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Cambiare l'agenda

Liberate lo streaming e le tv dall'algoritmo dell'impegno sociale

Claudio Cerasa

Le difficoltà delle piattaforme si spiegano anche con i loro contenuti, incapaci di sfuggire a un mix di inclusività, diversity, anticapitalismo. Qui ci vorrebbe un eroe non da disprezzare ma con cui identificarsi

Il punto in fondo è semplice e non riguarda la guerra ma riguarda i nostri schermi. Proviamo a sintetizzarlo in modo brutale: siamo ancora in grado di accettare che un ricco playboy bianco possa diventare un eroe dei nostri schermi? Chi scrive è tra quelle persone, come molti di voi, che nella fase più acuta della pandemia hanno sottoscritto ogni genere di abbonamento possibile a ogni genere di piattaforma esistente capace di offrire un qualsiasi contenuto visivo in grado di presentarsi sui nostri display come una finestra utile per evadere qualche minuto dalla realtà. Chi scrive, una volta visto tutto ciò che c’era da vedere, una volta recuperati alcuni classici del passato, una volta resosi conto di essersi addormentato un giorno sì e uno no sul divano con il telecomando in mano alla ricerca disperata di qualche serie non ancora vista, è tra quelle persone che, come molti di voi, due anni dopo l’inizio della pandemia hanno iniziato a fare due calcoli, a scoprire di avere attivi abbonamenti che non ricordavano più di avere e a cancellare abbonamenti su abbonamenti.

 

I dati  per inquadrare il fenomeno li conoscete. Netflix ha perso 200.000 abbonati nel primo trimestre del 2022 e  ha visto crollare di  due terzi il suo titolo in Borsa (un’azione, a fine 2021, valeva 600 dollari, oggi ne vale 200). Dall’inizio dell’anno, sono crollate anche altre piattaforme di streaming, come Disney+  (le cui azioni sono passate in  sei mesi  da 150 dollari ad azione a 50 dollari) e come la Cnn+ (il servizio di streaming on demand del canale all news statunitense ad aprile  ha chiuso i battenti a un mese dal lancio ufficiale). C’entra la fase post pandemica, naturalmente, anche se non tutti i creatori di contenuti audiovisivi  hanno registrato crolli  nei  primi  sei mesi dell’anno (il valore delle azioni della Paramount, nei  primi sei mesi del 2022, è passato da 30 a 32 dollari). E c’entra la questione del risparmio, ovviamente, e con un’inflazione record che riduce il nostro potere d’acquisto anche un abbonamento di troppo può  pesare nel  paniere di una famiglia.  

 

Ma c’entra forse anche un processo diverso suggerito qualche giorno fa dal Wall Street Journal in un editoriale delizioso dedicato al tema della grande recessione dei contratti. “Gli spettatori si stanno finalmente rivoltando? Forse la colpa è degli spettacoli e dei contenuti. E’ difficile trovare un film, una serie o un telegiornale che non spinga un’agenda sociale o politica, da ‘Bridgerton’ a ‘Squid Game’ a ‘The Handmaid’s Tale’. Anche la Disney, un tempo adatta alle famiglie, sta diventando troppo predicatrice”. Elon Musk, diabolicamente, riferendosi al crollo di abbonati di Netflix, ha suggerito un nome per inquadrare il fenomeno e lo ha definito così: “Woke Mind Virus”. La tesi del Wall Street Journal, che in fondo è anche la tesi di Musk, è che una delle ragioni  del disinnamoramento degli utenti dalle piattaforme sia dettata da un algoritmo totalizzante e respingente: l’agenda dell’impegno sociale. Un’agenda prevedibile, a volte scontata, declinata all’interno di un mix fatto di sostenibilità, inclusività, diversity, anticapitalismo.

 

Quello del Wall Street Journal non è un inno alla scorrettezza, ma è un inno alla diversificazione, al saper sorprendere, al saper uscire dagli schemi, al saper offrire agli spettatori uno spettacolo diverso, un algoritmo diverso, rispetto a quello offerto ogni giorno dai palinsesti dell’informazione. Più si guardano le serie tv  offerte dai  grandi produttori di contenuti, scrive il Wall  Street Journal, e più si ha l’impressione di vedere un copione ricorrente, unico, totalizzante, il cui filo conduttore è sempre lo stesso: dàgli al capitalista.  E così guardi “Succession”, la serie tv che si ispira alla famiglia Murdoch e  ai suoi presunti scheletri negli armadi. Guardi  “Billions”, la serie tv con Paul Giamatti e Damian Lewis che racconta il lato oscuro della ricchezza di Wall Street (e anche quello in verità di chi combatte Wall Street).

 

Guardi “Super Pumped”, la serie tv che racconta le disavventure dell’ex capo di Uber, guardi “WeCrashed”, la serie tv che racconta il crollo di  una startup americana arrivata ad accumulare un  valore di 47 miliardi di dollari prima di fallire.  Guardi “The Dropout”, la serie tv che parla degli  inganni di  un’imprenditrice senza scrupoli di nome Elizabeth Holmes. Guardi “Inventing Anna”, la serie tv che parla di  una truffatrice che ha ingannato mezza Wall  Street. Guardi  tutto questo e non puoi non chiederti, come si è chiesto il Wall Street Journal, perché gli imprenditori della Silicon Valley vengono descritti come fratelli tecnologici misogini, bambineschi e narcisisti che seguono culti misteriosi, che gestiscono patrimoni guadagnati chissà come, in combutta con venture capitalist idioti che, dall’alto del loro osceno jet privato, cercano solo di manipolare a loro vantaggio la società, e perché,  in buona sostanza, l’industria dell’intrattenimento si senta in dovere di distruggere la reputazione della Silicon Valley che tiene in vita Hollywood.

 

Tim Young, un famoso comico americano, parlando delle difficoltà incontrate dal modello Netflix ha offerto un punto di vista provocatorio. “Netflix e la sua programmazione originale hanno forzato la diversità nella loro programmazione così tanto che è diventata una caricatura della diversità stessa. E’ come se i dirigenti e i team creativi credessero al mito che l’America è ‘così razzista’ che nessuno di colore può nemmeno camminare per le strade senza affrontare il razzismo e ha reagito con lo stesso livello di odioso wokeism dall’altra parte del pendolo per bilanciarlo”. Young, come Musk, forse è eccessivamente ingeneroso con il modello Netflix, che agli ultimi Emmy ha ottenuto la cifra record di 44 vittorie, ma un punto aiuta a spiegarlo: in una stagione come quella in cui ci troviamo oggi, i contenuti audiovisivi tarati unicamente sul metodo della denuncia anticapitalista sono contenuti che non aiutano a offrire quello di cui hanno solitamente bisogno gli spettatori dopo una crisi: la ricerca di un eroe in cui identificarsi.

 

E dunque il tema è semplice: siamo ancora in grado di accettare che un ricco playboy bianco, alla Bruce Wayne per capirci, possa diventare un eroe dei nostri schermi? E, per dirla in modo ancora più brutale, siamo ancora in grado di pensare che un contenuto non politicamente corretto, capace di sfuggire a quel  mix fatto di sostenibilità, inclusività, diversity, anticapitalismo, non sia un contenuto  incompatibile con l’algoritmo dell’intrattenimento culturale? Nella crisi delle piattaforme streaming conta certamente l’uscita dalla pandemia. Ma forse conta anche l’incapacità di saper offrire agli spettatori eroi non da disprezzare (prendere appunti sul successo di “Top Gun”) ma con cui identificarsi e con cui ogni tanto provare a sognare un algoritmo diverso da quello dell’impegno

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.