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il foglio del weekend

Campioni e intellettuali

Maurizio Stefanini

Il luogo comune del calciatore ignorante smentito dalla Nazionale di Mancini. Una tradizione che viene da lontano

Bravi non solo sul campo. L’Italia è così arrivata in finale, ma già dopo il passaggio degli ottavi era diventata virale un’intervista in inglese di una Nazionale azzurra che non solo ha ripreso ad andare come non mai dopo la figuraccia della non qualificazione ai Mondiali in Russia, ma sembra di livello intellettuale inconsueto per i campi di calcio. Federico Chiesa, col goal che ha sbloccato il risultato contro l’Austria, ha sicuramente fatto la storia. 25 anni e 12 giorni prima anche papà Enrico Chiesa aveva segnato in Nazionale per lo stesso torneo, contro la Repubblica Ceca, ed è la prima volta che un padre e un figlio vanno a segno in due diverse edizioni dei campionati Europei. Ma il marcatore, intervistato da BeIN Sports, ha inoltre sfoggiato un inglese fluente, frutto di una scuola internazionale fatta a Firenze. “L’ho frequentata sin dalla quinta elementare”, aveva raccontato nel 2015. “Il liceo internazionale dura 4 anni, lezioni tutte in inglese, tranne quella di italiano, ovviamente, compagni di classe da tutto il mondo, giapponesi, americani… L’inglese ormai lo parlo alla perfezione, ho fatto anche un po’ di francese. Mio padre, quando mi iscrisse a quella scuola, mi disse che sarebbe potuto servirmi anche per il calcio”.

 

A quel punto, hanno ricordato in molti che, a parte un poliglotta, tre giocatori sui 26 convocati da Mancini frequentano un corso di laurea: Matteo Pessina, iscritto alla facoltà di Economia della Luiss; Giacomo Raspadori e Alex Meret, entrambi iscritti al corso di laurea triennale in Scienze Motorie, curriculum Calcio. E un quarto, Giorgio Chiellini, ha da solo due lauree: triennale in Economia, con 109/110; magistrale in Business administration, con lode e menzione.

 

Ovviamente l’invenzione di un percorso specifico per professionisti del pallone, come quello che stanno seguendo Raspadori e Meret, agevola molto le cose. In Scienze motorie si è laureato anche Dries Mertens, e Robert Lewandowski la laurea di Educazione fisica in Polonia l’ha presa addirittura con una laurea su sé stesso. “RL9, il cammino verso la gloria”, il titolo. Indubbiamente, doveva avere molto materiale di prima mano…

 

Prima ancora di andare all’Università sono nate scuole medie superiori apposta per i giovani dei vivai, che possono così frequentare le lezioni e allenarsi nello stesso luogo. Per esempio, il Liceo Scientifico delle Scienze applicate della Juventus. Oppure, per la Roma, la sezione staccata presso Trigoria dell’Istituto scolastico internazionale Giovanni Paolo II: pure liceo scientifico con indirizzo sportivo.
Come nel caso proverbiale del Profeta dell’islam alle prese con l’orografia: se il calciatore ha difficoltà a trovare il modo per arrivare alla cultura, allora dev’essere la cultura a trovare il modo per arrivare al calciatore. E non solo in Italia, abbiamo visto.

 

Gerard Piqué, per esempio, oltre a 34 trofei e al ménage con Shakira ha nel suo palmarès un Master in Business, media, sport e intrattenimento a Harvard. Mentre il direttore generale dell’Ajax, Edwin van der Sar, a parte essere stato uno dei migliori portieri della storia del calcio e il secondo calciatore con il maggior numero di presenze nella Nazionale olandese, ha anche una laurea in Sport managment.
Vero è che pure Chiellini la sua lode in Business administration all’Università di Torino l’ha presa con un lavoro basato sul “modello di business della Juventus in un benchmark internazionale”. Sullo stesso filone ci sono Lorenzo De Silvestri, con una laurea in Economia e management dello Sport, e Massimo Oddo, con una in Scienze giuridiche e manageriali applicate allo Sport. Mentre entrambi i percorsi li ha intrapresi Juan Mata con la doppia laurea in Scienze dello Sport e in Managment.

 

Ma Chiesa, oltre che in inglese, è versato anche in Fisica. Dice, anzi, che se non avesse fatto il calciatore gli sarebbe piaciuto studiare il Big Bang e i Buchi neri. E Pessina, Economia a parte, ha ereditato la passione per il latino da una nonna professoressa. “Gutta cavat lapidem”, è il suo motto preferito. E’ diventato virale anche il racconto di quando andò all’Università per fare un esame di Statistica e dovette tirare fuori il badge, perché un custode evidentemente non  tifoso non lo riconobbe. Uno che invece per giocare non ha potuto fare l’Università come avrebbe voluto è Salvatore Sirigu: figlio di una professoressa e maturità scientifica. In compenso conosce il frances, ed è un grande divoratore di libri.

 

Anche senza specializzazioni sportive, l’Economia sembra comunque attrarre molti calciatori. Tra i laureati Cesc Fabregas, Xabi Alonso, Yuto Nagatomo, Nigel de Jong, Erjon Bogdani, Oliver Bierhoff, Vincent Kompany. Al Diritto si sono dedicati Adrian Mutu (anche laureato in Scienze dello Sport), Angelo Ogbonna (dottorato in Giurisprudenza), Guglielmo Stendardo (nel 2014 ha passato l’esame per l’abilitazione da avvocato), Fabio Pecchia, Christian Puggioni. In Matematica si sono laureati Glen Johnson e Jean-Alain Boumsong. In Ingegneria Arsène Wenger e Manuel Pellegrini: il primo parla anche sei lingue, e mettendo il tutto assieme alle sue esperienze di calciatore e allenatore ha fatto da consulente per la costruzione dello stadio Emirates.

 

Funambolico il curriculum di Lamberto Boranga: portiere in squadre come Fiorentina, Parma, Cesena, Perugia e Reggiana, ma ancora attivo in Terza Categoria fino ai 76 anni;  primatista italiano di salto in alto di atletica over 45, over 55 e pre 65 e di salto triplo over 65; primatista mondiale di salto in lungo over 60; campione del mondo di salto in alto nella categoria over 70; doppia laurea in Biologia e in Medicina. Percorsi singolari sono poi quelli del russo Andrej Arshavin, dottore in Fashion design; quello del serbo Željko Brkic, laureato in Storia con una tesi sulle civiltà minoica e micenea; di Luca Mora, capitano della Spal con la passione per la Filosofia e per Feuerbach.

 

Sembra strano, perché lo stereotipo è quello del calciatore ignorante che si sposa con la “velina” più ignorante di lui. Ma viene da ben indietro nel tempo. “Personaggi come il romano Fulvio Bernardini venivano indicati come un’eccezione”, ricordavano per esempio Antonio Papa e Guido Panico nella loro “Storia sociale del calcio in Italia”: un piccolo classico la cui prima edizione risale al 1993. “Laureatosi nel 1928 all’Università Bocconi di Milano, Bernardini era l’unico giocatore di rilievo in possesso di un titolo di istruzione superiore”, spiegano. Per questo lo chiamavano anche “dottore” e “professore”, oltre che “Fuffo”.

 

Classe 1905, romano di famiglia agiata, Bernardini aveva debuttato a 14 anni con la Lazio: semplicemente perché quando era andato a fare un provino con la Fortitudo aveva trovato il cancello chiuso. In origine portiere, a 16 anni passò a fare l’attaccante: non è chiaro se per avere incassato quattro goal in una partita con il Naples, o su pressione degli apprensivi genitori per essere svenuto dopo uno scontro in un Fortitudo-Lazio. Ma comunque quando nel 1923 andò in finale con il Genoa fu notato. Il 22 marzo 1925 fu il primo giocatore non solo romano ma di tutto il centro-sud ad andare in Nazionale. E l’estate successiva andò all’Inter, dopo una contesa con la Juventus che fu uno dei punti di partenza del calcio mercato in Italia. Per spuntarla, appunto, i nerazzurri gli offrirono come bonus un posto in banca e la possibilità di studiare economia alla Bocconi. Solo dopo ottenuto il titolo, nel 1928, tornò nella capitale, dove intanto la fusione tra Fortitudo, Alba e Roman aveva fatto nascere la Roma.

 

Passato a centromediano, da capitano e bandiera dei giallorossi Bernardini fu uno dei giocatori del famoso 5-0 alla Juventus, il 15 marzo del 1931. In realtà poi l’economista non lo fece mai, ma quel titolo gli dava un vezzo da intellettuale, da cui le sfottiture di Gianni Brera nella sua “Storia critica del calcio italiano”. “Fuffo nostro ha appena scritto un dotto libro sul wm inglese, di cui è fervido zelatore”, “dopo aver lasciato Roma, ha giocato nella Mater portandola dalla C alla B. Suo suocero è l’anglo-napoletano Guglielmo Giannini, noto autore drammatico, fondatore dell’Uomo Qualunque. Su questo giornale, che avrà larga fortuna nei giorni ambigui della liberazione, Bernardini scrive di sport in generale e di calcio in particolare. Il suo stile è fluido, il suo tono non consente dubbi di sorta. Se non siamo al Vangelo, poco ci manca”. Secondo Brera “predicava male e razzolava benissimo” per disprezzare il catenaccio pur praticandolo da allenatore. Sarà il primo tecnico a vincere  lo scudetto con due squadre diverse: la Fiorentina nel 1955-1956 e il Bologna 1963-1964, anche prime squadre non-torinesi e non-milanesi ad aggiudicarsi i Campionati italiani di calcio nel Dopoguerra. E tra 1974 e 1977 finirà anche in Nazionale. Ma forse Brera era anche invidioso, proprio perché confessava che lui al calcio giocato aveva rinunciato perché a conciliarlo con lo studio proprio non ci riusciva.

 

Contemporaneo di Bernardini, con immagine di calciatore colto, fu anche Annibale Frossi, detto ai suoi tempi “Dottor Sottile”. Friulano di origini ungheresi, figlio di un medico morto prematuramente, la sua immagine di “secchione” era accentuata da una miopia che lo costringeva a giocare con gli occhiali assicurati da un elastico. Sempre Brera osserva che proprio per via di quelle lenti “non aveva gran tocco di palla ed era scarso in acrobazia”, e che in campo veniva spesso bullizzato. Il popolano e sanguigno Peppino Meazza, che pure da ragazzino era stato scoperto e segnalato proprio dall’intellettuale Bernardini, gli dava del “brocchett”. E una volta in un Juventus-Inter, racconta sempre Brera, “il bisbetico Varglien I gli strappò gli occhiali, durante una confusa fase di gioco, e glieli calpestò con tanta applicazione da ridurli a un pizzico di vetrini”.

 

Attenzione, però! Anche il fiumano Varglien I era iscritto all’Università, e assieme a Bernardini fece parte della squadra che nel 1928 disputò a Roma i primi campionati mondiali universitari. Con loro si distinsero anche il livornese Alfredo Pitto e l’allora interista Luigi Allemandi, che era iscritto pure lui a Economia. Tornando a Frossi, prima dell’Inter era stato nell’Udinese, nel Padova, nel Bari e nell’Aquila, e il suo trasferimento dai bianconeri friulani ai biancoscudati del Padova anche dopo l’acquisto fu ritardato apposta per dargli il tempo di prendere la maturità classica. Con l’Ambrosiana vinse i due scudetti del 1938 e 1940 e con la Nazionale il torneo olimpico del 1936, di cui fu capocannoniere con sette reti. Ma ciò non gli impedì di prendere la laurea in Legge, anche se solo nel 1941, per mantenere una promessa fatta alla mamma.

 

Dopo aver finito di giocare divenne capufficio all’Alfa Romeo. Uno dei dirigenti, però, era anche presidente del Luino. In pratica gli impose di tornare al calcio come allenatore, e ci rimase per vent’anni: anche con Torino, Inter, Genoa, Modena e Triestina. Infine passò al giornalismo sportivo, anche per il Corriere della Sera, la Stampa il e Giornale. Come tale divenne amico di Brera, con cui condivideva l’idea che il risultato perfetto fosse lo 0-0. E forse per questo la “Storia critica del calcio italiano” ne fa quasi il prototipo del calciatore istruito. “Uno dei più colti e originali tecnici del nostro calcio”, lo definisce.
“Il filosofo” per eccellenza però fu Manlio Scopigno: nato in Friuli da padre Guardia forestale di origine reatina; cresciuto a Rieti; tra 1946 e 1954 calciatore di Rieti, Salernitana, Napoli e Catanzaro; poi allenatore del Cagliari dello scudetto del 1970. Aveva studiato Pedagogia alla Sapienza, ed era marito di una professoressa di Lettere e padre di una professoressa di Inglese. Il soprannome gli era venuto da un giornalista che una volta aveva fatto venire a casa sua per una intervista, per poi però mostrargli la sua libreria e uscirsene: “Non parliamo però sempre di calcio. Meglio di Filosofia. Che autori preferisce? Qua ho Kant, Hegel…”.

 

Scopigno, Varglien e Pitto ci ricordano che se di studenti universitari nel calcio italiano degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta ce ne erano pochi, Frossi e Bernardini non erano i soli. Tant’è che, per risolvere il problema del dilettantismo olimpico, tutta di universitari fu la squadra con cui il c.t. Vittorio Pozzo vinse  la medaglia d’oro del 1936, e pure di universitari fu l’altra squadra mandata alle Olimpiadi del 1948. Brera scrisse che per scovarli Pozzo li aveva cercati anche nelle serie inferiori, e nella squadra del 1936 ve ne erano anche di Spezia, Pisa e Viareggio.

 

Come spiegano però Papa e Panico, in realtà avere le squadre piene di studenti era stato “un fatto del tutto normale fino a un decennio prima” di Bernardini. E’ con il passaggio dal dilettantismo al professionismo che diventano “rari gli studenti universitari tra i giocatori del campionato di prima categoria”: a parte Allemandi, loro citano l’attaccante bolognese Giuseppe Della Valle. “Meno infrequenti nel nord erano i diplomati negli istituti di istruzione tecnica: i campioni dell’estrema difesa della nazionale e della Juventus Giampiero Combi, Umberto Caligaris e Virginio Rosetta erano ragionieri”.  Insomma, è nella “seconda generazione del calcio” che si afferma l’immagine di un più basso livello di istruzione, che resta a lungo. Tant’è che fra gli anni Settanta e Ottanta fanno notizia i laziali Giuseppe Wilson e Lionello Manfredonia che prendono la laurea in Giurisprudenza, e il brasiliano Socrates che a parte il nome da filosofo si presenta anche con una laurea in Medicina, oltre che con un pedigree di impegno politico nella transizione del Brasile dal regime militare alla democrazia.

 

Insomma, in qualche modo l’evoluzione ultima è un ritorno alle origini. Come avrebbe detto l’hegeliano Scopigno, una sintesi finale tra una tesi di colti dilettanti dell’inizio e una antitesi di incolti professionisti di un lungo periodo successivo.

 

E adesso, vediamo se si laureano pure campioni d’Europa.