Eric Cantona

Beppe Di Corrado

Una cinepresa ha corrotto Cantona. La barba, giusto quella. Il resto dov'è, Eric? La faccia, le parole, la scorrettezza, l'arroganza, la follia. Questo non è lui, non il vero, non quello lì. Parla solo dalla sua casa in Camargue: l'amore e l'esistenza, l'arte, il mondo. Un santone inverosimile, un profeta dell'eternità.

    Una cinepresa ha corrotto Cantona. La barba, giusto quella. Il resto dov'è, Eric? La faccia, le parole, la scorrettezza, l'arroganza, la follia. Questo non è lui, non il vero, non quello lì. Parla solo dalla sua casa in Camargue: l'amore e l'esistenza, l'arte, il mondo. Un santone inverosimile, un profeta dell'eternità. Sfoglia la nuova vita: partecipa agli eventi di solidarietà, appare ai vernissage, legge Kierkegaard in tv. Era un'icona del pallone in Inghilterra, mentre in Francia era detestato. Ora è un intellettuale in Francia, mentre in Inghilterra è solo un poster sulle pareti. Si cambia ed Eric è cambiato più di altri. Ha ripudiato il pallone, ha snobbato il calcio, ha mortificato se stesso. Dice: “Sono diverso”. Da chi? Da cosa? Perché? Prende la copertina di Paris Match: lui e sua moglie, la voglia di un bambino, “ma non in questo mondo sbagliato”.

    La bellezza di Eric era il contrario, era lui che non si era pentito di quel calcio al tifoso del Crystal Palace. Non avrebbe perdonato uno che gli urlò “tua madre è una puttana e tu sei un fottuto francese di merda”. Non voleva la misericordia del mondo che gli si era scagliato contro, dei colleghi che l'avevano additato, dei politici che l'avevano bollato: “I calciatori devono essere un esempio per i più giovani, sono gli idoli dei bambini, devono averlo sempre presente”. E' rimasto se stesso fino a quando ha deciso di rinnegarsi. La cinepresa l'ha rapito quella volta che gli chiesero un cameo in Elizabeth: “Una parte imbarazzante”, scrissero i giornali. Ne sono arrivate tante, pessime e poi migliori, fino a questa, fino all'ultima. Ken Loach l'ha preso per interpretare se stesso in “Looking for Eric”. Sarà presentato a Cannes. Eric in presa quasi diretta, mentre recita la parte di Cantona. La fine di un calciatore unico, di un uomo speciale al di là delle follie, di un atleta irripetibile, di un soggetto incredibile. Sullo schermo Eric si cancella per rappresentarsi meglio di come è stato. E' la testimonianza di un fallimento, evidentemente, come se Cantona debba chiedere scusa, adesso che non gioca da quindici anni, per tutto quello che di sbagliato ha fatto nella prima vita. “La cosa che amo di più in Ken Loach è che ragiona e parla davvero come uno di sinistra”. Eric abiura il passato, sconfessa il giorno in cui si dichiarò anarchico di destra, rinnega l'idea di non voler essere amato per quello che dice, ma per quello che è. L'eremita di campagna, il nuovo guru pseudoambientalista, il pensatore contemporaneo nemico del sarkozismo thatcheriano è un passaggio che gli serve per pulirsi dalla sporcizia del suo mondo precedente. Ora lui è l'attore che fa 9 milioni di telespettatori nel thriller tv “Papillon Noir”, quello che prepara la prima pièce teatrale da protagonista con regia della moglie. La vita post sportiva l'ha reso ruffiano e smanioso di ottenere successo nel paese che l'ha snobbato e cacciato. Perché Cantona non ha avuto né la gloria di Platini né quella di Zidane. E' stato sfortunato e però anche ostracizzato: ha fatto parte di una generazione di francesi che valeva poco. Tranne lui. Per tentare di vincere in Nazionale avrebbe potuto tirare ancora un po'. Invece no: non si è fatto affascinare dall'idea di passare per il reduce ben remunerato da esibire a ogni buona occasione. La Francia è stata una parentesi scomoda: convocato sempre controvoglia e spesso inutilmente in una squadra che avrebbe dovuto mantenere da solo per assenza di altri campioni, per imbarazzante pochezza del resto della rosa. Ha mollato prima che potesse fare figure peggiori: la mancata qualificazione a Usa 1994 gli è bastata, quella non ottenuta per gli europei del 1996 è stata il colpo di grazia. E' questo che vuole cassare ora. Il ricordo di un fallimento. Però no, perché è come se voglia eliminare anche il resto. Il giusto e soprattutto lo sbagliato che c'è.

    Allora cancellate il 25 gennaio 1995, annientate il Selhurst Park di Londra, togliete dalla storia Crystal Palace-Manchester United. Quell'Eric Cantona è finito. Era il simbolo del Manchester, fu espulso per un fallo su un difensore avversario. Protestò con l'arbitro, poi se ne andò. Nervoso, verso gli spogliatoi. L'urlo dagli spalti, l'insulto. Lui parte: un colpo di kung-fu con entrambi i piedi, i tacchetti di ferro sul petto di quel dannato Matthew Simmons. Uno che non doveva esserci quel giorno allo stadio: tifava non Crystal Palace, ma Fulham. Era un ex galeotto, ex affiliato a un movimento di estrema destra. Un violento. Il grido: “Fottuto francese di merda e deficiente”. Assalto. Vergogna. Tutti scatenati contro il calciatore pazzo: “Cantona deve essere cacciato per sempre dagli stadi di calcio”. “E' indifendibile”. Eric oggi non si difenderebbe neanche da solo. Sarebbe forse il primo a fare il parallelo, a raccontare con voce impostata la solita parabola del campione che gioca con la vita. Pazzo, sregolato, cattivo, sbagliato. Quelli su cui è sempre bello e facile sparare: se le cercano. “Non è un vero attore, non può fingere, non è un cialtrone”. Il suo biografo, Philippe Auclair, lo spalleggia nella conversione. Né calciatore, né attore. Eric, punto. Come se fosse un'entità, uno spirito trasversale, un artista completo. Gira con la sua Laika a pellicola. Fotografa il mondo per sapere dove vive, ritrae la gente per capire chi è: “Scatto in bianco e nero, perché il bianco e nero, per me, rappresentano la vita e la morte”.

    S'è dimenticato tutto, forse. O forse cerca solo di farlo. Perché la verginità che non aveva in Francia e che cerca a ogni costo adesso ha un prezzo da pagare. E' questo qui: rimuovere, cancellare, annientare. Tutto, dall'inizio, da quel giorno del 1987. Aveva 21 anni, al quarto campionato con la maglia dell'Auxerre: cazzotto in bocca al suo portiere. Squalificato. Rientrò, giocò da Dio: miglior calciatore del torneo. Un altro folle come lui, Bernard Tapie, lo portò al Marsiglia. Poche settimane dopo la convocazione in Nazionale e il litigio con il commissario tecnico, Henry Michel. Eric aspettò la prima intervista: “Non me ne frega niente, lui è una persona di merda, il peggior tecnico della storia”. In campionato prese a pallonate un arbitro. A un altro gli lanciò la maglietta addosso: sospeso a tempo indeterminato. Riprese e quando andò a ritirare lo stipendio da Tapie gli mollò un ceffone. Via a Bordeaux, fuggito dopo quattro mesi. A Montpellier prese a schiaffi un compagno. A Nimes ancora una pallonata a un arbitro che l'aveva appena ammonito. La Federazione francese lo convocò per chiarire, lui si presentò davanti alla commissione disciplinare solo per insultare tutti. Uscì dall'aula dell'interrogatorio e fece una conferenza stampa improvvisata: “Mi ritiro. Anzi no, me ne vado via. Questo paese non va bene per me, questo paese non funziona”. Bisogna tacere, adesso.

    Eric abbuona il passato per restituirsi un futuro. L'Inghilterra? Un passaggio della vita, un passaggio in terra straniera. Si può anche ritrattare, non si può depennare il ricordo. La gratitudine appartiene a un'altra era e a un altro mondo. Eric lo sa. Manchester gli ha dato la gloria, ha salvato il suo talento dall'abisso, ha recuperato un campione, l'ha trasformato in eroe. Ha trasformato la sua cronaca in storia. Nessuno nel 1996 ebbe il coraggio di contestare i manifesti che invadevano Manchester, Londra, Liverpool, Birmingham e il resto del paese. Pubblicità: “Il ‘66 è stato un grande anno per il calcio. E' nato Eric”. Il che, praticamente, doveva suonare come un vero oltraggio: nel 1966 l'Inghilterra ha vinto il suo primo e unico titolo Mondiale. Nessuno ha avuto il pensiero di rinfacciarlo alla Nike, nonostante sull'argomento gli inglesi siano piuttosto sensibili. Anzi: dopo essere stato trattato male per la storia dei “calciatori che devono dare l'esempio”, un anno prima del suo ritiro Cantona ha ricevuto l'applauso del Parlamento di Sua Maestà. Era il 15 maggio 1996, lo speaker della Camera dei Comuni esordì così: “Prima di cominciare, a nome dell'aula, vorrei dire che Eric Cantona è il più grande francese vivente”. Subito dopo, il tributo del Times: una vignetta in prima pagina nella quale il presidente francese Jacques Chirac sfila tra la folla in delirio che espone lo striscione “the greatest living frenchman”. Monsieur le president è felice, poi si gira e scopre la realtà: dietro di lui, a pochi centimetri, c'è Eric, in maglia rossa e colletto alzato. Nessuno si è offeso quando l'hanno definito “The King”, in una nazione che vorrebbe tanto un re. Nessuno ha alzato la voce quando l'hanno raffigurato come il Gesù della “Resurrezione di Cristo” di Piero della Francesca e lui s'è comprato quel quadro. Lui che emerge dalla tomba in toga rossa, e ha vicino il manager del Manchester, Alex Ferguson, e alcuni altri giocatori: Ferguson vestito da Giulio Cesare, mentre i suoi soldati addormentati sono David Beckham, Nicky Butt, Phil e Gary Neville.

    Dov'è finito tutto questo Eric? Non c'è. Dimenticato, archiviato come si fa con le cose belle, ma non tanto. Quella era l'eternità, invece ha scelto di scendere al livello di chi vuole un momento, non tutto. Au revoir, come diceva nella pubblicità che l'ha consacrato a fenomeno globale, a cattivo buono perché sconfigge i cattivi veri. La Nike che se ne fregò del suo carattere per riempirlo di soldi e di fama ha fatto la stessa fine di Manchester. Mancava al pallone uno come Cantona: perché quelli come lui fanno sentire tutti più buoni. Migliori. Sollevano le coscienze, fanno aprire i dibattiti sulle infanzie difficili, sui soldi che sono sempre troppi, sul disagio che crea la fama, sull'incapacità degli sportivi di reggere le responsabilità, sull'immaturità del sistema.

    Eric Cantona non è Mike Tyson e neppure OJ Simpson. Non è Diego Armando Maradona: “Io sono io, e io posso fare tutto quello che voglio”. Gli altri della sua specie sono tramontati, crollati, finiti. Saranno riabilitati da morti, come sempre. Lui poteva essere infinito. Perché lui pagò quell'errore: l'interrogatorio a Scotland Yard, la squalifica per otto mesi, la sospensione del suo club più una multa da 50 milioni, la condanna a due settimane di carcere, commutata in 120 ore di servizio sociale. Ha fatto tutto, da signore. Sbaglio? Pago. Un'equazione facile anche per un ribelle. L'anarchia non significava mai strafottenza verso il principio. Uno incapace di controllarsi e incapace di chiedere scusa se sa di avere ragione, non è detto che non capisca di aver sbagliato, non è detto che non sappia quali sono le convenzioni sociali che ha massacrato con quel calcio al tifoso. Eric ha accettato all'epoca, anzi ha sfruttato la condanna buona del giudice: i servizi sociali erano insegnare ai bambini come si gioca a pallone e come ci si comporta con i compagni e gli avversari. Seguito dalle telecamere come un reality ante-litteram cominciò la prima lezione: “Vi racconto un segreto. Ho un modo infallibile di tirare i calci di rigore, li metto dentro”.

    Come fa uno così a diventare schiavo della nuova vita? Da Cantona potevi aspettarti anche una candidatura politica, non che si rendesse identico a qualcun altro, però più intelligente. La cinepresa, la recitazione, la voglia di piacere a ogni costo l'hanno trasformato in quello che non è mai voluto essere: la macchietta di una personalità, il burattino buono, il saggio a gettone. Durante quelle lezioni ai bimbi lo obbligarono a parlare di rispetto degli altri, a dire che la violenza è il male, che se si diventa famosi bisogna sopportare anche gli insulti. Lui lo fece col suo stile: “Però non lasciate che qualcuno infanghi il nome della vostra famiglia. Finita la squalifica provarono a farlo tornare proprio per far felici gli sponsor e i botteghini e le televisioni. Non ha accettato di arrivare vecchio al crepuscolo: “Volevo lasciare il calcio quando ero alla grande, e l'ho fatto. Adesso il calcio mi piace guardarlo, e tifare per certe squadre, ma so che vuol dire giocare. L'ho amato moltissimo, ora ne sono uscito. Perché quando sei arrivato al fondo della tua passione, è lei che ti abbandona”. In fondo alla sua passione Eric arrivò nel maggio del 1997, con il copione rispettato. Una partita meravigliosa: tocchi, classe, assist, un gol. Lo stadio pieno, la gente estasiata. Poi la settimana dopo, lo choc, con l'annuncio dato dagli altoparlanti dello stadio, con lui lontano in vacanza con la famiglia.Parola allo speaker dell'Old Trafford: “Ho giocato un calcio di vertice per 13 anni. Ora intendo occuparmi di altre cose. Con il Manchester ho giocato il mio miglior calcio. Con voi ho provato il massimo delle emozioni”.

    Nessuno credeva quel giorno che le alte cose avrebbero escluso il pallone. Cantona è stato troppo per auto cancellarsi: è stato il traino del calcio inglese, i motivo per cui l'Europa ha riscoperto che in Gran Bretagna il pallone c'era e aveva bisogno di rinascere. Con Eric: un pallonetto da 40 metri, un tunnel, un dribbling, cioè il calcio divertente e non quello con cui tutti avevano identificato l'Inghilterra: palla lunga, spizzata di testa e poi si vede. Cantona è servito, Cantona è stato servito. La gloria avuta a Manchester e in tutto il Regno Unito forse non hanno rivali nella storia pallonara: un idolo trasversale, al di là del colpo da kung-fu. Un'icona, un Dio terreno, il primo nuovo mito post Heysel, quando l'Inghilterra pentita per gli hooligan si autoflagellò. Eric l'ha portata fuori sapendo che il suo paese l'aveva massacrato. E con lui tutti gli intellettuali che adesso lo prendono a modello. Erano tutti in qualche salotto parigino a sganasciarsi dalle risate o a ignorarlo quando lui dichiarava le sue passioni artistiche. Dipingeva e scriveva versi. Si faceva chiamare Rambo-Rimbaud. Loro, quelli che oggi lo raccontano come personaggio, all'epoca lo giudicavano niente di più di un rozzo sportivo con un'aria un po' folle e qualche velleità poetica.

    Com'era quel libretto che aveva scritto? “La philosophie de Cantona”, 124 pagine introvabili perché pubblicate con un editore piccolo e anarchico come lui. Lontano dal giro giusto, venduto bene solo in Inghilterra. C'era Eric, dentro. L'Eric di ieri: quando hai tre, quattro, cinque anni e giochi a pallone con gli amici, e aspetti la partita, e ti svegli di notte, controlli che sia tutto a posto, che nessuno abbia rubato le tue scarpe da calcio. Questa è la passione”. “Giocare per le strade ti fa venire addosso un grandioso senso di libertà”. “L'artista è colui che riesce a illuminare una stanza buia”. “Io non gioco per una squadra in particolare, gioco per vincere l'idea di perdere”. “Invecchiare non significa tradire la giovinezza e tutte le sue esagerazioni”. “Il pallone è come una donna: bisogna accarezzarlo perché ti risponda”. Era feccia, oggi è arte. Come i suoi film, citati adesso come piccoli gioielli dai quali non staccarsi: “La felicità è sul prato”, “I ragazzi del Marais”, “La felicità è dietro l'angolo”, “Elizabeth”, “L'Outremangeur”. Quella gente adesso aspetta Cannes. Aspetta “Looking for Eric”. Pronti gli applausi, perché anche qui c'è un copione. La parabola dell'uomo sbagliato diventato giusto, pulito, originalmente omologato. Un artista come piace al salotto: fuori dal comune, ma alla fine banale. Si gira, hanno già girato. Un uomo con la barba racconta se stesso a un ragazzo. Ken Loach gira, riprende, monta: Eric non è Cantona.