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La Yalta digitale

Eugenio Cau

È caduta l’idea che la libertà si sarebbe diffusa nel mondo tramite modem e cellulari. Non c’è più solo un internet e non è più un sistema aperto. Così le grandi potenze tentano di spartirsi il suo potere

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Nel marzo del 2000, venti anni fa, l’allora presidente americano Bill Clinton tenne un discorso importante alla Johns Hopkins University per spiegare perché gli Stati Uniti, dopo anni di negoziati, avevano acconsentito a far entrare la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto nella sigla inglese. Oggi quella decisione è considerata dai trumpiani e dai falchi anticinesi come l’inizio dei problemi per gli Stati Uniti: la libertà di scambi resa possibile dall’ingresso nel Wto ha consentito alla Cina di diventare la fabbrica del mondo, ha rubato il posto di lavoro a milioni di operai americani e, dicono i trumpiani, se oggi ci troviamo a fare la guerra commerciale è anche a causa di quella decisione di Bill Clinton.

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Nel marzo del 2000, venti anni fa, l’allora presidente americano Bill Clinton tenne un discorso importante alla Johns Hopkins University per spiegare perché gli Stati Uniti, dopo anni di negoziati, avevano acconsentito a far entrare la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, Wto nella sigla inglese. Oggi quella decisione è considerata dai trumpiani e dai falchi anticinesi come l’inizio dei problemi per gli Stati Uniti: la libertà di scambi resa possibile dall’ingresso nel Wto ha consentito alla Cina di diventare la fabbrica del mondo, ha rubato il posto di lavoro a milioni di operai americani e, dicono i trumpiani, se oggi ci troviamo a fare la guerra commerciale è anche a causa di quella decisione di Bill Clinton.

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In realtà le cose non stanno proprio così, la maggioranza degli economisti sostiene che consentire alla Cina di entrare nel Wto abbia avuto più effetti positivi che negativi, ma insomma: c’è dibattito. Al tempo di Clinton, tuttavia, la questione nemmeno si poneva. Per il presidente americano, l’arco della storia pendeva verso una democratizzazione della Cina, e pure in poco tempo. Magari, immaginava Clinton, nel 2020 la Cina sarebbe già stata democratica e liberale. E gli artefici della grande democratizzazione sarebbero stati l’apertura ai commerci, ovviamente, come vuole l’ortodossia liberale, ma soprattuto internet. “Nel nuovo secolo”, disse Clinton alla Johns Hopkins, trionfante, “la libertà si diffonderà tramite i telefoni cellulari e i cavi dei modem”.


“La Cina cercherà di censurare internet. Buona fortuna! Sarebbe come cercare di inchiodare al muro una gelatina” (Clinton nel 2000)


 

A quel tempo internet era sinonimo di rivoluzione. Era lo strumento della democratizzazione della conoscenza, della diffusione senza limiti di nuove idee, la sintesi di tutti i valori di una società aperta. “Sappiamo quanto internet ha già cambiato l’America, e noi siamo già una società aperta”, disse Clinton. “Immaginate quanto potrebbe cambiare la Cina”. Soprattutto, internet era inarrestabile. Una volta che entra nelle case delle persone, negli uffici, nelle università, è come una finestra sempre aperta che non si può chiudere. Si possono bruciare i libri, censurare i giornali, intimidire gli attivisti, ma chiudere internet? Impossibile! La sola idea faceva ridere Clinton, e con lui tutto l’occidente. La trascrizione del discorso alla Johns Hopkins continua: “Ora, non c’è dubbio che la Cina cercherà di censurare internet. (Ridacchia). Buona fortuna! (Risate del pubblico). Sarebbe come cercare di inchiodare al muro una gelatina. (Risate del pubblico)”.

 

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La frase della gelatina è piuttosto famosa, e viene ricordata tutte le volte che si parla della più grande innovazione tecnologica della Cina nell’ambito del digitale – che non è un settore dell’intelligenza artificiale molto avanzato, ma comunque secondo a quello americano, non è il 5G e non è la robotica, ma è il Grande Firewall, cioè il sistema con cui Pechino ha inchiodato la gelatina. Senza dilungarci troppo: il Grande Firewall è un sistema che coniuga tecnologia avanzata e il lavoro di milioni di persone (sì, milioni) per raggiungere due obiettivi: il primo è bloccare le pagine internet e le informazioni sgradite al regime; il secondo è censurare i contenuti indesiderati prodotti internamente. Ci sono ovviamente modi per aggirare il Grande Firewall e per ingannare la censura, ma negli ultimi dieci anni il sistema ha avuto un successo eccezionale. Al contrario di quello che pensava Bill Clinton, e con lui tutti gli esperti del suo tempo, la Cina è riuscita a ottenere i benefici economici di internet senza doversi aprire a idee pericolose di riforma politica.

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Come nei racconti di fantascienza, la creazione del Grande Firewall cinese ha generato una realtà parallela. E’ avvenuta una biforcazione, oggi nel mondo ci sono due internet diversi. Esiste internet nel mondo, con le sue regole, e internet in Cina, con altre regole. Internet nel mondo è aperto, consente la diffusione di qualsiasi informazione, ed è dominato da compagnie americane come Amazon, Facebook e Google. Internet in Cina è chiuso, consente soltanto la diffusione delle informazioni gradite al Partito comunista cinese, ed è dominato da compagnie cinesi come Alibaba, Bytedance e Tencent, perché senza la concorrenza della Silicon Valley, tagliata fuori dal Grande Firewall, la Cina è l’unico paese al mondo che è riuscito a far crescere dei campioni digitali autoctoni. Questa, più o meno, è stata la situazione negli ultimi dieci anni: un internet per la Cina e uno per il resto del mondo.

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Quattro internet diversi, in prospettiva (Stati Uniti, Cina, Europa, India), e quattro modelli di gestione delle cose digitali


 

Negli ultimi tempi, tuttavia, l’internet del resto del mondo, quello a guida americana, ha cominciato sempre più ad assomigliare all’altro, quello cinese, soprattutto a causa del protezionismo economico e della chiusura ideologica dell’Amministrazione di Donald Trump. Se prima era soltanto la Cina a vietare le app dal suo internet, da poco hanno cominciato anche gli Stati Uniti. Se prima era solo la Cina ad applicare un protezionismo rigido alle sue aziende digitali, mentre gli Stati Uniti predicavano che l’apertura e la concorrenza fossero favorevoli allo sviluppo, adesso anche questi ultimi hanno cominciato a chiudersi.

 

L’esempio più palese è TikTok. L’Amministrazione Trump ha dapprima minacciato di vietare la app negli Stati Uniti, poi ha praticamente obbligato un compratore americano a farsene carico (potrebbe essere Microsoft oppure Oracle) e comunque ha mantenuto la minaccia: se entro il 15 settembre le operazioni americane di TikTok non saranno gestite da un’azienda americana, la app sarà vietata. L’Amministrazione ha fatto lo stesso con WeChat, che è la più importante e famosa app cinese, poco usata dagli americani ma essenziale per i moltissimi immigrati e studenti che la usano per comunicare con la madrepatria. Poi c’è Huawei, contro cui Washington ha una faida aperta da anni. Un paio di settimane fa l’Amministrazione ha inasprito il divieto fatto a tutte le compagnie americane di commerciare con Huawei, chiudendo tutte le scappatoie che ancora consentivano all’azienda cinese di approvvigionarsi di microchip e di altre tecnologie essenziali per i suoi prodotti. Se l’Amministrazione non ci ripensa, quando finiranno le scorte Huawei potrebbe essere costretta a bloccare la produzione di smartphone e apparecchiature per la telecomunicazione, dicono gli esperti.

 

Per rendere ben chiaro che le mosse americane non sono dettate dalle circostanze ma fanno parte di un piano organico, a inizio agosto il segretario di stato Mike Pompeo ha presentato “Clean Network”, un progetto per de-sinizzare l’internet americano. Il piano mira a bloccare le app cinesi “sospette” dagli app store americani, impedire alle compagnie telefoniche cinesi di collegarsi al network delle telecomunicazioni americano, tenere i dati dei cittadini americani fuori da server cloud gestiti da cinesi e sorvegliare i cavi sottomarini che trasportano dati da una parte all’altra dell’oceano.

 

L’interpretazione più facile che si può dare di questi fenomeni è che sotto l’Amministrazione Trump l’internet americano, benché stia cacciando le app e le aziende cinesi, nello spirito e nelle strategie stia andando un po’ più vicino all’internet che piace al Partito comunista. Sul New York Times, Ana Swanson, Paul Mozur e Raymond Zhong hanno scritto che “messe assieme, queste mosse indicano una nuova e più invasiva filosofia americana alla regolamentazione tecnologica, una che si avvicina maggiormente a quella protezionista della Cina, pur non avendo l’intento di censurare i contenuti e controllare la popolazione”. Se prima c’erano due internet, quello cinese era chiuso e quello americano aperto, adesso uno rimane chiuso e l’altro è in fase di chiusura. Per la Cina, che cerca di espandere il suo modello sociopolitico nel mondo, vedere che anche l’America sta provando a inchiodare la gelatina alla parete quando appena vent’anni fa rideva degli sforzi di Pechino è un risultato simbolico eccezionale.

 

C’è tuttavia un’altra interpretazione secondo cui internet non si sta sinizzando: si sta dividendo. E’ da quasi vent’anni che, con vari gradi di allarmismo, si parla di “splinternet” e di “balcanizzazione di internet”, ovvero di quel fenomeno per cui l’internet globale finirà per dividersi in tanti feudi nazionali o macroregionali. Finora, con l’eccezione della Cina, internet è rimasto un’infrastruttura globale e generalmente condivisa, ma è probabile che le cose stiano per cambiare. Gli Stati Uniti non sono l’unico paese ad aver adottato negli ultimi tempi politiche digitali più restrittive. L’India, di recente, ha vietato 59 app cinesi, tra cui WeChat e TikTok, e il primo ministro nazionalista Narendra Modi ha cominciato a parlare di internet come di un’infrastruttura strategica nazionale da proteggere e su cui fare leva per acquisire importanza globale. La Turchia ha da poco approvato una legge molto restrittiva sui social media. Lo stesso vale per il Vietnam e per Singapore. Già da tempo la Russia di Vladimir Putin cerca di creare una propria versione nazionale di internet, non soltanto con i divieti e la legislazione, ma anche dal punto di vista dell’infrastruttura fisica.


Oggi nel mondo ci sono due internet diversi. Esiste internet nel mondo, con le sue regole, e internet in Cina, con altre regole


 

Con questa sfilata di paesi poco democratici, la divisione di internet sembra una questione di nazionalismo, un pallino di governanti autoritari o aspiranti tali. Ma anche le democraticissima Unione europea ha cominciato a riconsiderare il proprio affidamento all’internet globale. Angela Merkel, la cancelliera tedesca, sempre più spesso cita nei suoi interventi pubblici la nozione di “sovranità digitale”. Dentro alla commissione europea, figure di primo piano come la vicepresidente Margrethe Vestager hanno discusso politiche per la creazione di “campioni tecnologici” europei, e secondo alcuni esperti le regole rigide dell’Ue in materia di privacy e antitrust hanno già cominciato a scavare un fossato tra l’internet europeo e quello del resto del mondo. Vi è mai capitato negli ultimi due anni di non poter accedere a un sito internet americano perché chi lo gestiva non lo aveva adattato alla regolamentazione europea Gdpr? Ecco.

 

Interpretare la grande divisione di internet come un affare tra Cina e Stati Uniti, come un capriccio nazionalista di Donald Trump o come una vittoria del “modello cinese” rischia di tralasciare il quadro più ampio, e cioè che internet è cambiato. Al tempo di Bill Clinton era principalmente uno strumento di comunicazione, oggi è la più grande infrastruttura economica del Ventunesimo secolo. Le più grandi e ricche aziende del mondo sono aziende digitali, le elezioni si vincono e si perdono su internet e da internet dipendono in maniera crescente tutti i grandi processi economici. Tra vent’anni, la vittoria o la sconfitta in un conflitto militare potrebbe dipendere dallo stato delle infrastrutture digitali. E dunque quello che spesso appare come un fenomeno di nazionalismo e autoritarismo è in realtà un processo forse inevitabile: internet si dividerà perché esattamente come ciascuno stato considera strategica la propria autosufficienza energetica e alimentare, così anche l’autosufficienza digitale sarà fondamentale per uno stato o per macroaree come l’Unione europea.

 

Ben Thompson, che scrive l’indispensabile newsletter Stratechery, di recente ha provato a immaginare come sarà, questo internet diviso, e a suo parere ci saranno quattro internet: americano, cinese, europeo e indiano. Ciascun internet è anche un modello di gestione delle cose digitali. Quello americano è il modello del lasseiz-faire, per ora, in cui è lasciata enorme latitudine alle aziende della Silicon Valley, che sono al tempo stesso agenti di espansionismo economico e ambasciatori del soft power di Washington. Il modello cinese è quello della chiusura e del controllo, che ha consentito la crescita di un mercato interno florido e cerca di espandersi nei paesi dell’Asia e dell’Africa. Quello europeo è il modello delle regole, che protegge i suoi cittadini ma ha un problema: senza concorrenza sufficiente è quasi impossibile creare un campione continentale. Quello indiano è un modello ibrido e ancora in fase di sviluppo, che tuttavia sta creando aziende che presto avranno valore internazionale e potrebbe diventare un contrappeso potente all’espansionismo cinese.


Politiche digitali più restrittive in America, ma anche in India e in paesi poco democratici come la Turchia e la Russia 


 

Cosa significherà avere quattro internet diversi? Potremo continuare senz’altro a mandare mail in Cina e in India, ma dietro la facciata molte cose saranno differenti. E’ probabile che ciascuna macroarea vorrà fare in modo che i dati dei cittadini rimangano entro i propri confini, e questo significherà enormi cambiamenti infrastrutturali. Anche i servizi saranno differenziati: Facebook negli Stati Uniti potrebbe essere diverso da Facebook in Europa e in India, o potrebbe perfino essere un altro servizio, totalmente diverso, magari autoctono. Quando Donald Trump ha annunciato che avrebbe vietato TikTok negli Stati Uniti, Mark Zuckerberg avrebbe dovuto gioire: il social cinese sta mangiando via milioni di utenti dai suoi prodotti, nessuno come Zuckerberg ha da guadagnare dalla sua caduta. Ma il ceo di Facebook è stato tra i primi a dirsi contrario al divieto. Se Trump può vietare TikTok in America, cosa impedisce ai governi di India, Corea o Paraguay di fare lo stesso con Facebook?

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