Davanti al duomo di Spoleto Simone Montedoro, il capitano Giulio Tommasi dal 2008 al 2016 in "Don Matteo" (foto comune di Spoleto) 

"Uno dei borghi più belli d'Italia". Ma come fanno a esserlo tutti?

Michele Masneri

Erano 50, ora sono più di 300. Difficile sfuggirgli: tra guide, associazioni, app, cresce la ricerca dei paesini incontaminati. Poi ti ritrovi senza internet, costretto a guardare la tv generalista: la stessa che ha creato il mito del neoborghismo. Contro la vacanza a chilometro zero, torna la voglia di città

Prima è una sorpresa, poi un sospetto, infine una certezza. Girando l’Italia d’estate tra le folle che fotografano e i piccini che fanno TikTok sotto la polverosa pieve, ai piedi dell’antico castello, sotto la vetusta cascina, ecco un grazioso cartello, sempre quello: “Uno dei borghi più belli d’Italia”. Fa piacere, ti rassicura, abbiam fatto bene a non andare all’estero, del resto bello come il nostro di paese non ce n’è nessuno. Poi si gira, da Capalbio (“uno dei borghi più belli d’Italia”) si passa a Castiglione del Lago (“uno dei borghi più belli d’Italia”), e pure a Piombino, eccolo, “uno dei borghi più belli d’Italia”. Piombino un borgo? Guardando meglio il cartello, indica Populonia, ma insomma è lo stesso. 

 

Ci si rende conto che a nulla serve cambiare comune, provincia, regione: sei sempre in uno dei borghi più belli d’Italia. Alla fine ci si domanda: esiste un borgo in Italia che non è tra i borghi più belli d’Italia? Si studia, allora, e si scopre tutto un mondo. Diciamo che esistono, in questa nuova Italia dei borghi più belli d’Italia, una costituzione materiale e una formale. Quella materiale è la mania, esplosa chissà quando, del paesino, della fuga dalla città, del borgo insomma. La costituzione formale del neoborghismo nasce invece vent’anni fa quando sorge l’associazione “I borghi più belli d’Italia”, che come vedremo genera indotti, editoria, soprattutto cartelli (nel senso di segnaletica). 

 

Il neoborghismo come tendenza sarà nato nella notte dei tempi, fondato su caratteri tipici italiani: orgoglio municipale, identità locale, sfiducia nello stato centrale, e tutta la retorica del “piccolo è bello” cioè la fabbrichetta d’evasione super inquinante (ma mai cederemo alla perfida multinazionale!). Ma è altrettanto chiaro che è stato rinforzato dal Covid. Lì – Stefano Boeri, la pagherai! – siccome le città erano infestate dal virus, invece che eliminare il virus è nata l’idea di eliminare le città. E dunque fuggire nelle “aree interne”, nelle “aree a bassa intensità”, nelle “dorsali appenniniche”, tutte definizioni affascinanti e fantasiose che ci hanno convinto (a differenza di altre trovate delle archistar tipo gli armadi autosanificanti e i séparé di plexiglas) a fuggire nei paeselli. Di cui abbiamo un’immagine totalmente angelicata: borghi ristrutturatissimi, con gente civilissima, dove fare esattamente la vita che facciamo nelle nostre urfide città, ma tutto a piedi! Senza macchina! Senza smog. E spendendo oltretutto poco (perché il risparmio è parte integrante del mito del borgo. Il sogno di tutti sono le famigerate case a 1 euro, oppure le case regalate, ci sono poi dei sussidi, come in certe zone, per farti abitare lì, nel borgo. Senza pensare che se ti regalano la casa un motivo ci sarà. Se non paghi, il borgo sei tu.

 

La costituzione formale del neoborghismo è l’associazione “I borghi più belli d’Italia”, che genera indotti, editoria, soprattutto cartelli (segnaletici)

 

I pochi che hanno fatto il grande passo, comprare casa nel borgo, hanno scoperto la tragica realtà. Intanto sei completamente tagliato fuori, non c’è il 5G ma nemmeno il 4 e il 3 solo se ti arrampichi su nella piazza più alta del borgo. La tua è una vita abbarbicata alla scritta Edge che ti compare sul telefono rendendo difficoltose attività che ritenevi acquisite, come scaricare i giornali, o vedere Netflix. Poco a poco perdi le abitudini della città, ti abitui ai “ritmi lenti”, altro claim del neoborghismo, e soprattutto ricominci a vedere la tv generalista. Questo a sua volta accresce il borghismo in una economia circolare perfetta.

 

Sarai infatti costretto a vedere tutto il palinsesto di Rai 1, unico canale che si percepisce forte e chiaro, e dunque le repliche infinite di Don Matteo, che è stato fondativo per il borghismo come Garibaldi per l’unità d’Italia. Guardare don Matteo in un borgo rende tutto più immersivo e ipnotico: è un mondo di una volta, è un romanzo di Alberto Bevilacqua, tutto una famiglia naturale col sindaco, il notaio, il farmacista, l’amante, è l’Italia insomma che vorrebbe la Meloni, forse neoborghista, oltre che atlantista. E’ un mondo più semplice, non c’è la cancel culture né la dittatura gender, ci sono signorine ambiziose che vanno a Roma cariche di speranze e tornano compromesse (la città ha punito la loro ambizione! ma il prete e il borgo la riabiliteranno!); quando entra in scena un cattivo, la musica lo segnala. E poi le mille riprese da sotto, sopra, dal drone, dal dentro, del borgo di Gubbio, già città del Lupo, poi città di Don Matteo, che ha contribuito come set delle prime stagioni in maniera esponenziale al turismo umbro (mentre Città della Pieve ormai è scissa tra essere città dei “Carabinieri” e quella di Draghi). Le fiction comunque hanno contribuito in generale molto al borghismo in generale, e ciò sembra assecondare un altro carattere squisitamente italiano; a Braies, sulle Alpi, il solito Terence Hill questa volta versione forestale protagonista di “A un passo dal cielo” ha attirato folle micidiali che ormai minacciano l’ecosistema. 

 

Ma se le serie americane celebrano le grandi città, New York, poi Los Angeles, svolgendo anche una funzione educativa, insegnando il vivere metropolitano a chi abita nell’Arkansas e a noi tapini, in Italia la tv ha piuttosto rafforzato moltissimo l’identità municipale. All’estero si fa “Emily in Paris”, da noi c’è “Imma Tataranni sostituto procuratore”, che sta a Matera. E poi appunto città della Pieve, Gubbio, Spoleto, Umbria, poi tutta la Puglia, fino alla Sicilia della Vigata immaginaria, luoghi bellissimi, cittadine, paesini, improvvisamente sommersi da una quantità di commissari e commissarie e delitti inusitati (nella Gubbio televisiva, recita un vecchio adagio, c’è un tasso di crimini più alto che a Caracas). 

 

La tv ha rafforzato molto l’identità municipale. All’estero si fa “Emily in Paris”, da noi c’è “Imma Tataranni” che al massimo sta a Matera

 

Le serie italiane ambientate in città invece o sono “period” (in costume), o sono poliziotteschi. Nessuno fa dei lavori interessanti a Milano o Roma, nessuno avrà storie o conversazioni brillanti, né poveri, né ricchi, né aristocratici decaduti. Non si pretende la “Sex and the city” gay e immobiliare di “Uncoupled”, in visione su Netflix, ma almeno le avventure di due bravi venditori etero Tecnocasa o Tecnorete, a Roma, perché nessuno la fa? (Si potrebbe farla su due immobiliaristi falliti che finiscono a vendere case a 1 euro nei borghi, e devono cavarsela con le provvigioni. Ma forse è più da reality).

  

Ma poi è la serie che imita la realtà o viceversa? Come se la presentabilità televisiva del Paese non potesse oltrepassare la dimensione (stra) paesana. 

 

L’Italia che ci piace immaginare è quella del paese, anzi del borgo, che se servisse a “vendere” di più all’estero avrebbe senso, ma raccontarcela tra di noi che senso ha? Boh. Ennesima sfida persa con la contemporaneità? Perché non c’è una serie ambientata a Bologna? O a Firenze? Infatti, poi ecco gli stupori per la modernità dei “Ferragnez” su Amazon Prime Video, che ebbe l’impatto del neorealismo in un paese abituato ai telefoni bianchi. Ecco l’Italia 2022! Ah, ma quindi esiste la città! Esistono grattacieli! A Milano non c’è più la nebbia! L’ultima volta che si era vista Milano sullo schermo era infatti con Totò e Peppino.

 

Col Covid, la tendenza alla fuga nel borgo si è rafforzata e insufflata in altre temperie: il south working, le strade del gusto, l’albergo diffuso, il ritorno dei giovani alla campagna!… Ma gli unici giovani che si conoscono tornati alla campagna hanno dai tre ai cinque cognomi e hanno ristrutturato tutto col Superbonus. L’albergo diffuso pure è interessante, suona benissimo, poi le poche volte che si è provato, un disastro, perché a parte il letto scricchiolante di ferro (dell’Ikea) devi fare 500 metri a piedi dalla camera per andare a fare colazione, allora tanto vale stare in una metropoli. E lì, infatti, quando ti trovi nel borgo, senza trasporti, senza wi-fi, esposto al palinsesto generalista, ritornano i ritmi lenti, che sono lenti veramente: le macchine euro zero fumiganti vanno a 27 all’ora, e causeranno più incidenti delle tangenziali romane e milanesi; al supermercatino locale l’addetta ci mette venti minuti ad affettarti due etti di prosciutto. Quando chiedi di pagare col Pos mentre sei in fila con quaranta gradi, senza l’aria condizionata (mai giunta nei borghi), e  divorato dai moscerini, ti guardano come se proponessi loro di aderire a Scientology. Insomma ti viene una gran voglia di tornare in città, oppure stare in un borgo, sì, ma finto, cioè gli unici davvero abitabili. A Borgo Egnazia, semmai, opulento resort pugliese disegnato da uno scenografo, o in altri compound che sembrano naturali ma sono artificialissimi, e altri borghi comprati e ristrutturati e cablati e condizionati, possibilmente da americani, insomma fintissimi e dunque splendidi, ancorché abitati da forestieri e turisti metropolitani. 

 

Perché poi, nel borgo sperduto, con chi parlerai? Son rimasti giusto il prete e il maresciallo, magari non amabili e sagaci come quelli delle fiction, ma anzi depressi, e forse la farmacista: gli altri si sono dati. E qui si scadrà come sempre nell’autobiografismo raccontando infanzie già borghiste quando non era di moda: anni Ottanta, provincia bresciana, il papà decise di vivere la vita sana, aria aperta, abbasso lo smog… e lì si fuggì a gambe levate appena possibile nonostante le bellezze naturali. Ma il borghismo non era stato ancora codificato, tutti si sognava semmai il telefono in macchina, la Jacuzzi, le multiproprietà a Marilleva. 

 

Poi qualcosa è successo, forse la crisi con Tangentopoli negli anni Novanta, la fuga dalle città (Salvatores fa la sua trilogia della fuga da Milano, a Roma si abbandona il centro e si va a vivere a Casal Palocco). 

 

Anche la moda dei cuochi, col km zero, i grani antichi, la lievitazione da quattrocento ore, ha, come si dice impattato, incistandosi su tendenze sotterranee mai sopite; il veronellismo, lo slow-food, tutte iniziative lodevoli ma che hanno creato un mito pericoloso. Non si dimentica una dichiarazione di Gabriele Bonci, ganzissimo re della panificazione riflessiva romana, che al Gambero Rosso tre anni fa magnificava la sua decisione di trasferirsi in una “area interna” sulle Apuane: un perfetto manifesto del neoborghismo radicale.  “Voglio stare qui tutta la vita. Tutta la vita”. “Qui ho trovato i ritmi, qui ho trovato le stagioni, ho trovato il paese. Qui c’è tutta la verità che serve alla nostra professione. Qui c’è solo avanguardia (…) In contrasto alla “falsa avanguardia che ormai vedo a Roma e che mi dà il voltastomaco”.

 

Gli unici giovani che si conoscono tornati alla campagna hanno dai tre ai cinque cognomi e hanno ristrutturato tutto col Superbonus

 

Poi è tornato in sé e ha aperto due locali a Chicago. Perché poi, va detto, nei borghi si mangia malissimo. Ma male in un modo peculiare: non il male della vecchia trattoria di una volta; adesso c’è la nuova-trattoria-gourmet coi grani antichi e “non teniamo la Coca-Cola perché abbiamo la versione locale” e non c’è wi-fi “così parlate tra di voi”, e l’arredo shabby deciso da un interior decorator di Magliano Sabina, e nel piatto delle spume che imitano il ristorante milanese che a sua volta occhieggia a quello danese di vent’anni fa, e i quadri concettuali alle pareti sono di un artista locale, e poi dopo tutto questo rimpallo e sussiego è chiaro che il picio all’aglione lo mangi meglio all’autogrill.

 

Quella dei borghi, è, insomma, l’unica globalizzazione che ha funzionato in Italia. Ed è un processo che non si può fermare. Nel frattempo era arrivata infatti la codifica, la consacrazione: vent’anni fa sorgeva l’Associazione dei borghi più belli d’Italia. In un mercatino – di un borgo – trovo una delle prime guide, 2005, “edizione aggiornata, con 108 borghi!”, dice lo strillo in copertina. Ma già oggi, sulla guida 2022, i borghi più belli d’Italia son diventati 329. Soprattutto è nato un mondo: “un importante biglietto da visita che presenta l’enorme patrimonio storico, artistico, culturale ed eno-gastronomico dei piccoli ‘gioielli’ italiani, i centri storici inferiori ai 15 mila abitanti che fanno parte dell’Associazione che nel 2022 celebra il suo Ventesimo Anniversario”, dice sempre la rivista. “Dei 50 borghi compresi nella primissima edizione della guida del 2003, si arriva oggi alla XV edizione con 329 borghi, compresi i 7 borghi ospiti: tutti sono stati selezionati negli anni dal Comitato Scientifico dell’Associazione (tra quasi mille visitati) e hanno superato il difficile “iter di ammissione”, certificato ISO9001, che tiene conto di circa 70 parametri relativi alla qualità architettonica, culturale e paesaggistica”.

 

Le new entry che hanno superato questa ardua trafila sono: Alberobello, La Maddalena, Campiglia Marittima, Varzi, Ingria, Bellano. “Quella che si dispiega nelle 816 pagine e circa 2800 foto del volume è un Italia dei Borghi multiforme”, continua la guida, dove “non c’è un centro urbano, anche piccolo o piccolissimo, che non abbia prodotto felici espressioni della cultura e dell’arte, come anche della cucina e dell’artigianato. Un museo diffuso, policentrico, da scoprire anche attraverso la realtà aumentata, con vari contenuti multimediali supplementari (filmati, immagini, racconti vocali) ai quali il lettore può accedere tramite tablet o smartphone”. 

 

In attesa di scoprire i borghi in realtà aumentata si scopre che “la pagina Instagram @borghitalia conta circa 900.000 follower mentre i comuni aderenti alla rete hanno registrato complessivamente oltre 3,3 milioni di arrivi e 12,1 milioni di presenze”. “Con la XV edizione della Guida  – dichiara il Presidente dell’Associazione, Fiorello Primi – si riprende un cammino, interrotto dalla pandemia, verso la normalità”.  

 

Normalità che comprende ovviamente un palinsesto micidiale di eventi che ormai non risparmiano nemmeno il più sperduto rione: “il più importante è La Notte Romantica nei Borghi più belli d’Italia, arrivata quest’anno alla 7° edizione. Si è tenuta il 25 giugno in oltre 200 borghi della rete e come ogni anno sarà dedicata all’Amore e al Romanticismo. Poi c’è il Flash Mob “Unplugged”: “appuntamento per tutti coloro che vogliono suonare il proprio strumento nelle piazze, nei vicoli, negli angoli più suggestivi dei borghi aderenti alla Notte Romantica per un grande concerto spontaneo e corale, che renderà con le sue note ancora più suggestiva la Notte più romantica e magica dell’anno”. 

 

Il neoborghismo è pervasivo, anche Gualtieri, sindaco di Roma, ha detto: “Tra due anni Roma pulita come un borgo del Trentino”. Mah

 

C’è chi lo critica, il neoborghismo. Sono appena usciti due saggi seri, “Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi”, a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi (Donzelli); e “I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia” di Anna Rizzo  (Il Saggiatore). Ma anche la più immediata guida-fake a “I Paesini del cazzo più belli d’Italia”, con la stessa grafica dell’originale, ma che non esiste, opera-divertissement dello spiritoso Michele Boroni. 

 

Ma il neoborghismo non va sottovalutato, è pervasivo, anche Roberto Gualtieri, sindaco del megaborgo d’Italia, cioè Roma, ha detto pochi giorni fa: “Tra 2 anni Roma pulita come un borgo del Trentino”, mah, che bisogno c’era del riferimento al borgo. C’è anche una associazione rivale, “Borghi autentici d’Italia”, nata  dopo, nel 2004, come a sottolineare una purezza che all’altra manca, e c’è naturalmente il Pnrr borghi. 

  

E poi c’è anche una rivista, che si chiama “Borghi e città Magazine”. Costa 4 euro e 50, bilingue italiano e inglese, il numero adesso in edicola vede l’Abruzzo in copertina, e si apre con le immagini di magnifici borghi: il primo che si affaccia su acque cristalline, con una magnifica villa in pietra. Ah, no, è la Costa Smeralda. Poi, altri borghi con fontane spumeggianti e arcate neoclassiche. Chissà dove saremo? Borghi palladiani? Il Brenta? No, sono outlet, è una pubblicità, ecco Serravalle, Castel Romano, Noventa di Piave, Barberino… altro fantastico caso di borghi più veri del vero, ma fintissimi. Poi, altra pubblicità, tra pievi, castelli, campagne, meravigliosi borghi, veri, antichi. Un angolo della poesia, dal borgo di Montefalco (“Io dedico / queste parole semplici / alla vecchia di Montefalco / quella che una volta / mi disse / che non aveva mai visto il mare. (…) Io voglio essere degno di cantare ogni ruga / e di penetrare sogni mai potuti sognare”). Poi rubrica dedicata ai libri (fondamentale, perché del resto la nostra letteratura è al 90 per cento fatta di dolenti mémoir borghisti, possibilmente al Sud). Infine riecco Terence Hill, sulla sua bici. Allucinazione, dopo tutti questi borghi? No, è “fenomenologia di don Matteo”, ma è un’altra pubblicità, della rivista “Cinematografo”, con Hill in copertina. Questa è la vera realtà aumentata italiana, vedere Don Matteo in un borgo che rispunta nella rivista dei borghi. Naturalmente, i più belli d’Italia.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).