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Il Foglio sportivo

Se lo scudetto passa da Napoli-Milan

Roberto Perrone

Da Maradona e Gullit a Osimhen e Leao: dopo trent’anni torna a essere partita decisiva

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Quando Napoli-Milan valeva per lo scudetto. Non solo di una, ma di tutte e due le squadre. Prima di domenica sera bisogna andare indietro di più di trent’anni. Era la fine degli anni da bere (gli anni ‘80) e l’inizio di quelli da annacquare (gli anni ‘90). Non eravamo in centomila allo stadio quel dì, ma ci andammo vicini. Allora si chiamava San Paolo e Diego Armando Maradona stava in campo bello, magro (magari un chiletto o due da smaltire, dai) e magico. Era il primo maggio del 1988 quando Napoli-Milan valeva, secca come una finale, per il titolo. Siamo passati dal Milan di Arrigo Sacchi a quello di Stefano Pioli. Arrigo costruì la sua fortuna con il Parma che con la sua zona veloce (“eretismo podistico” lo battezzò Gianni Brera) fece ammattire quella più placida di Nils Liedholm, seducendo Silvio Berlusconi. Pure il Barone, comunque, era eretico: in una sfida con il Napoli mise lo stopper Filippo Galli a uomo su Maradona. Il Milan di Sacchi era a trazione olandese, Gullit e Van Basten, poi Rijkaard, il Napoli di Ottavio Bianchi e poi di Alberto Bigon ballava sudamericano con Maradona e Careca, poi Alemão.

Alemão fu quello della monetina di Bergamo e sia benedetto perché, grazie a lui, cambiò la regola: da allora stramazzare a terra, colpiti o meno da qualcosa lanciato dalle tribune, non porta la vittoria a tavolino. Si stramazza per altro. 

 

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Due ideologie a confronto, quelle, non solo una sfida Nord-Sud. Napoli e Milan di adesso si somigliano di più, perché sono multinazionali calcistiche, famiglie allargate. Olivier Giroud (Zlatan Ibrahimovic quando c'è) e Rafael Leao contro Victor Osimhen e uno a scelta tra Lorenzo Insigne, Dries Mertens, Hirving Lozano. Senza dimenticare tutti gli altri, da una parte e dall'altra. Una volta esistevano le scuole, adesso esistono le società di calcio che sanno comprare, più o meno bene, e quelle che sanno vendere benissimo: Leao e Osimhen vengono tutti e due dal Lilla, ma non si sono incrociati.

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Questo Napoli-Milan è sfida scudetto, sì, ma in una lunga volata, il traguardo lontano. Quello del 1988 era l'ultima curva a sinistra prima del rettilineo finale di via Roma, la Milano-Sanremo a pochi giri di pedale. Però è una partita che vale. Era dal 1990 che non contava così per entrambe e, tra l'altro, in quegli anni erano da sole, ora sono in compagnia, pure allargata. Al comando dei club c'erano Silvio Berlusconi, il dottore (presidente, dopo), e Corrado Ferlaino, l'ingegnere. Pensare a una proprietà straniera era fantascienza classica. Adesso il Milan è di un fondo mentre il Napoli, con il vulcanico Aurelio De Laurentiis, resiste italiano. 

Maradona tirava tardi e a Soccavo scendeva ad allenarsi quando gli altri finivano. Non è che a Milanello non ci fossero le fughe. Ruud Gullit scappava dal ritiro per andare ai concerti, quando non li viveva in prima persona con il suo gruppo, i Revelation Time. Chi scrive si beccò una interminabile (e dimenticabile) serata a un festival di musica etnica al vecchio Palatrussardi per raccontare le sue gesta. Altri tempi. Ma non per le polemiche, malinconicamente simili. Quando consegnarono il Pallone d'oro al "Tulipano nero" (che lo dedicò a Nelson Mandela), Maradona accusò: "L'ha avuto per l'influenza di Berlusconi". Il Milan era la Juventus, il Nemico pubblico.

Quel Napoli-Milan del 1988 fu un romanzo di cappa e spada. Il club rossonero, temendo sabotaggi, organizzò una specie di blitz. Mandò agenti sotto copertura a studiare la situazione. Non divulgò il nome dell'hotel, non comunicò l'ora di arrivo del charter che rullò verso un angolo dell'aeroporto di Capodichino. Il bus raccolse la comitiva rossonera e sgattaiolò fuori da un cancello secondario. I dirigenti rossoneri non volevano che si ripetesse quanto successo qualche mese prima, nel settembre del 1987, alla prima trasferta europea, con lo Sporting Gijon. Nelle Asturie i milanisti non dormirono per due notti di fila. Migliaia di tifosi si piazzarono sotto le finestre dell'hotel che li ospitava a saltare e a cantare: "No, no, no, no se gana al Molinon". Si racconta che lo storico team manager Silvano Ramaccioni propose ad Arrigo Sacchi: "Chiamiamo la Guardia Civil". E l'allenatore: "Eh, eh, eh, meglio di no. Se li chiami si mettono a saltare pure loro". Così, alla vigilia del match per il titolo, il 30 aprile, il Milan tentò di eludere i problemi, ma un segreto a Napoli, chi lo tiene? Un giornale pubblicò perfino l'elenco delle camere prenotate dal Milan all'Hotel Jolly. Però, almeno, erano oltre il ventesimo piano e dormirono tranquilli, tensione a parte. 

Era il primo maggio del 1988 e il successo (3-2) fece compiere l'impresa al Milan di Arrigo Sacchi.

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Quella partita sancì l’inizio dell’era berlusconiana dei “Galattici rossoneri”: otto scudetti e cinque Coppe dei Campioni (o Champions League) più tagli e ritagli.

Questa potrebbe coronare la rincorsa del Milan alla grandeur tramontata nel 2011. Oppure spingere il gruppo di Luciano Spalletti verso il terzo scudetto della storia, dopo trentadue anni. Il Napoli, infatti, raddoppiò il triangolino vinto nel 1987 due anni dopo quel primo maggio in cui gli venne scucito. Questa volta fu la squadra affidata a Bigon a sorpassare il Milan nel finale concitato.

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A legare i due eventi, l’arbitro, il figlio d’arte Rosario Lo Bello che diresse sia quella domenica al San Paolo senza farsi praticamente notare, sia due anni dopo nella seconda “Fatal Verona” milanista dopo il 1973. Il fischietto siciliano, in questa occasione, fu più “appariscente”: espulse Rijkaard, Van Basten, Costacurta e Arrigo Sacchi. Finì 2-1 per il Verona e come 27 anni prima, il Milan mollò il campionato. Il Napoli festeggiò ma era una cerimonia degli addii. Così prossimo alla vetta ritornò solo con Maurizio Sarri, nel 2018. Può volare ora, di nuovo. Quella fu una stella cadente, questa potrebbe brillare a lungo.

   

Nota a margine. Anche senza la rete, i social e tutto l’armamentario di questi anni ruggenti, anche quella era una sfida vissuta. Alla fine, la sera del primo maggio 1988 il pubblico del San Paolo si alzò per applaudire il Milan. Ricordo perfettamente il giudizio di Gianni Mura di fronte ai tanti commentatori che esaltavano quel comportamento: “Ci siamo talmente assuefatti all’assenza di cultura sportiva da far diventare eccezione quella che dovrebbe essere la regola”. Cioè applaudire un degno avversario. Purtroppo l’eccezione del pubblico napoletano di quel pomeriggio non è diventata regola. Ma questa è un’altra storia. O forse la stessa. 

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