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Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA

Mourinho e il trionfo del capitale umano

Alessandro Bonan

Senza di lui sarebbe stata la solita Roma finita in mezzo al nulla, senza ricordi belli o emozioni, solo tante chiacchiere da radio, accuse, polemiche e rimpianti. Mou invece si è opposto al copione classico, piegando la storia alla sua volontà

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Senza di lui sarebbe stata la solita Rometta finita in mezzo al nulla, senza ricordi belli, emozioni, solo tante chiacchiere da radio, parole gracchianti, accuse, polemiche, rimpianti e frustrazioni. Mou, assonante dell’avversativo ma, si è opposto al copione piegando la storia alla sua volontà, al suo desiderio di conquista. L’Egemone del calcio si è superato più di quello che dica il risultato: una finale vinta in una competizione europea di profilo basso. Innanzi tutto perché una vittoria ha sempre contorni supremi, e poi perché dentro il suo successo vi è il trionfo del capitale umano. 
 

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Senza di lui sarebbe stata la solita Rometta finita in mezzo al nulla, senza ricordi belli, emozioni, solo tante chiacchiere da radio, parole gracchianti, accuse, polemiche, rimpianti e frustrazioni. Mou, assonante dell’avversativo ma, si è opposto al copione piegando la storia alla sua volontà, al suo desiderio di conquista. L’Egemone del calcio si è superato più di quello che dica il risultato: una finale vinta in una competizione europea di profilo basso. Innanzi tutto perché una vittoria ha sempre contorni supremi, e poi perché dentro il suo successo vi è il trionfo del capitale umano. 
 

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Mourinho da scienziato del pensiero applicato al calcio, ha capito da subito che per vincere con la Roma avevi davanti due strade, molto distanti l’una dall’altra: o isolarti dalla città, vivendo chiuso in un mondo astratto dove non esistono il dialetto del popolo, le antiche mura, il cielo azzurro, il profumo del mare portato dal venticello ponentino, oppure piazzare Roma al centro, come un monumento imperiale, un catalizzatore di attenzioni e sentimenti. Capello, nell’anno dello scudetto, scelse la prima strada, isolando se stesso e la squadra, e vinse con la forza delle sue certezze di calcio, della potenza del suo essere uomo che conosce l’arte della battaglia. Mourinho ha deciso da subito di fare l’esatto contrario, sposando la città, esaltando la romanità come se fosse una grazia ricevuta.

 

Progressivamente, con quella tempistica che è propria delle scritture fatte bene, la sua strategia ha preso campo, si è rafforzata, acquistando velocità. 
La Roma, partita in undici, ha finito la stagione in due milioni di persone, quanti sono più o meno i romanisti nella capitale. José Mourinho ha caricato la città sulle sue spalle come un imperator, nell’accezione latina, citazione dal risvolto religioso. La mistica ha funzionato da subito, perché in tanti, come se fosse un Cristo, hanno creduto in lui. La Roma cadeva e la gente lo difendeva, vinceva e il popolo lo ringraziava. Una città da sempre in balia di ogni polemica si risvegliava compatta anche quando perdeva male un derby, 0-3 all’andata, senza fiatare, guardando oltre, sapendo che al di là del muro di una sconfitta avrebbe trovato sorprese molto più importanti.

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Mourinho ha riportato una luce che si era spenta, quella della speranza di riuscire a riposizionare le braccia in alto sul filo del traguardo, in un calcio dove il successo sembra sempre appartenere ai soliti noti. Poco importa se dentro le sue lacrime il portoghese abbia messo soprattutto la sua ambizione, ciò che conta è il risultato che è riuscito ad ottenere. Si è preso la scena, come solo lui sa fare, e dal palco ha declamato in versi. Le sue parole hanno scaldato il cuore, tutti hanno guardato il cielo e dalle stelle sono tornati giù. “C’è una via a Tirana, tutta distesa del mio amore”, scrisse una volta il poeta. 

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