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Il Foglio sportivo

Le pietre del Giro delle Fiandre sono diventate una terra d'amore. Parla Philippe Gilbert

Giovanni Battistuzzi

Ha avuto il merito di aprire una crepa nel ciclismo. Una crepa dalla quale è uscita una generazione di ciclisti d’assalto. L'ex campione del mondo vallone ci racconta cosa vuol dire correre sul pavé della Ronde

C’era una volta un paese nel quale le strade erano “lastre di terra dure come il marmo se è asciutto, ma se piove ci si trova a pedalare su un dito di melma. E peggio ancora quando queste sono coperte dalle pietre: ci sono voragini profonde anche cinque dita tra loro. Strade ripide che puntano al cielo. Quando si corre lì l’obbiettivo non è vincere, è tornare a casa”. Quel paese erano le Fiandre. Era il 21 marzo 1922 quando Henri Pélissier, uno dei corridori più forti dell’epoca (vinse, tra le tante corse, un Tour de France, una Sanremo e tre volte il Lombardia), raccontò al quotidiano L’Auto la sua prima esperienza al Giro delle Fiandre. Pélissier aveva già corso sulle pietre – aveva vinto due volte la Parigi-Roubaix – e anche in Belgio, ma sempre in Vallonia (la Ronde van België, una corsa a tappe, e il finale della Parigi-Bruxelles, scorrevano nelle Ardenne). Quell’esperienza però lo sconvolse: “Il Giro delle Fiandre non è una corsa, è un massacro. Solo i fiamminghi possono pedalare lì, perché ci sono abituati. Nessuno straniero vincerà mai lassù. Nemmeno un vallone”. La prima edizione della Ronde è del 1913, il primo vallone a vincerla fu Claude Criquielion nel 1987. Il secondo Philippe Gilbert nel 2017. “La realizzazione di un sogno”, dice al Foglio sportivo Philippe Gilbert.

  

Pélissier aveva il dono di saper convincere tutti che non era mai colpa sua quando non vinceva (finì quarto). Era un gran racconta storie. Quella volta però sbagliò la previsione, ma nell’errore c’azzeccò. Perché è vero che l’anno successivo la Ronde la vinse uno svizzero, Henri Suter, ma fino al 1949, fino a Fiorenzo Magni, il Fiandre fu affare per fiamminghi. E così andò avanti per decenni. Qualche straniero vinceva, ma rimase affare per fiamminghi.

 

Non è più così. È dal 2017 che al Giro delle Fiandre non vince un belga: Philippe Gilbert. Era il 2 aprile, si liberò degli avversari sull’Oude Kwaremont, attraversò la linea d’arrivo da solo, con la bici sollevata al cielo. “Era ciò che avevo sognato fin da bambino”, dice al Foglio sportivo a margine dell’evento di lancio della stagione ciclistica di Warner Bros. Discovery. Un sogno che poteva diventare un rimpianto, il ricordo di un’occasione persa. “Era il 2002, correvo tra gli under 23 e in quella Ronde u23 ero nel gruppo buono, avevo possibilità di vincerla allo sprint: terminai quarto. Pensai: avevo una possibilità di vincere il Fiandre e l’ho persa”, racconta. Passarono gli anni, Gilbert tornò a correrla da professionista: “La sfiorai due volte: terzo nel 2009 e nel 2010”. Per cinque anni la guardò alla tv, tornò nel 2017 “e finalmente vinsi. Il Giro delle Fiandre è un simbolo del nostro paese. Simbolica forse è stata anche la mia vittoria con la maglia di campione del Belgio, perché è vero che ci sono divergenze politiche tra Fiandre e Vallonia, è vero che ci sono due lingue e due culture, ma alla fine siamo due parti di una cosa sola”. Domani (domenica 2 aprile diretta integrale su Eurosport 1 e Discovery+ dalle 10,30) saranno passati esattamente sei anni da allora.

 

La si deve amare la Ronde. Richiede passione, sentimento. Altrimenti non ci si adatta alle pietre dei muri. Sono lontani i tempi nei quali il pavé fiammingo faceva paura. Ora lo si sogna, ovunque nel mondo si cercano pietre per farsi trasportare dall’immaginazione, dalla speranza di poter un giorno pedalare lassù. L’amore di Gilbert per le pietre è scoccato “vicino a casa. A Remouchamps c’è una salitella, 200 metri in pavé al 15 per cento di pendenza media. Quando ero giovane andavo spesso su e giù, a tutta. Mi piaceva un sacco correre sulle pietre”.

 

Philippe Gilbert è stato soprattutto l’uomo capace di abbattere un pregiudizio che s’era iniziato a diffondere, scioccamente, nel ciclismo verso la fine degli anni Ottanta. Quello per il quale serviva specializzarsi e chi andava forte in salita non poteva ambire a vincere sulle pietre. “Forse davvero sono stato il primo, dopo molti anni, a dire che era possibile essere competitivo in tutte le Classiche. Era da anni che non accadeva, ma questo non voleva dire che fosse impossibile, pensai. Perché c’erano riusciti van Looy, de Vlaeminck, Merckx. Erano campioni, certo, ma perché doveva essere diventato impossibile? Il mio sogno era vincere tutte le Classiche monumento, ho lavorato molto per farlo avverare. E adesso sono felice di vedere che altri corridori, come Mathieu van der Poel, Tadej Pogacar, Wout van Aert, vogliono provare a fare lo stesso. Spero possano realizzare ciò che non sono riuscito a realizzare. Sarebbe per me una soddisfazione”. Gilbert ha mancato solo la Sanremo. Fiandre, Roubaix, Liegi e Lombardia è riuscito a vincerle.

 

Philippe Gilbert ha avuto il merito di aprire una crepa nel ciclismo. Una crepa dalla quale è uscita una generazione di ciclisti d’assalto. “Un po’ mi rivedo in loro. Certo era un ciclismo diverso il mio, soprattutto nei primi anni in gruppo. Allora si era soliti aspettare e utilizzare la squadra per tenere controllata la corsa. A me però piaceva attaccare e cercavo di farlo ogni volta avevo l’occasione”, racconta. Aggiunge: “Mi piace pensare che quando questi ragazzi, da piccoli, mi guardavano correre pensassero: ‘Questo corridore è un figo perché attacca sempre’. E che abbiano voluto farlo anche loro. Chissà. Sarebbe bello fosse così. Quel che è certo è che a me piace vederli correre, vederli attaccare: è un bellissimo spettacolo. È molto meglio vedere una corsa come quelle di questi anni rispetto al ciclismo di qualche anno fa: allora si attendeva, attendeva, attendeva e poi non accadeva nulla. Se oggi sono aumentati gli appassionati di ciclismo è anche grazie a questi ragazzi”.

 

Gilbert si è ritirato al termine della scorsa stagione. Ora le corse le commenta, per Eurosport, da una moto. “È una bella battaglia anche in moto. Devi fare quello che facevi in bici, cercare il posto migliore e combattere per difenderlo, perché anche se sei il ‘commentatore’, nessuno ti dà spazio. Devi farti trovare nel posto giusto al momento giusto. Mi sono accorto che sto facendo ancora ciò che facevo in bici”.