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L’horror vacui della domenica

Andrea Minuz

Se avete visto l’intervista di Cotticelli in tv, sapete già tutto sullo scollamento tra stato, regioni e sanità

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La domenica è il giorno preferito delle dirette Conte (sei Dpcm su diciannove), il giorno delle insurrezioni popolari sul lungomare assolato, il giorno in cui la televisione sa ancora regalarci grandi emozioni, farsi specchio implacabile e rovinoso del paese, gigantografia nazional-popolare delle sue follia. Per esempio, l’intervista di Giletti a Saverio Cotticelli andrà conservata, mandata a memoria, analizzata e studiata nei corsi di sceneggiatura: al posto del celebre manuale di scrittura, “Il viaggio dell’eroe”, ci sarà “Il viaggio di Cotticelli”, ai provini di recitazione si porterà a scelta il monologo dell’“Enrico IV” o il monologo di Cotticelli e ogni discorso sulla rinascita della commedia all’italiana dovrà partire da qui.

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La domenica è il giorno preferito delle dirette Conte (sei Dpcm su diciannove), il giorno delle insurrezioni popolari sul lungomare assolato, il giorno in cui la televisione sa ancora regalarci grandi emozioni, farsi specchio implacabile e rovinoso del paese, gigantografia nazional-popolare delle sue follia. Per esempio, l’intervista di Giletti a Saverio Cotticelli andrà conservata, mandata a memoria, analizzata e studiata nei corsi di sceneggiatura: al posto del celebre manuale di scrittura, “Il viaggio dell’eroe”, ci sarà “Il viaggio di Cotticelli”, ai provini di recitazione si porterà a scelta il monologo dell’“Enrico IV” o il monologo di Cotticelli e ogni discorso sulla rinascita della commedia all’italiana dovrà partire da qui.

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Vale quindi la pena ripercorrere questo incredibile momento di televisione, almeno nei suoi formidabili highlights, anche se la cronaca di una pazzia fatta ormai sistema scorre a una velocità forsennata e imprendibile, anche se è impossibile star dietro a tutto, Trump che ha vinto su Twitter, la Campania multicolore, il cimitero dei banchi a rotelle o i ciondoli anti-Covid, Cotticelli è un caso che fa scuola, li riassume un po’ tutti e annulla i confini tra reality, talk-show, fantasy, spy-story. Che fosse una puntata di taglio letterario e che saremmo volati altissimi l’avevamo capito subito, già in apertura di trasmissione. “In questi giorni ho riletto alcuni passi di Manzoni”, diceva Giletti entrando in studio, sempre ripreso di spalle, come i calciatori che escono dagli spogliatoi per entrare in campo. “Ho ritrovato molte analogie con la situazione che stiamo vivendo ora, vedo tornare fortissime contrapposizioni all’interno del nostro paese, ci sono molti paradossi”. Campeggia gigante nello studio la cartina colorata dell’Italia, gialla, arancione, rossa, “il tricolore delle polemiche”.

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Dopo un rapido giro di indignazione per l’irresponsabilità degli italiani e una panoramica su parchi, spiagge, centri storici e golfo di Napoli, ecco finalmente, “Saverio Cotticelli, l’uomo che è al centro del ciclone calabrese” e che “ha deciso di venire qui”. “Voglio ascoltare quest’uomo, un uomo che ha una storia”, dice Giletti. E che storia! La nuova geografica cromatica dell’Italia lascia il posto a una Calabria desolata, tutta rossa, piazzata lì come un separé tra Giletti e Cotticelli, generale dei Carabinieri in pensione da Castellammare di Stabia, ex commissario della Sanità calabrese, entrato nella cronaca con un formidabile coup de théâtre in cui smascherava sé stesso, affermando di non sapere nulla del piano Covid della sua regione. Un’intervista surreale andata in onda su RaiTre pochi giorni prima, ma che ora sta per essere annichilita da quella di Giletti. Seduto su uno sgabello, Cotticelli tiene stretto tra le mani il suo piano Covid-19. Inizia con “la sua storia”, parla e “non teme di raccontare la verità”, come dice Giletti. E parlando, Cotticelli ridimensiona ogni discorso e ogni tweet di Trump sui brogli che a confronto diventano una lucida, pacata analisi del voto americano. La sua è una verità che è servita subito, in modo duro, netto, diretto, senza girarci attorno: “Sembrava la mia controfigura, dottore, la mia famiglia non mi ha riconosciuto, io stesso non connettevo”. Quanti romanzi italiani possono vantare oggi un incipit così perfetto, incredibile, pirandelliano? Con quel “dottore” rivolto a Giletti che smette d’incanto di essere il conduttore di “Non è l’Arena” e si trasforma nello psichiatra perplesso di un puzzle-film tutto ambientato nella mente di Cotticelli. Uno di quegli “attacchi” che ci catapulta subito in un altro mondo, “Chiamatemi Cotticelli”, o “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Saverio Cotticelli si trovò trasformato in un enorme insetto”. “Io non so che cosa sia successo, sto cercando di capire con un medico se ho avuto un malore o se ho avuto un’altra cosa”, con sapiente pausa a forma di oscuro complotto su quel “un’altra cosa”.

 

Cotticelli parla di “attacchi per via mediatica e per via istituzionale”, definisce quell’intervista la “conclusione logica di un attacco di delegittimazione”. Mentre su RaiTre si limitava ad ammettere di aver ignorato il “suo” piano Covid, adesso la posta in gioco si alza: Cotticelli non sa più chi è. Cotticelli “est un autre”. Lo ripete in effetti spesso a un Massimo Giletti sempre più sbigottito: “Quello non ero io, era la mia controfigura”. Sgomento in studio, interlocutori increduli, tutti spiazzati di fronte alle parole e ai primi piani impietosi di Cotticelli che ricorda un po’ Chazz Palminteri nei “Soliti sospetti” e sembra sempre sul punto di mettersi a piangere o cantare. Cotticelli chiama in causa anche De Magistris e a differenza di noi De Magistris capisce, dice che “è difficile mantenere la tenuta psicofisica in Calabria”. Cotticelli come Jack Nicholson isolato nell’Overlook Hotel sulla Sila. Cotticelli incarnazione del tracollo psichico della nazione nell’ora più buia, simbolo della sua eterna, insuperabile, impareggiabile commedia tragica. Si entra nei dettagli, si cercano le prove e le cause di questa deriva dell’identità perché, dice Cotticelli, “io sono stato vittima di un piano di menti raffinatissime”. Allora spiega che gli hanno tolto i dattilografi, che non ha più la segreteria, niente. Ospite in studio, Myrta Merlino abbozza l’ipotesi che sia stato drogato, oppure che sia solo “vittima di sé stesso”, qualsiasi cosa possa voler dire in quel frangente. Cotticelli replica che ha sempre lavorato, che non vedeva nessuno, che si portava la cena in ufficio. Ma il piano anti-Covid l’ha fatto lui. Questo ora lo sa. Si era solo dimenticato di dirlo durante l’intervista. Quindi l’affondo, l’apoteosi, la frase che immortala tutto il caos istituzionale di questa fase e lo scollamento tra Stato, regioni, comuni, meglio di qualsiasi editoriale: “Ero in uno stato confusionale su cui sto indagando” (“Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi” – “Enrico IV”, Atto secondo). Dissolvenza. Nero. Sipario.

 

Come ha scritto Luciano Capone sulle pagine di questo giornale, “il meccanismo che porta a scegliere personaggi del genere in ruoli di responsabilità è sempre lo stesso. Quando c’è casino e un po’ di indagini, come nella Sanità calabrese o in InnovaPuglia dove mezzo cda è finito sotto inchiesta, la politica pensa di risolvere tutto mettendo un magistrato, un carabiniere o uno sbirro in nome della legalità”. Oppure, Gino Strada. Più che il piano anti Covid però, sgomenta casomai la carriera approdata fino agli altissimi vertici dell’Arma di uno che pubblicamente sceglie di difendersi così. Ma è anche infondo un po’ rassicurante: è chiaro che in Italia un golpe delle forze armate non lo avremo mai. La televisione non è più responsabile dell’abbassamento del livello culturale del paese o del suo “degrado morale”, ma il termometro della sua follia. E in effetti la domenica tutto questo si vede meglio. “Il Covid ha cambiato le nostre abitudini e la domenica non è più il giorno dei grandi pranzi in famiglia”, diceva sempre da Giletti Myrta Merlino per lanciare il suo nuovo programma, “L’aria di domenica”. “Abbiamo bisogno di capire tante cose, non possiamo più vedere gli amici, così La7 ha deciso che possiamo stare insieme, capire, ragionare anche la domenica dalle due alle quattro”. Opinionisti politici del programma: Claudio Amendola e Mario Monti. Eccoci quindi soli in casa, col vassoio di pastarelle, nell’inverno del nostro lockdown, pronti alla lunga staffetta della domenica, Mara Venier-Myrta Merlino-Barbara D’Urso-Massimo Giletti, nell’attesa di un Natale “solo con parenti stretti”, di un Capodanno senza trenini e un Sanremo con Al Bano su Zoom. Sempre di domenica, stavolta da Fazio, si è celebrato il ritorno di Berlusconi nei talk-show.

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Nell’epoca delle dirette streaming, il Cav sfodera il mezzo più antico e a lui assai congeniale e ci regala una “telefonata in studio” già cult (replicata due giorni dopo da Floris, in una puntata dov’era ospite anche Romano Prodi, ed era tutto così pacato e nostalgico, mancava solo la scritta, “programma registrato prima del Dpcm del 4 marzo 2020). Nell’ultimo numero, appena uscito, della rivista “Link”, dedicato al destino dei media dopo la pandemia, Carlo Freccero scrive che “il coronavirus è un grande evento ininterrotto, in scena da mesi, al cui interno trova spazio una comunicazione istituzionale che rappresenta una forma di grande cerimonia condivisa”. La televisione generalista resiste e rinasce in una nuova rete di connessioni e assetti. “La tv sembra aver ritrovato la centralità che rendeva possibile la somministrazione al pubblico di messaggi pedagogici”, scrive sempre Freccero, “il lockdown è stata una forma ancora più forte di costruzione all’ascolto perché, grazie anche al digital divide, la tv era l’unico legame con il ‘fuori’, almeno per le fasce più adulte della popolazione. 

 

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L’istituzionalità dei messaggi ha fatto il resto, avallando uno scenario di guerra in cui il fronte era costituito dal go - verno e dai medici, e le retrovie da un popolo che cantava sui balconi”. Forse questo poteva essere vero per la fatidica “Fase 1”, ma si è ben presto tornati all’antica. Dentro la galassia digitale di questa “grande cerimonia condivisa” tutto si mescola allo stesso livello, dalle dirette Conte alla rivolta delle estetiste di Reggio Calabria in collegamento a “Non è la D’Urso” o ai baristi incatenati a “Fuori dal coro”. Un mescolamento che proprio nel palinsesto domenicale raggiunge le sue vette più surreali. Nella tv senza pubblico, senza ospiti, fatta di collegamenti da casa, si vede meglio l’assenza di idee, il vuoto, la ripetizione infinita dell’identico. La tv nuda e senza trucco si gioca il fascino intramontabile del pianto a singhiozzo in diretta. Domenica scorsa, Mara Venier e Barbara D’Urso si sono date battaglia a botte di lacrime per la scomparsa di Stefano D’Orazio (con una netta vittoria della D’Urso). Com’è ovvio, la pandemia ha soltanto accelerato fenomeni già ampiamente radicati nel sistema dell’informazione televisiva. Ormai l’intervista politica o la rissa virologica sono uno spazio fisso di Barbara D’Urso, che si toglie anche la soddisfazione di implorare Giorgia Meloni di “non ostacolare l’iter legislativo della legge sulla transomofobia”. Mentre parla Meloni, scorre il cartello in loop, “tra poco in studio la ministra dell’Istruzione”, con la stessa enfasi con cui si annunciava, “tra poco Morgan si sottoporrà alla macchina delle verità” o “ecco la Barbie umana che si è tolta le costole”.

 

La tv della seconda ondata cerca di tornare velocemente e con gran fatica a prima del lockdown, anche se un altro lockdown è possibile, anche se è chiaro che qualcosa si è rotto per sempre. Nella prima fase ci si è giocati in gran parte l’archivio e il repertorio delle repliche, un’infornata di Mina e Lucio Battisti a “Canzonissima” e vecchi telefilm e sceneggiati brechtiani della Rai pedagogica. D’altro canto, come ricorda nel suo contributo per “Link” Francesco Caldarola, autore tv, “non serve essere laureati per capire che se nei programmi dove praticamente si parla e basta (anzi, dove di questa parola si vorrebbe fare spettacolo: talk show) si tolgono le persone che parlano, è finita”. Romina Power, ad esempio, si è fatta tutto il lockdown come ospite-ostaggio a “Domenica In”. Gli ospiti ora sono tornati, ma diminuiscono gli investitori, molti canali hanno tagliato i budget e anche il canone non basta, programmi e fiction sono a rischio. Una delle immagini più incredibili della ostinata resistenza della televisione generalista è forse quella di Carlo Conti piazzato dentro un televisore sul palco di “Tale e Quale Show”, un po’ come le foto di Mattarella in questura, mentre Loretta Goggi, Panariello e Vincenzo Salemme conducono la trasmissione. Un’immagine straniante, un cortocircuito, l’icona della ostinata resistenza televisiva che celebra se stessa e il proprio horror vacui.

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