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L'Italia, il suo ambiente e il nostro adattamento

Antonio Pascale

Borghi spopolati e città da governare, terre abbandonate e fertili pianure: l’osso e la polpa del paese, scriveva un economista oggi dimenticato, Manlio Rossi-Doria. A spasso tra Marche, Calabria, Sicilia e Sardegna si capisce come, lavorando un poco sulla polpa, anche l’osso si potrebbe sistemare

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Nel 1958 l’economista Manlio Rossi-Doria propose una metafora niente male: l’Italia – scrisse – è fatta di osso e di polpa, ossia di zone interne, con terreni non fertili, tra l’altro in gran parte abbandonati, anzi, si tratta di interi paesi spopolati dall’emigrazione interna ed esterna, e di contro zone di polpa, poche pianure fertili, agricole e industriali. Manlio Rossi-Doria (1905- 1988) è diventato ahimè un economista di osso, i suoi eccellenti, interessanti studi, sono tutt’ora poco citati, un po’ dimenticati come i famosi paesi delle zone interne: tranne qualche convegno e un’aula dedicata a lui, a Portici, là dove si studia economica agraria (Rossi-Doria si laureò a Portici e qui insegnò), fatto salvo qualche libro che ne raccoglie gli studi, nemmeno facile da trovare (La polpa e l’osso. Agricoltura, risorse naturali e ambiente, L’Ancora del Mediterraneo) e nonostante una vita politica e civile intensa, prima nel Pci poi nel Psi, e le sue considerazioni economico-agrarie, frutto di incontri e  amicizie con i grandi del meridionalismo, insomma una vita civile, politica piena di passione, roba che almeno un documentario su Sky o su Rai Storia sarebbe d’obbligo, insomma Manlio Rossi-Doria come dicevamo, purtroppo, è finito del dimenticatoio.

 

Il che è strano, no? Cioè, è strano che Rossi-Doria sia dimenticato, proprio in un paese come il nostro, dove di agricoltura si parla costantemente. Il valore della terra e i giovani che tornano alla terra sono tra i discorsi suggestivi ai primi posti nelle agende dei politici (via Coldiretti, naturalmente). Non parliamo del bio, ché grazie a fortunate contingenze, nonché a quel po’ di inventiva che ci rimane e senza dimenticare il fondamentale traino delle esportazioni via Germania, siamo ancora benestanti, tanto da permetterci costose e ben finanziate nicchie di mercato che farebbero piacere a Big Luca e insomma noi non rischiamo un caso Sri Lanka. Senza parlare della piramide demografica, secondo alcuni ormai tristemente, irreversibilmente rovesciata, e cioè pochi nati, tanti 45enni e sempre più anziani come base, con quell’indice di fecondità che si attesta a 1.3 (indice negativo condiviso con Spagna e Romania), quindi se anche tutti fossimo catecumenali e per amore di fede e non so cos’altro, le donne facessero tantissimi figli, lo stesso non riusciremo a recuperare (sotto la soglia di 1.5 non c’è speranza).

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Insomma, in un paese come il nostro, con le suddette caratteristiche, dove si contano sulle dita le pianure sulle quali provare a fare un minimo di agricoltura professionale (pianura Padana, piana del Fucino, piana del Sele, piana di Sibari) sono invece innumerevoli le asperità dell’osso, vuoi per stanchezza degli agricoltori, ormai invecchiati e con troppi calli e mani rovinate dall’artrosi, per le difficoltà economiche dovute alle aziende molto piccole e quindi devi prendere il trattore, arare pochi moggi di terreno, poi riprendere il trattore, scollinare, trovare un altro tuo moggio, ararlo, e poi raggiungere il terzo pezzettino di terra di tuo proprietà, frutto dell’eredità di famiglia, nonché di maledizioni varie dei tuoi bisnonni, e fare i lavori anche lì: ci pensate  a quanto si spreca? Quanta CO2 in atmosfera? Per ottenere raccolti non così abbondanti!

 

Poi ci lamentiamo dei prodotti che arrivano dall’Egitto e dal Marocco. Non ho mai capito perché tanti della sinistra multiculturale e cosmopolita salvano, per fortuna, le persone in mare e poi vogliono il prodotto locale a chilometro zero, preferibilmente del contadino fuori dal raccordo anulare, che chissà perché lui, il fuori raccordo, avrebbe terra più fertile e migliore professionalità degli altri. Insomma, da una parte salvi le persone, dall’altra metti le barriere al commercio e alla concorrenza, sia pure per le clementine, i pomodori, l’ulivo e altre culture di pregio che appunto desideriamo ed esportiamo, ma quando dobbiamo importarle allora no: non sono buone, viva l’Italia, viva il contadino di fuori raccordo anulare, pure cattolico, tanto che si potrebbe fare remix sulle note della più celebre dichiarazione di Giorgia Meloni.

 

Poi la destra in fatto di agricoltura non è che abbia idee diverse. Prima i prodotti italiani oppure aiutiamoli a casa loro. E va bene, immagina se i tedeschi dicessero facciamo a meno delle mele italiane, daje, cominciamo a coltivarle noi, sulla scia degli olandesi che con pochissima terra e sotto serra, hanno messo su coltivazioni ad atmosfera controllata, con poca, scarsissima chimica.

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E con questo sono diventati il quinto, dico il quinto produttore, nonché buoni esportatori, di pomodori. Se tutti chiudessero i confini in nome di una presunta superiorità dei propri prodotti, fossero pure crauti o alghe, insomma noi dei nostri prodotti estrosi e bizzarri e delicati e profumati, roba da chef prelibati e sciccherie varie, di questi prodotti che ce ne dovremmo fare? Ci mangiamo in nome dell’Italia first tutte le mele prodotte in Val di Non? Senza esportazioni, sarebbero svariati chili a testa al giorno: non so se una scorpacciata così abbondante toglie il medico di torno o ci manda al pronto soccorso o alla neuro deliri. Per non parlare di aiutiamoli a casa loro. Che formula è? Ci aiutano se il commercio è reso più facile, più giusto e più equo, cioè, vale per loro ma anche per noi, no? 

 

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Un paese come il nostro dove parliamo parliamo e insomma non abbiamo mica capito la base su cui lavoriamo, cioè la polpa e l’osso, perché chiedi in giro chi erano i Beatles lo sanno tutti ma chiedi chi era Manlio Rossi-Doria e non lo sanno nemmeno gli economisti, e tuttavia parliamo costantemente di agricoltura, litigando e implorando o la vetustà come simbolo di genuinità o la modernità, dimensione tra l’altro di difficile accesso, perché richiede investimenti e dunque soldi. Provate ad andare in banca con la carta d’identità con su scritto contadino, e insomma chiedete soldi perché avete un piano aziendale nuovo e particolare, ecco, vedete cosa vi rispondono in banca.

 

In un paese così, in cui i contendenti si azzuffano sull’agricoltura e non sanno nemmeno la differenza tra zappa e vanga, in paese dove, per dirla alla Christian De Sica, d’estate vedi solo cafoni che non si stancano di pubblicare a raffica selfie in discoteche tutte uguali e su motoscafi di lusso, in un paese che entra in campagna elettorale e quelli che andavano d’amore e d’accordo ora stanno per scatenare l’inferno, ignorando gli allarmi energia, forza essenziale per poter produrre… In un paese così, dove il cibo è imperante e tutti sono esperti e tutti sono cafoni su barche di lusso, ecco, nella sostanza, dove si può andare in vacanza?

 

Vai nell’osso o nella polpa? Rischi le asperità dell’osso e di incontrare quelli che ci vivono e sono delusi o molto contenti perché tanto sono anziani e gli vuoi togliere la semplicità del bar e dello scopone o della passatella con birra? O incontri quelli che ci vogliono vivere da subito, anzi, come spiega con dolce ironia Michele Masneri, sono in cerca delle famose case all’asta, prezzo base un euro (senza considerare il forte e successivo quanto necessario investimento per mantenere quella casa per almeno dieci anni), o perché sono intenzionati entro i prossimi mesi a scoprire il loro io autentico. E naturalmente c’è da chiedersi dove stava finora questo io autentico, in quale zona nascosta del cervello, e perché si è nascosto, in che senso è autentico, e perché non si potrebbe palesare pure in città, ma invece, al contrario, necessità di un borgo tipico?

 

Insomma, vacanza nell’osso? Che poi ti tocca fare un po’ di poesia sui luoghi dell’abbandono? Poesia, nostalgia, riflessioni sullo stile di vita contemporaneo, fingendo di ignorare l’ascesa delle megalopoli? Perché insomma, guardiamo i dati: nel 1800 meno del 2 per cento della popolazione mondiale viveva in città (eravamo un miliardo scarsi). Nel 1900 pochissimi passi avanti, siamo al 3 per cento. Ma nel 1950 eravamo al 30. Nel 2007 (eravamo ormai sette miliardi) più della metà della popolazione viveva in città. Per non parlare dello studio delle Nazioni Unite, pubblicato nel 2016, che ha individuato ben 512 città con una popolazione superiore al milione, 45 città con popolazione superiore a 5 milioni e 31 con popolazione superiore ai 10 milioni.

 

Ora che dobbiamo fare? Dare prerogativa ai borghi e visitarli d’estate e pensare a quel giorno futuro in cui lì ci trasferiremo – tra l’altro non so come, mancando qualsiasi infrastruttura tecnologica e la buona volontà politica di rendere lo smart work una realtà – e liberarci dunque da questa condizione di servilismo lavorativo ottocentesco già messo alla berlina da Kafka? (nella sostanza il capo deve aprire la porta e chiederti: che stai facendo? Oppure il bar sotto l’ufficio deve preparare il numero giusto di tramezzini sennò fallisce e di questi tramezzini uno su dieci è contaminato perché l’avete mai visto il barista che prepara la bella merendina? Con l’orologio al polso nonché braccialetti e anelli che nemmeno Tozzi ce l’ha? Uno così pensate che si lavi le mani? E dunque una volta al mese ti intossichi).

 

Un futuro – ripeto, non so come – in cui noi occuperemo i borghi facendoli rinascere, però con un numero di persone molto limitate, altrimenti il borgo diventa peggio del condominio alla Magliana. Oppure ci occupiamo della città? Capendo come recuperare le acque reflue? Come gestire i rifiuti senza farsi prendere per pazzi quanto si pronuncia la parola termovalorizzatore, o riflettere sulle possibilità di riciclare l’urina con nuovi e innovativi wc, operazione molto complessa ma grazie alla quale potremmo recuperare un po’ di azoto, fosforo e potassio da rimettere in circolo e risparmiare sui concimi così da far più belli e più superbi di pria i nostri amati prodotti agricoli.

 

Osso o polpa, a cosa dedichiamo le nostre osservazioni? Visto che avevo un po’ di viaggi di lavoro ho pensato a una terza via, mi sono detto: camminando e vagando, me ne vado a vedere gli alberi più antichi d’Italia. Magari avvicinandomi a loro, distrattamente. Come in un romanzo di Sterne meglio seguire gli affluenti e non il (monotono) corso principale, cioè l’orribile trama, fonte di ogni dimensione reazionaria, caposaldo di tutte le scuole di scrittura, pietra filosofale dei motivatori onnipresenti sui social. I quali ti dicono in sostanza che il problema è dentro di te, ignorando quanto di meglio Susan Sontag ha scritto su malattia e metafora, quindi o ti uccidi e risolvi il problema, oppure lavori su di te, ma attenzione, con le solite regolette della trama da loro snocciolata – tralasciando il fatto che un aspetto fondamentale del problema è che non vuoi lavorare su di te: ti mancano i geni, è venuto meno, quando era necessario, l’ambiente adatto, e pure la voglia.  

 

C’è un motivatore che insegna zen e yoga, con i capelli lunghi e il viso angelico, e risponde sul suo profilo Instagram alle domande dei cittadini impauriti della vita. E una volta ha spiegato cosa succederà dopo la morte. Con tanta sicurezza che mi sono sentito male, ho provato un impulso da psico killer che ho dovuto prontamente reprimere immergendomi in altre faccende, come lavare i piatti: una pratica meditativa sottovalutata ma tanto utile, perché ti ritrovi almeno con la cucina pulita, e non è poco. Il motivatore diceva con un antipaticissimo sorriso che noi vibriamo e nella sostanza quando moriamo se siamo stati bravi vibreremo in una dimensione di benessere, altrimenti vibreremo male e non ha detto quanto poi, dantescamente e dunque sadicamente, come sosteneva Cesare Garboli, di passaggio in passaggio potremmo finalmente risuonare al meglio e universalmente, paradisiacamente.

 

Insomma, perlomeno per questa estate, tra osso e polpa, intellettuali e cafoni, non volevo vibrare su corde umane così ovvie e provinciali (inteso come concezione di vita, le vibrazioni…). Così, vista e considerata la lunga premessa, mi sono detto: vado per alberi monumentali.

 

Gli alberi mettono in collegamento terra e cielo? Sì! Dalle radici alle foglie passa tutta la nostra vita, dalla fotosintesi arriva amido per le piante e glucosio per noi, e poi acqua e ossigeno, siamo solo nipoti delle stelle – senza per questo oltraggiare minimamente la canzone di Alan Sorrenti – ma figli delle piante. Facciamo un omaggio di un figlio alla madre/padre, alla famiglia vegetale che ci rende umani: alberi. La foresta di tassi, a Sos Nìbberos. Ed eccomi: mi hanno detto di aspettare l’autista in aeroporto, a Cagliari, che gentilmente mi avrebbe portato a Lotzorai, da lì, poi in macchina, dopo una presentazione, tempo due ore e qualcosa, sarei andato a vedere la foresta di tassi. Non c’era l’autista. Ce n’erano tanti, ma non il mio. Ho chiamato. Mi hanno risposto: sta arrivando. Aspetto. Che tristezza, tutti gli autisti se ne vanno e il mio non arriva. Mi siedo, sperando di risuonare su una nota giusta, ma mi sto innervosendo. Mi rialzo, mi prendo un gelato, che c’è di meglio di un buon cono quando uno si sta innervosendo? Lo scarto, ma sul più bello mi cade il cono, mi resta in mano il pezzo di cono ripieno di cioccolata. Voi su che nota risuonereste? In ossequio al motivatore di cui sopra, ho cercato di non innervosirmi, casomai avesse ragione e muoio e sono dannato perché risuono su una nota degli 883, quindi mi sono ricomprato il gelato che però causa caldo (perché il cambiamento climatico è un fatto!) mi è caduto sulla camicia. Cercando di risuonare al meglio, vado nella zona autisti: magari è arrivato. Vedo uno con coppola e cartello bianco ben esposto: sul cartello non c’è scritto nulla. Bah, mi chiedo, chi aspetterà questo? L’uomo invisibile? Gli passo accanto e noto che dietro il cartello bianco c’è il mio nome e quello della persona che doveva prendere insieme a me. Aveva il cartello al contrario. Mi presento, gli dico di girare il cartello. Mi risponde ma non capisco. Una specie di mugugno. Mi dovete credere, sono stato in Marocco, a Rabat e l’autista che mi ha preso, pur parlando il dialetto magrebino, si è fatto capire molto bene, e infatti mi ha raccontato non solo la resistenza storica dei marocchini alle invasioni arabe, ma mi ha illustrato il viale di ingresso di Rabat, un sogno, al tramonto, pieno di ficus potati benissimo, ho pensato e anche dopo, visitando la città, con un cimitero sul mare, lapidi che sporgevano dalla roccia e facevano capolino dalla sabbia che mi trasferisco a Rabat per trovare il mio io autentico. Mica nei borghi italiani dove il segnale non si prende, tranne quello del motivatore angelico. Ovviamente non ho preso residenza a Rabat, anche se consiglio a tutti quelli che conosco di andarci, basta col deserto e zone turistiche e finte casbah, una città moderna e bella, finalmente.

 

Va bene, mi sono ritrovato con questo autista con cartello al contrario che parlava un sardo incomprensibile. Cioè con mugugni. L’unica cosa che sono riuscito a capire è che se ne andava, non aspettava l’altro ospite che era su un altro aereo e portava ritardo. Dopo un litigio con lui, avvenuto tramite gesti e mugugni, cercando anche di non alimentare orribili pregiudizi sui sardi, sono riuscito a convincerlo e abbiamo aspettato l’altro ospite, ci siamo imbarcati nel Van e davvero ci siamo resi conto e dunque inteneriti che questo autista non sapeva come uscire dall’aeroporto. Durante il tragitto non ha detto una parola, si è solo fermato a un certo punto al bar e indicando qualcosa ha mugugnato, quindi ho capito che voleva un caffè. Gli ho offerto il caffè. 

 

Questo è l’osso, ho ripetuto al sindaco di Lotzorai, spiegando, in riva al mare – una pineta meravigliosa, viatico di felicità per me e spiaggia appena toccata dal vento – l’accaduto. E no, mi ha risposto, questa è polpa ma che sa di osso, o meglio non ancora spolpata, la vera Sardegna, quella che bisognerebbe salvaguardare, dove è vero, l’italiano non è ancora arrivato e nemmeno la modernità, ma dove noi con la nostra amministrazione stiamo cercando di portare un po’ di cultura, e non solo sagre. Di sagre ce ne sono a centinaia, e noi vogliamo un festival, un festival dove chi viene al mare può anche sentire qualcosa di diverso, invece di parlare dei Vip della Costa Smeralda.

 

Siccome la pineta ha il suo fascino e mi ricorda l’infanzia quando, a suo tempo, ormai 45 anni fa, attraversavo la pineta di Castelvolturno e mio padre mi obbligava a togliermi le scarpe per sentire gli aghi di pino sotto i piedi e in questo passaggio, nell’arco di tempo necessario per arrivare sulla spiaggia (all’epoca piena di dune e di orchidee), mi sentivo felice e il tempo si dilatava, e siccome la pineta – dicevo – mi mette di buon umore, mi sono messo a chiacchierare con un antropologo anarchico che un po’ come me era fissato per le acque reflue e per la forma della città e poi con un altro antropologo che a proposito di alberi mi ha detto: la Sardegna arriva all’appuntamento con la modernità nell’800, dopo quattro secoli di feudalesimo iberico, che aveva cancellato l’avanguardia politica e sociale degli antichi sardi. Ora, devi sapere che le popolazioni tradizionali hanno con il bosco una relazione funzionale, basata sulla consapevolezza diretta: se tagli il bosco, poi ti mancherà la legna per gli attrezzi, per gli infissi, per il camino, persino per cuocere il pane, oltre alla riserva di alimentazione che il bosco ha per uomini e bestiame, a parte poi le dimensioni sacrali e simboliche del bosco, che è un organismo vivo, luogo dove albergano gli spiriti degli antenati. A parte questo i Savoia privatizzarono la terra. Che successe? Successe che i boschi furono prima demanializzati e poi venduti dallo stato piemontese ai privati, speculatori. Guarda – mi ha detto – le statistiche sul disboscamento dell’800 sono spietate. La Sardegna entra nell’800 ricca di boschi, con oltre 500.000 ettari di superficie forestale, e ne esce, alla fine del secolo, ridotta a meno di 100.000 ettari. Oggi ha recuperato ma le statistiche non tengono conto che in gran parte quello che chiamiamo bosco comprende anche la vegetazione degradata e involuta, derivata dall’abbandono dell’agricoltura.

 

A proposito di agricoltura non so se siete mai stati all’orto botanico di Palermo. Lo dirige Paolo Inglese, il quale mi ha detto due cose: che devo andare assolutamente a vedere il Castagno dei Cento Cavalli, a Sant’Alfio. La seconda cosa è che mi devo occupare del fico d’India: migrante al contrario – mi ha specificato – nasce in Messico e poi diventa cosmopolita, anzi la seconda patria è l’Italia. “Ci ha fatto caso che la bandiera del Messico moderno e quella della seconda patria del fico d’India, l’Italia, sono identiche, se non fosse per quell’immagine di fico d’India, aquila e serpente che campeggia sul bianco messicano?”.

   

   

Ma poi il fico d’India è di tutti. Per gli arabi maghrebini è il karmouss, il “fico dei cristiani”, per noi, al contrario è il “fico dei berberi”, per gli ebrei israeliani è “sabra (tsabar)”, che è poi lo stesso termine con cui ci si riferisce agli ebrei nativi di Israele, ma è pure siciliano… ma fate la prova, provate a raccontare a un siciliano che il fico d’India siciliano non è. Non vi crederà e, comunque, dirà, che quello siciliano è diverso, unico e totalmente ignaro delle sue origini meso-americane. Il fico d’India in ragione di questo suo cosmopolitismo si adatta bene, cresce sui tetti, sui cornicioni, con poca pochissima terra. E’ un foraggio eccezionale, solo in Brasile lo coltivano su un milione di ettari per produrre foraggio, lì dove le risorse di acqua limitate non lo consentirebbero. Il frutto invece ha dei limiti: le spie e i semi. Le prime puoi toglierle, ma i semi rimangono e in un mondo che prova fastidio a mangiare due piccoli semi, figuriamoci che problemi ha un frutto che ne ha 250-300! Dalla ricerca sul fico d’India potremmo avere molti vantaggi. Il primo e più evidente è la possibilità di ottenere frutti diversi, con minor numero di semi. Ma l’Italia su questo non ci sente. Vuole il tipico, il naturale, l’autentico, ma sono chiacchiere. L’obiettivo fondamentale è recuperare piante e farle diventare moderne. Qualche esempio? I prodotti nutraceutici dai frutti ai cladodi. Recuperare, in chiave moderna, gli usi storici della medicina azteca di quello che, in fondo, si chiamava “albero delle fratture”, utile quindi a curare le ferite e le fratture.  Ma c’è anche da lavorare sulla funzione agroecologica, lo stock di carbonio, l’aumento di biodiversità in zone subdesertiche. Ma in Italia? Non ci sentiamo. Presi come siamo a vivere di sciocchezze agricole e di fake come natura crea, non pensiamo a questa pianta, pensiamo che sia un relitto dell’agricoltura antica siciliana. Allora che fai? Emigri. Vai a studiare le soluzioni all’estero. E’ più facile fare ricerca in una dimensione internazionale, con paesi europei e nordafricani per i quali questa specie è fondamentale nell’agricoltura di sussistenza, nell’alimentazione del bestiame e nella gestione del paesaggio. Una specie ponte tra continenti, popoli, culture, come poche altre al mondo. Vai a vedere il castagno, e poi fai una cosa, visto che sei in zona, vai in Calabria, vai a vedere i Giganti della Sila.

 

In Calabria, certo, ci sono stato. Ma faccio un salto, perché subito dopo aver visto i Giganti della Sila, sono stato ad Ancona, all’Università di Agraria, dove è finito il mio viaggio estivo, perché lì Bruno Mazzetti si occupa tra le altre cose del miglioramento della fragola e mi ha detto che il mondo si sta dividendo in due, nel primo paese gli abitanti preferiscono la fragola con sapore acidulo, nel secondo paese i cittadini desiderano fragole dolci, anzi dolcissime, nemmeno una punta di amaro vogliono sentire. Il primo paese è il vecchio mondo, Europa e America, il secondo invece sta avanzando a suon di coltivazione di fragole: è la Cina, è l’Asia. Il team di Bruno Mezzetti da anni sta cercando di realizzare cultivar che vadano bene per i due mercati, più dolce e meno dolce. 

 

Ora, fatto strano. Un sentimento di dolcezza è quello che ho provato giorni prima, appunto sulla Sila. Ho cominciato ad avvertirlo quando mi sono allontanato da luoghi caratteristici e più turistici, come Camigliatello Silano: non è la vera Sila, mi dicono alcuni silani che mi hanno invitato a perdermi nell’altopiano, affidandomi al suono e non alle mappe e così, infatti, ho fatto, finendo nei dintorni del lago Ampollino. Forse il sentimento di dolcezza nasceva dal suono del tempo. Che un po’ è vero, visto che i luoghi tradizionali del territorio silano altro non sono che paesaggi disegnati a partire dal IX secolo, con l’appoggio del monachesimo di provenienza orientale. Poi uno dice il lago placido regala al visitatore questo silenzio. E tuttavia non solo, perché il lago Ampollino è un lago artificiale, anzi un serbatoio, ottenuto mediante sbarramento del fiume Arvo che tra l’altro forma anche un altro lago artificiale, il lago Arvo appunto. A cosa serve?  A fare l’idroelettrico. In Sila ci sono molte centrali idroelettriche, tra cui la centrale di Timpagrande, una delle centrali più importanti del sud Italia. Se visitate il sito archeologico industriale Chianette-Timpagrande, vedrete in sovrimpressione vecchio e nuovo. Vi assicuro sarà straniante e struggente vedere sia un reperto della turbina Pelton, un oggetto che lavora trasformando l’energia potenziale dell’acqua (dal bacino a monte della turbina) in energia cinetica senza variazioni di pressione (che è in bella mostra all’ingresso sud del paese di Cotronei) sia le implicazioni geografiche, economiche e sociali che derivano dalle costruzioni degli impianti idroelettrici silani. Perché nel silenzio, tra i larici e i faggi, laghi artificiali e fontane ricoperte da muschi, alcune spettacolari nella loro felina indifferenza a tutto – siccome l’acqua continua a sgorgare, a gorgogliare e borbottare come in una poesia di Palazzeschi – possiamo finalmente far caso all’acqua. Non solo innerva e dà forma ai territori ma serve anche a creare e utilizzare energia: chi ci pensa più alla modernità dell’acqua e all’energia? In Italia come faremmo a fare tante discussioni spesso inutili e controproducenti, come faremmo a risuonare prima e dopo la morte se non avessimo energia a sufficienza?

 

Comunque, mi è salito su questo sentimento di dolcezza, aumentato di grado quando sono arrivato alla riserva naturale per vedere i Giganti della Sila. Sapete, è dolce passeggiare di mattina presto per un sentiero di quasi un chilometro tra 58 pini larici – 40 metri di altezza, diametri e circonferenze maestosi. Le pinacee sono simili a noi, anche loro cercano la luce e infatti i rami crescono più facilmente verso il sole e quindi ci sono dei larici che si abbracciano, romanticamente, perché i rami si orientano verso lo stesso punto e guardando due alberi abbracciati, tutte le mie idiosincrasie sono venute meno, quasi ho vibrato su una nota di dolcezza, ho pensato che l’estate è una stagione dolce e poi, un po’ trasportato dall’onda della dolcezza, sono finito ad Ancona dove Mezzetti mi ha detto, appunto, che la fragola sta dividendo il mondo in paesi aciduli e dolci.

 

Che fai, vai ad Ancona e non fai un salto a Recanati? Non vedi la siepe famosa? Davanti alla siepe mi sono venute in mente alcune considerazioni sull’osso e la polpa, su com’è l’Italia e sul perché presi come siamo dalle polemiche ricorrenti ci dimentichiamo la base su cui costruiamo i nostri sogni. Cerchiamo di livellare le asperità dell’osso con poche e risolutive formulette buone per i motivatori. Ci manda la buona tenuta e il sano realismo.

 

Poi guardando l’infinito e immaginando la carta geografica dell’Italia, ho fatto come l’autista sardo, ho girato il foglio, bianco all’esterno, il mio nome all’interno. Non che cercassi il vero io, mica ci credo. Come non credo ai cambiamenti, soprattutto quelli proposti dai motivatori, siano psicologi di successo, scrittori pedagogici o angelici insegnati zen. Credo agli adattamenti. Cioè, cambia l’ambiente e tu ti adatti, così, davanti alla siepe, ho rivisto le scene dell’estate e del viaggio e il mio cervello si è adattato. Così ho rivisto la foresta di tassi umida e speciale, maestosa e intima, sopravvissuta a diboscamenti forsennati. E il castagno ai piedi dell’Etna, circumnavigare la sua circonferenza, solo con lo sguardo è come fare il giro del mondo.

 

Davanti alla siepe poi, ho rivisto i larici abbracciati. E’ incredibile, anche il volto di mia madre. Colto in un gesto di dolcezza, quando anni addietro, durante una vacanza in Calabria, si prese cura di un bambino con un po’ di problemi, ché era stato bocciato in terza elementare. Possibile, mi sono detto, che di tutte le cose che è stata, ora non ricorda più niente? Ha solo un pensiero ossessivo ricorrente, una paura. Possibile che di tanti viaggi che facciamo, di tante cose che scriviamo e per cui litighiamo alla fine non resta niente, se non qualche ricordo inventato e molte paure reali?  

 

Cosa ho capito di questo viaggio estivo? Oltre al fico d’India, alle fragole dolci, alle dighe necessarie per la nostra energia, al disboscamento sardo e a tutti i miei odi messi in fila? Due cose. Che Giacomo Leopardi e Marcel Proust avevano ragione a dire che la felicità è nell’attesa, nel procrastinare il dì di festa e quando il tempo si può dilatare nel momento in cui vedi le cose con occhi diversi, che poi è un modo per procrastinare la festa e con essa la morte. E poi che dobbiamo essere pessimisti, ora e sempre. Perché il pessimista non è quello che ti rovina la giornata con le previsioni cupe. Il pessimista, se mi si perdona la metafora, vede l’osso che ci struttura: la morte che avanza, l’attesa che svanisce, la ferita che ci consuma, quel senso di insensatezza e di angoscia che ci disturba e che cerchiamo di dunque coprire inventando storie. 

 

Ebbene, se tutti vedessimo l’osso, forse non perderemmo tempo in campagne elettorali massacranti e inutili, in viaggi e selfie ordinari, e discussioni sull’agricoltura e sull’energia che sfiancano, mortificando la parte migliore dell’uomo. Se ci concentrassimo su come cambiare quella poca polpa che abbiamo, forse potremmo modificare la polpa in modo che un po’ l’osso si sistemi, si adatti dentro di noi: una dimensione non certo di purezza, ma di dolore e di infelicità comune, dentro la quale saremo tutti più protetti, in quanto feriti dal viaggio della vita. Di certo tutto questo aiuterebbe, o perlomeno ci accorderemmo su una buona nota, un silenzio o un suono collettivo che risuonerà accanto a noi finché l’energia ce lo permetterà, prima dell’inevitabile buio e della probabile smemoratezza.

 

Ps. Oh, vabbè, poi sono tornato a Roma, ma doveste vedere le cose assurde che dice questo motivatore angelico… ma come si fa…
 

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