Perché c’è una ragione. È così che crei i momenti belli. Se costruisci la sceneggiatura con intelligenza, funzionerà”. Quando guardi le serie americane si avverte questo lavoro enorme di squadra. Una serie come “Billions”, tanto per fare un esempio pratico. “Sempre di più la creazione di uno show è come la costruzione di un edificio. Prima fai il progetto, poi cominci a fare il primo piano, poi gli altri piani, poi gli interni. Una volta succedeva che qualcuno faceva l’intero primo piano, l’intero secondo piano e così via. Oggi hai bisogno di specialisti. Secondo me, anche perché sono cresciuto con questa cultura dello scrivere, le storie vengono molto meglio. Perché quando pensi, per esempio, come cambierà un personaggio nel corso di una serie, e prima lo pianifichi e poi lo scrivi, lavorare in squadra rende il processo molto più interessante”.

 

Perdi la sensibilità dopo una cinquantina di passate della stessa sceneggiatura, per capire se sta venendo bene o pure no? “Mi piace pensare di no. Anche dopo cinquanta volte, se una parola non è nella tonalità che penso dovrebbe essere quella giusta mi ronza nelle orecchie. E quando c’è una bella scena, mi piace come la prima volta che l’ho vista”. Pensi che in Italia siamo allo stesso livello delle altre squadre di autori in giro per il mondo oppure abbiamo ancora della strada da fare? “Mi ha fatto la stessa domanda una signora ieri, alla fine dei due giorni di seminario, ha alzato la mano e ha detto: pensi che gli italiani possano scrivere per gli show internazionali?, e le ho risposto: perché no? Non sono un esperto di Italia ma la domanda di autori sta per crescere così rapidamente che non ci sarà tempo di stare in coda. Di solito in una squadra c’è un autore esperto aiutato da altri senior e poi ci sono autori junior, che sono all’inizio della carriera e una volta che hanno finito la loro prima serie non sono più autori junior. Questo processo è molto veloce, è più veloce di quel che pensi. E quando sento parlare del volume di produzioni che sono in cantiere in Italia: è una quantità enorme e cambierà questa industria – me lo sento e lo spero anche. Tutti gli autori italiani che ho incontrato sono bravi sul serio. Non ho avuto per un secondo l’impressione di lavorare con qualcuno bollito – forse è il pezzo d’Italia che ho incontrato io”.

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Si dice che in Italia ci sia mancanza di ambizione nelle sceneggiature. È ovvio che è più conveniente girare un film dentro un tinello che fare le cose in grande, così si preferisce parlare di crisi di coppia mentre negli altri paesi si fanno i film con gli alieni o i western come una volta facevamo pure noi. “Penso che la situazione stia cambiando proprio adesso. Una volta quando qualcuno voleva fare uno show italiano che fosse buono per il mercato internazionale faceva tre cose: mafia, arte o storia italiana e corruzione. Ok? Una di queste tre cose. Questo perché quando i giganti internazionali si interessano a produzioni locali di solito toccano soltanto la superficie. In Israele fanno serie sul Mossad e sugli ebrei ortodossi perché questo è quello che ti aspetti in Israele. Non ti aspetti una serie su una coppia o su un bambino autistico in Israele, ma è la seconda fase, quella a cui stiamo arrivando. Invece adesso le cose stanno cambiando. La prima fase era: ‘ok, facciamo degli show sulla mafia, ‘Gomorra’ e ‘Suburra’’. Poi c’è la seconda fase e arrivano altre storie”. Hai visto “Gomorra” e “Suburra”? “Certo. Ottima televisione. Barbara Petronio, un’autrice di ‘Suburra’, è mia amica. Quando guardi ‘Suburra’ vedi cosa succede quando un’altra generazione comincia a scrivere di mafia. Ci sono temi come i gay, i giovani, gli zingari, è un altro modo di guardare le cose. E questo è il primo passo come dicevo. Il secondo passo è entrare nella stanza con altri autori e dire: voglio fare qualcosa che non sia mafia, che non sia Michelangelo o Leonardo Da Vinci o i Medici” (c’è da chiedersi a questo punto se abbia visto anche “Boris”, perché siamo finiti dalle parti di “thank you for being so not Italian”).

 

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La serie “Homeland”. La gente non è molto interessata alle notizie dall’estero, ma “Homeland” si basa su quei temi ed è stato un successo enorme. Come siete riusciti a farla funzionare? “Il segreto di ‘Homeland’, che amo perché gli devo la mia carriera ma ormai risale a dieci anni fa, è che si tratta di uno dei migliori adattamenti della storia della televisione. Di solito è difficile prendere un’idea da un altro paese e trasferirla nel tuo paese. ‘Homeland’ è basato su ‘Prisoners of War’, una serie israeliana (sempre prodotta da Ran Tellem). Se vedi gli episodi numero uno di entrambe le serie ti sembrano identici, ma il meccanismo, l’argomento della serie, sono molto diversi. ‘Prisoners’ tratta del fatto che non puoi tornare da un periodo di prigionia uguale a quando ti hanno catturato. La domanda è: adesso sono le stesse persone? Possono essere le stesse persone? Qualcuno può essere catturato, torturato per anni e poi tornare alla vita? È una cosa possibile? La risposta è no. In ‘Homeland’ la domanda riguarda la fiducia: posso fidarmi? È la storia di un cavallo di Troia. La risposta è che no, non puoi fidarti di nessuno. Quello che hanno fatto è prendere ‘Prisoners of war’, l’hanno messo su un tavolo come una macchina, l’hanno disassemblato, hanno visto cosa potevano tenere oppure no e da lì l’hanno assemblato di nuovo. In Israele sarebbe impossibile immaginare la storia di un soldato che torna e sta con il nemico. Non riusciamo a pensarlo. Negli Stati Uniti è possibile. L’eccellenza di ‘Homeland’ è stata anche che quella squadra di autori intelligenti riusciva a capire quale sarebbe lo spirito del tempo, lo zeitgeist, l’anno successivo e fare lo show su quello. Hanno anticipato molti temi, le fake news, l’Afghanistan, la Russia. È incredibile”.

 

Segui molto da vicino il lavoro degli autori? “Il metodo che uso e non cambia anche se seguo lavori sparsi per il mondo – prima o poi anche a Roma, spero – è che all’inizio io e gli autori ci incontriamo per tre giorni. E prima, ed è una cosa che faccio sempre, c’è una cena assieme e non si parla di lavoro. Si parla di vita, della famiglia, dei figli, delle aspirazioni, dei sogni, delle passioni, in un contesto informale che permette di raccontare in libertà. Scrivere è una cosa molto personale, finisci per metterci dentro quello che sei. Tiri fuori dei pezzi di te. Ho fatto una storia in Finlandia, ora alla seconda stagione, e il personaggio principale è una poliziotta e ha un marito che soffre di Alzheimer e sta peggiorando. E uno degli autori ci ha raccontato di suo padre, che soffriva della stessa malattia, guardava le foto di famiglia e non riconosceva più i volti. E abbiamo usato l’esperienza di quell’autore per creare la scena più potente di quella stagione. Quella scena è venuta fuori al tavolo degli autori perché alla cena lui aveva parlato di suo padre e si era sentito abbastanza sicuro da condividere la storia. Una delle autrici che ho incontrato qui a Roma mi ha detto che quando per strada vede una coppia che litiga comincia a camminare piano, per sentire cosa dicono. Non c’è niente di più interessante, dice, di una coppia che litiga. Il processo è sempre questo. Cominciamo assieme e facciamo tre giorni di lavoro. Tentiamo di capire che razza di edificio vogliamo costruire. È un grattacielo o una casa? Di che cosa tratta davvero la serie? Non intendo la storia, intendo il tema sotto la storia: la storia di ‘Homeland’ è un soldato che cerca di uccidere il presidente, ma il tema è il fidarsi, per otto stagioni è il fidarsi. Decidiamo di disegnare i personaggi. E a quel punto gli autori vanno a lavorare e poi ci incontriamo agli incroci successivi. Gli incroci sono quei punti dove pensi di avere abbastanza materiale da discutere, lo si discute e poi arrivederci al prossimo incrocio. E così via per tre anni fatti di molti incroci. E quando la sceneggiatura è chiusa, allora arriva il regista, che la legge per la prima volta e ci saranno dei cambiamenti. Per lui è l’inizio del processo. E poi arrivano gli attori e anche loro fanno cambiamenti”. Ed è una cosa buona? “È una cosa fantastica. Se lavori nella televisione, devi sapere che quello che fai, le tue idee, le cose alle quali hai lavorato molto passeranno per molte altre mani. È il processo. Vuol dire che lo show è un bambino e sta crescendo”.

 

Mi dispiace per voi autori e produttori perché cercate di inventare storie realistiche e interessanti, ma la verità è che l’anno scorso dove siamo seduti ora in questa strada trafficata non c’era un’anima viva per colpa della pandemia. E a gennaio una torma di americani ha assaltato il Congresso con l’intento di impiccare il vicepresidente. Se è vero che ci vogliono tre anni per fare una serie, non so come facciate a stare dietro a un mondo che sta girando molto più veloce. “Se io proponessi la storia di due miliardari che fanno a gara a chi ha il razzo più grande per andare per primo sulla Luna, mi direbbero che è una storia stupida, invece è la realtà. Alla fine si tratta di fare storie e le storie non sono interessanti perché sono grandi, sono interessanti perché vanno in profondità. Il Covid è la storia più grande di tutti, il mondo che si ferma, ma io penso che la competizione non sia nelle dimensioni e sia invece nell’interesse che riesci a creare. Vediamo adesso serie che sono state create prima del Covid. Quando ho lasciato il mio lavoro in Israele mia moglie mi ha chiesto: che cosa cerchi? Cerco il mondo nuovo, le ho detto. Geograficamente e tematicamente. Quando mi offrono un lavoro mi chiedo: è questo il mondo nuovo? Se la risposta è no, rifiuto. E così oggi seguo serie in Brasile, in Spagna, in Messico, in Finlandia: il mondo è a mia disposizione. Nuove storie e nuove idee ti arrivano addosso di continuo. In questo modo non ho paura, anzi è il contrario. Ogni mattina apro Twitter e mi dico: vediamo che storie ci sono oggi. Che storia mi ecciterà oggi”.

 

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