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la sfida-scudetto

Napoli-Milan è un remake

Giuseppe Pastore

Spalletti sembra non riuscire a cambiare il corso della sua storia d'allenatore. I rossoneri ora sono in testa al campionato e Pioli ha ancora superato se stesso. Basterà per lo scudetto? Intanto la Juventus...

Non sappiamo se Luciano Spalletti ha mai letto un romanzo di Stephen King intitolato “22/11/63”, che ruota intorno all'incredibile scoperta, nel retrobottega di un bar, di un tunnel spazio-temporale che porta indietro nel tempo fino al 1958: appurato che è davvero possibile riscrivere il passato, il protagonista si mette in testa di provare a sventare l'omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Ma con l'avanzare delle pagine questi si accorge – e noi con lui – che non è tanto facile piegare il corso del Tempo e della Storia: ogni volta che c'è la possibilità di dare una robusta sterzata agli eventi, ci si mette di mezzo un treno che deraglia, un fenomeno atmosferico, un'inondazione a mettere i bastoni tra le ruote al nostro eroe. La fatica quotidiana di Spalletti nel cambiare faccia alla sua ultra-ventennale carriera da eterno piazzato, alla maniera di un Claudio Ranieri a Leicester, gli si leggeva in faccia già nell'immediato postpartita di Lazio-Napoli, due domeniche fa: il gol a tempo scaduto di Fabian Ruiz aveva tolto la sordina alle emozioni e svelato l'enorme voglia di vincere questo maledetto e sospirato primo scudetto, ma anche l'enorme carico di stress che costa inseguire un obiettivo personale così sportivamente immane. Moltiplicate per mille questo stato d'animo, adeguandolo al sempre ribollente contesto napoletano, e avrete una prima spiegazione del “bagno” collettivo del Napoli di ieri sera, surclassato tatticamente e mentalmente dal Milan nel triste remake – benché meno efferato nel punteggio – della lezione di calcio inflitta dal Barcellona dieci giorni fa in Europa League.

È difficile cambiare il corso della storia, nel calcio come altrove: il tono affranto di Spalletti post-Milan, lontanissimo dalla versione battagliera del Luciano che anelava l'immortalità sportiva in caso di vittoria di una banale ventottesima giornata di campionato, è la spia di una gestione delle emozioni ormai fuori controllo, come il termostato di una caldaia impazzita che alterna serate di caldo tropicale a lunghe settimane di “fridd 'nguoll”. “Abbiamo delle anime fatte in un modo e delle anime fatte in un altro”, meditava Spalletti nel più classico dei flussi di coscienza, “ma io le situazioni ormai me le son puppate tutte”. L'ammissione che il Napoli ha un ventre molle di giocatori – chi ha detto Insigne? chi ha detto Zielinski? - abituati alla regolare delusione quando il gioco si fa duro. E non fa che peggiorare la situazione il diluvio di affetto di cui è capace uno stadio da 60 mila spettatori – un “Maradona” encomiabile, in un clima che, a proposito di viaggi nel tempo, sembrava provenire dagli anni Ottanta. Il Napoli non avrà troppi problemi a piazzarsi tra le prime quattro, centrando così l'obiettivo stagionale fissato a inizio stagione, e in questo Spalletti è una garanzia. Eppure, parafrasando Gaber, “anche per oggi non si vola”.

Così riprende quota il Milan che non ha la rosa migliore del campionato né una manovra particolarmente convincente, ora che il suo gioco verticale wannabe-Liverpool è andato via via deteriorandosi da settimane; per non parlare dell'ulteriore carico di pressioni di chiamarsi Milan e non vincere niente da undici anni. Eppure, soprattutto negli scontri diretti, Pioli trova sempre il modo e continua a superare sé stesso: a 56 anni è riuscito finalmente a battere Spalletti, che gli aveva inflitto parecchie lezioni e gli aveva anche procurato due esoneri. Si può discutere se la cosa porti realmente punti, ma la sensazione è che lo spogliatoio del Milan sia decisamente il più sano tra le squadre di alta classifica, grazie al giusto mix tra giovani in decollo verticale (come il sontuoso Kalulu di ieri sera) e qualche vecchio saggio che indica la strada. È una ricetta finanche banale eppure a lungo osteggiata dalla proprietà rossonera, che non voleva saperne di riportare a Milanello il totem Ibra né era troppo convinta dal vecchio Giroud, che Pioli ha inserito nella categoria delle “persone di spessore”, una tipologia umana sempre più rara negli spogliatoi di calcio. A metà marzo ormai non scopriamo più nulla: a Napoli il Milan ha replicato l'ottima partita eseguita quasi sempre contro le big, dal derby di martedì in coppa Italia alle vittorie di Bergamo e Roma in campionato, dominando il centrocampo per un'ora abbondante e privando l'avversario del minimo punto di riferimento grazie al dinamismo da Premier League – ok, non esageriamo, facciamo da alta Bundesliga – di quasi tutti i suoi interpreti. L'asino cascherà prestissimo, già a partire dal prossimo Milan-Empoli che nasconde duecentomila insidie che a questo punto – si augurano i tifosi rossoneri – la squadra avrà ben capito come schivare. Magari con l'ausilio di un voluminoso navigatore di nome Zlatan.

 

Postilla finale sulla Juventus, che in molti ipotizzano come quarta incomoda al banchetto-scudetto. Allegri giura e spergiura di no, contraddetto dai suoi stessi giocatori, e ci mancherebbe altro. L'1-0 alla Spezia, arrivato con il solito stile avvilente dall'intervallo in poi, vale ugualmente tre punti come qualunque scorpacciata alla Salernitana di turno. Quanto a Max, questo è il catalogo: va per i 55 anni, un'età in cui di solito gli allenatori diventano sempre più oltranzisti, e dunque l'estasi dell'ennesimo cortomuso val bene anche una partita da zero tiri totali per Vlahovic, ancora una volta trattato dai compagni alla stregua di un Kevin Lasagna. È tornato esattamente per restaurare, più prussiano e ineffabile che mai: una specie di “cura Ludovico” che serve a rieducare la Juve dopo due stagioni trascorse a inseguire vaghe chimere di europeismo. È da mesi che ci chiediamo il senso di Rabiot titolare fisso: ieri forse l'abbiamo capito, perché interpreta meglio di tutti il calcio propugnato dalla Juventus 2021-22, qualunque esso sia. Tutte cose che irritano gli esteti e mandano in visibilio gli juventini doc, cui non c'è bisogno di ricordare il motto della casa. Benché ancora più teorico che possibile, un eventuale scudetto sarebbe la Gioconda della carriera di Allegri – anzi no, passateci la battuta, vista la qualità non esattamente stellare di molte delle ultime prestazioni: sarebbe la Pietà della carriera di Allegri.

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