il foglio sportivo

Non si può non amare il Cantona attore

Andrea Romano

"Il Giustiziere", nuova serie tv su Sky, è un poliziesco intricato: per uscirne serve un miracolo. Che puntualmente arriva. Éric appare dal nulla e risolve problemi. Come faceva su un campo di calcio

La sua prima battuta arriva dopo diciassette minuti. Una donna stringe un fucile fra le dita e glielo punta dritto verso la schiena. L’uomo si volta lentamente. Ha un cavo elettrico esageratamente lungo nella mano sinistra e una faccia di latta coperta da un groviglio di barba più bianca che nera. “Al suo posto, mi organizzerei diversamente”, dice. Non è una frase indimenticabile. Ma funziona. Perché a pronunciarla è Éric Cantona, l’uomo autoproclamatosi dio, l’entità nata una volta sola ma che ha già avuto cento esistenze diverse. Calciatore, nume tutelare di Old Trafford, allenatore di beach soccer, santone, santino, reietto, sovversivo, opinionista, pittore, direttore sportivo. Tutto superando sempre la tripartitura arbasiniana. Da bella promessa a venerato maestro. Senza mai venire risucchiato nell’etichetta di solito stronzo.

 

Adesso Cantona è soprattutto un attore. Per il grande schermo. Per il piccolo schermo. Una carriera da decine di pellicole alle spalle e il presente racchiuso in una serie tv. Si intitola Il Giustiziere (in Italia è visibile in questi giorni su Sky). E pesca a mani piene dagli stereotipi. Investigatori che si impantanano su piste sbagliate, stagisti chiamati a mescere caffè, province tranquille costrette a fare i conti con l’orrore seriale. Per uscirne serve un miracolo. Che puntualmente arriva. Éric appare dal nulla. Viene accolto con sospetto, viene trattato con ostentata sopportazione. Nessuno all’inizio crede alle sue tesi. Ma poi tutti finiscono per dargli ragione. Il suo personaggio si chiama Thomas Bareski. Ed è un ex pezzo grosso della polizia che è andato in aspettativa per dedicarsi totalmente a casi irrisolti.

Una maschera già vista fino allo sfinimento. Solo che stavolta è finalmente credibile. Perché Bareski è un freak, proprio come Cantona. Vive in un furgone, caccia cinghiali e lepri, si lava in giardino. Derelitto e vincente, disagiato e saggio. Ossimori che riescono a coabitare senza contraddirsi e che finiscono per sostenersi. In Thomas c’è molto più di Éric di quanto si possa pensare. Perché nessun altro calciatore al mondo è riuscito a diventare un simile misto di leggenda e di realtà. Quando Cantona è adolescente più di qualcuno lo prende in giro. Gli dicono che vive in una grotta. È una verità parziale. Perché quando la sua famiglia si trasferisce al confine fra l’undicesimo e il dodicesimo arrondissement di Marsiglia, a metà degli anni Cinquanta, su quel terreno ci sono solo sassi e sterpaglia. E una caverna. È da lì che iniziano a costruire la loro casa. Genitori e figli. Ogni weekend. A ogni pausa dalla scuola. Per anni. Fino a quando i ragazzi non diventano grandi.

Ma Bareski che caccia conigli selvatici richiama anche un’altra immagine. Nel gennaio del 1995, dopo il calcio stile kung-fu con cui Éric ha colpito Matthew Simmons, decine di giornalisti assediano la casa di suo padre Albert. Quando l’uomo si affaccia un corrispondente gli urla: “Non prova un po’ di vergogna per suo figlio?”. La faccia di Albert diventa paonazza, il suo respiro affannoso. “Senti signorino – grida sdegnato – quando mio figlio gioca bene, nessuno viene qui. Ora invece siete corsi tutti. Ti consiglio di togliere quel microfono da davanti al mio naso, perché con quella pelliccia intorno sembra una lepre. E io alle lepri sparo”.

 

Da attore Cantona non ha raggiunto i picchi ottenuti da calciatore. Ma a nessuno importa. Perché la sua devozione alla causa è totale. Nel 2009 Ken Loach lo dirige in “Il mio amico Eric”, dove il re di Manchester è per un postino coi nervi a pezzi quello che Humphrey Bogart è per Woody Allen in Provaci ancora Sam. Il risultato è notevole. Il film è un contenitore di aforismi: “Io non sono un uomo, sono Cantona”. E ancora: “Il momento più bello è stato un passaggio”. Tre anni dopo debutta sul palcoscenico. È il protagonista di Ubu Incatenato. Solo che il teatro è mezzo vuoto. Éric si indigna. Recita le battute con la rabbia che gli si gonfia nello stomaco. Ma d’altra parte lo aveva detto Flaiano: “La massa e il teatro: la massa crede soltanto agli spettacoli ai quali partecipa: calcio, vacanze, sesso”. Alla fine della rappresentazione Cantona impugna una penna e scrive sul libro d’oro del teatro: “Pubblico di merda, piccoli borghesi”.

Un quotidiano locale ci va giù pesante. Dice che l’uomo che ha incitato i francesi a svuotare le banche ora vuole svuotare anche i teatri. Una battuta che fa male. Perché è vera. Oggi Éric è molto diverso. Ha perso centimetri quadri di capelli e ha messo su centimetri cubi di pancia. Quella selva di sopracciglia gli conferisce un’aria perennemente corrucciata. Eppure è impossibile non amare il Cantona attore. Soprattutto perché gli impedisce di parlare di calcio, di dire che Pastore è il miglior giocatore al mondo, di rovesciarsi in testa un piatto di spaghetti per prendere in giro Neymar. Il re ha iniziato la sua nuova vita. Lunga vita al re.

 

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