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Inadatto a isolare il detenuto e a indebolirne la leadership: perché ripensare il 41-bis

Giacomo Papi

La funzione di questo regime carcerario è impedire ai capi di avere complici e soldati. Per questo, tra i criteri per giudicarlo, l’efficacia va tenuta in considerazione quasi quanto l’umanità. E la vicenda di Cospito solleva molti dubbi sul fatto che sia utile a raggiungere lo scopo

Il regime carcerario del 41-bis non dipende dalla gravità del reato, non è cioè una pena accessoria che punisce crimini particolarmente gravi (e questo anche se i reati a cui si applica sono particolarmente gravi: associazione mafiosa, terrorismo, eversione, tratta di persone, acquisizione di schiavi e riduzione in schiavitù, induzione alla prostituzione minorile, produzione ed esibizione di materiale pedopornografico, stupro di gruppo, sequestro di persona). Il 41-bis non serve neppure a impedire che il condannato compia nuovamente i reati di cui è stato giudicato colpevole. L’obiettivo del 41-bis è unicamente isolare il detenuto o la detenuta, impedendogli ogni contatto con il mondo esterno e all’interno del carcere, in modo da rendere impossibile l’organizzazione o riorganizzazione di azioni criminali, stringendo alleanze o reclutando discepoli a cui ordinare azioni violente. In altre parole, nelle intenzioni di chi lo ha concepito e certamente semplificando, la funzione del regime carcerario del 41-bis è impedire ai capi di avere complici e soldati. Per questa ragione, tra i criteri per giudicarlo, credo che l’efficacia vada tenuta in considerazione quasi quanto l’umanità. 

Perché è evidente che isolare completamente un essere umano dal resto del mondo sia una forma di tortura e, anzi, che rappresenti un equivalente simbolico della condanna a morte (soltanto i morti non hanno contatti con gli altri). Ma è anche vero che, prescindendo dalle sacrosante questioni di umanità di cui si discute, la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico insurrezionalista che da 106 giorni è in sciopero della fame per protestare proprio contro il 41-bis – solleva molti dubbi sul fatto che il 41-bis sia utile a raggiungere lo scopo per cui è stato creato. Come si sa, a sollevare i dubbi più diretti e gravi è stato alla Camera uno dei più accaniti sostenitore dell’efficacia del “carcere duro” in generale e nel caso di Cospito in particolare: Giovanni Donzelli, deputato e responsabile organizzativo di Fratelli d’Italia oltre che vicepresidente del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Donzelli ha detto in Parlamento, peraltro basandosi su informazioni riservate ricevute dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro: “Cospito ha incontrato mafiosi e il 12 gennaio 2023, mentre parlava coi mafiosi ha incontrato anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando che andavano a incoraggiarlo nella battaglia. Allora voglio sapere, questa sinistra sta dalla parte dello stato o dei terroristi con la mafia? Lo vogliamo sapere in quest’Aula oggi”. Ma come? Come si fa a sostenere l’efficacia e la necessità del 41-bis, se in carcere Cospito è comunque riuscito ad avere contatti con un casalese, un ’ndranghetista e due mafiosi siciliani? Se quello che Donzelli ha detto è vero – e non c’è ragione di credere che non lo sia – è la dimostrazione lampante che il 41-bis non funziona e che per impedire che le organizzazioni criminali possano continuare a essere guidate dal carcere, sarebbe più intelligente e civile sforzarsi di immaginare una soluzione più efficace e umana.

Ma c’è un altro dubbio, più indiretto e profondo, che la vicenda di Alfredo Cospito solleva. Il fatto è che esistono almeno due modalità di leadership, e il regime del 41-bis agisce, peraltro malamente, come abbiamo appena visto, soltanto sulla più superficiale, quella che si basa sugli ordini – sulla presenza del capo e sulla paura e l’amore dei seguaci – mentre può addirittura avere un effetto deleterio sul tipo di comando che si basa sull’esempio e sul martirio del capo, perché può rafforzarne la leadership e la popolarità. L’assenza del capo, la sua prigionia e la sua sofferenza sono da sempre vettori potentissimi nell’alimentare l’azione dei seguaci, la loro determinazione e coesione. Ed è quello che sta precisamente accadendo. A me non pare che la protesta di Cospito possa essere definita non violenta, come ovunque si legge. Lo sciopero della fame è una forma di violenza deliberata e a lento rilascio che si rivolge contro se stessi, e quindi, come tale, è da considerarsi violenza. Ma è innegabile che da decenni, almeno in Italia, il mondo dell’anarchia insurrezionalista non riusciva a lanciare una “campagna simpatia” più riuscita e un’azione di reclutamento più efficace. Tutto questo è avvenuto grazie al 41-bis, non nonostante il 41-bis, una misura che nella sua inutile atrocità si sta dimostrando insufficiente non soltanto a impedire i contatti del detenuto, ma anche a indebolirne la leadership, che invece rafforza.

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