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Salvare i social dagli eversori

C.A. Carnevale-Maffè e Carlo Piana

Nessuna censura, la sfida per le democrazie liberali è quella di difendere gli strumenti che favoriscono la libertà di parola dai ricatti dell’autocrate di turno

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Davvero bisogna proteggere Trump dagli abusi di Twitter? Numerose critiche si sono levate contro i social media che hanno deciso di sospendere alcuni degli account utilizzati da Donald Trump dopo le dichiarazioni che incitavano all’assalto del Parlamento americano. Molti hanno colto l’occasione per invocare l’intervento della legge al fine di togliere alle piattaforme il potere di negare l’accesso ai propri servizi ai personaggi politici, nella convinzione che ciò costituisca un’inaccettabile limitazione del diritto di espressione. Qui proveremo ad argomentare che la sfida delle democrazie liberali è semmai il contrario: difendere gli strumenti che favoriscono la libertà di parola dall’interferenza e dai ricatti dell’autocrate di turno.

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Davvero bisogna proteggere Trump dagli abusi di Twitter? Numerose critiche si sono levate contro i social media che hanno deciso di sospendere alcuni degli account utilizzati da Donald Trump dopo le dichiarazioni che incitavano all’assalto del Parlamento americano. Molti hanno colto l’occasione per invocare l’intervento della legge al fine di togliere alle piattaforme il potere di negare l’accesso ai propri servizi ai personaggi politici, nella convinzione che ciò costituisca un’inaccettabile limitazione del diritto di espressione. Qui proveremo ad argomentare che la sfida delle democrazie liberali è semmai il contrario: difendere gli strumenti che favoriscono la libertà di parola dall’interferenza e dai ricatti dell’autocrate di turno.

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Una premessa: se stessimo trattando di un medium tradizionale, il discorso sarebbe già finito qui. Un giornale, una trasmissione televisiva, un editore decidono chi e come ospitare. L’intervento pubblico negli stati liberali si esaurisce in un limitato set di norme sulla libertà di stampa e sul diritto di replica, oltre a cercare di promuovere il pluralismo. Ma qui stiamo parlando di una piattaforma tecnologica che ospita un “social media”, un servizio privato che mette a disposizione un servizio di interconnessione “sociale” tra gli utenti e tra questi e il pubblico. Una piazza privata il cui proprietario si riserva il diritto di far entrare chi vuole, purché rispetti le regole della casa.

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Imporre obblighi di servizio pubblico in capo a un operatore privato richiede inoppugnabili ragioni tecniche ed economiche, le quali hanno un sicuro impatto anche sulla valutazione giuridica. Bisognerebbe infatti riuscire prima a dimostrare che un social media costituisce una “infrastruttura essenziale”, ovvero una essential facility, tale da non avere alternative praticabili per una terza parte che desiderasse di accedere a un servizio analogo. Solo in quel caso la piattaforma assumerebbe le connotazioni di rilevanza pubblica necessarie per giustificare l’intervento. Le tre condizioni, tutte necessarie, affinché una risorsa possa essere considerata essential facility sono l’insostituibilità e l’essenzialità per lo svolgimento di una specifica attività, e l’assenza di ragioni obiettive che giustifichino il diniego all’accesso.

 

Per esemplificare, prendiamo proprio il caso della piattaforma Twitter e proviamo a dimostrare che essa costituisca una essential facility necessaria a garantire l’esercizio del diritto alla libera espressione da parte di Donald Trump.

 

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Le condizioni di essenzialità e insostituibilità non sembrano dimostrabili. Non solo Trump, come ogni cittadino, dispone di moltissimi modi diversi per esprimersi liberamente (che è il vero diritto da tutelare), ma ha accesso a numerosi strumenti per far arrivare il proprio pensiero a milioni di persone – il che costituisce una legittima aspirazione, ma non certo un diritto umano fondamentale meritevole di una tutela pubblica tale da imporre obblighi di legge a terzi. Per esempio, Trump può usare siti web, blog di terzi, un’app, molti altri social media ad accesso gratuito, piattaforme di podcast e/o di video, mailing list, sistemi di messaggistica. In quanto personaggio politico, inoltre, ha il già accennato accesso ai media tradizionali. Insomma né Twitter, né alcuna altra singola piattaforma di social media, può dirsi necessaria e insostituibile, tale da essere considerata essential facility. La diffusione mondiale dei social media è di circa il 51 per cento della popolazione adulta, quella di radio e televisione sfiora il 100 per cento. Twitter ha circa 350 milioni di utenti attivi, poco più di un quarto di quelli di WeChat, e si colloca intorno al diciassettesimo posto nella classifica dei social network più diffusi, tra i quali almeno una ventina sono quelli con oltre 300 milioni di utenti. Il numero di ore dedicato alla tv e ai media tradizionali è tuttora molto maggiore di quelle dei singoli social media. L’emergenza Covid ha fatto aumentare il tempo dedicato alle news del 36 per cento, e il consumo di video streaming (Netflix et al.) del 27 per cento, mentre l’uso dei social media è aumentato del 21 per cento (fonte: Statista, 2021). In Italia, ma anche negli Usa, la tv rimane in assoluto la fonte di informazione politica dominante, in proporzione di un multiplo rispetto a qualsiasi singolo social media (Fonte: Istat). I numeri smentiscono dunque chi parla di “monopolio”, sia pure dell’attenzione umana, in merito a una specifica piattaforma digitale.

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Essendo indimostrabile l’interesse pubblico a garantire a Donald Trump l’accesso a una specifica piattaforma, in quanto non assimilabile a una essential facility, bisogna riportare la discussione nel campo dei liberi rapporti tra privati. Non ci sono quindi gli elementi logici, prima ancora che semantici, per definire la scelta di Twitter un atto di censura. Con tale termine infatti si indica il provvedimento di un potere pubblico che interviene impedendo a uno o più soggetti la libera espressione di pensiero o modificandone arbitrariamente il contenuto. Non è questo il caso di specie. Innanzitutto si tratta della scelta del fornitore (privato) di sospendere tale servizio a uno specifico account, a sua discrezione. Se ciò abbia un valido fondamento contrattuale è una questione tra privati, che solo in circostanze eccezionali ha rilevanza pubblica (protezione del consumatore, discriminazione razziale, eccetera). In secondo luogo, l’intervento non avviene modificando o distorcendo i contenuti originali dell’account, ma si provvede prima ad avvertimenti preliminari, laddove venisse riscontrata – anche dietro segnalazione degli altri utenti - la manifesta infondatezza delle affermazioni stesse o comunque la violazione dei termini d’uso.

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Né pare fondata la definizione di “ostracismo”. Non certo nel senso storico del termine, perché non c’è esilio forzato da uno spazio pubblico, ma solo sospensione di un servizio privato. Ma soprattutto perché nell’antica Grecia il nome scritto sulla tavoletta di terracotta era quello di uno specifico soggetto, e le conseguenze del bando avevano effetti su una persona fisica, mentre in questo caso l’oggetto della sospensione non è la persona, bensì le credenziali di accesso a una specifica piazza virtuale. La persona fisica ha sempre la possibilità di aprire un altro account su un altro social media e continuare a esprimersi liberamente, nel rispetto dei termini d’uso. Un eventuale nuovo account attivato dallo stesso soggetto non eredita automaticamente i follower precedenti, né è necessariamente possibile acquisirne altrettanti sulla nuova piattaforma, ma può sempre riguadagnarne gran parte in poco tempo, sfruttando le esternalità di rete. Ciò che viene negato con il blocco dell’account è l’accesso facilitato all’audience, non il diritto individuale di espressione. Tale diritto permane: semmai c’è una riduzione della sua propagazione, ma non un impedimento alla diffusione del contenuto con altri mezzi.

 

Quindi non si vede dove si possa riscontrare nella decisione di Twitter una negazione dei diritti fondamentali della persona fisica: si è infatti verificata solo la sospensione dell’uso di un mezzo tecnico – l’account – che era stato utilizzato impropriamente in quanto, a discrezione del fornitore di servizi, sfruttato per incitare alla violenza. Per analogia: se si prende a nolo un’auto e la si usa per tentare una rapina, l’azienda di noleggio ha il diritto di invocare le clausole contrattuali che vietano tale uso e quindi di disabilitare il veicolo, anche da remoto. Quest’azione non costituisce lesione della libertà di movimento del soggetto, ma solo intervento teso a impedire l’uso contrattualmente illegittimo di un bene strumentale.

  

 

I social media sono stati uno straordinario strumento di inclusione e partecipazione, nato nelle democrazie liberali e tuttora osteggiato dai regimi autoritari, che li proibiscono, li limitano o pretendono accesso incondizionato alle conversazioni tra gli utenti. Chi ama la libertà deve sforzarsi di garantirne il pluralismo e la trasparenza, contrastando eventuali eccessi monopolistici. Ma come il diritto pubblico deve prevenire l’abuso di posizioni dominanti e garantire semmai l’accesso alle infrastrutture essenziali propriamente dette, il diritto privato può e deve essere applicato nei casi di abuso dei termini di servizio da parte di utilizzatori che attentino alle stesse regole democratiche che hanno consentito la nascita dei social media. Se non viene garantito il principio di rispetto delle pattuizioni private, si minano le fondamenta stesse della democrazia liberale e della Rule of Law. Semmai serve prevenire l’abuso che di tali patti fanno gli autocrati, minacciando ritorsioni ai media come più volte fece lo stesso Trump nei confronti di Twitter, prospettando chiusure e ritorsioni tramite decreti esecutivi. Per gli utenti, sottoscrittori di un patto privato, è doveroso chiedere criteri e procedure più trasparenti e accountability delle scelte di sospensione degli account, strumenti semplificati per ottenere un contraddittorio. Ma è una negoziazione tra utilizzatori, rappresentati dalle associazioni di tutela dei consumatori, e le piattaforme. Se i social media non rispondono alle legittime richieste degli utenti, la sanzione più efficace è abbandonarli e utilizzare altri servizi. A ciò servono una concorrenza vivace e la sorveglianza delle istituzioni antitrust. Ma invocare la mano dello stato per proteggere il diritto di Trump di utilizzare illegittimamente un servizio privato è alquanto paradossale. In termini economici, il pericolo nel classificare un social media come infrastruttura essenziale o nel prescrivere obblighi di servizio universale è quello di una profezia autoavverante. L’atto stesso di imporre vincoli di pubblica utilità a una particolare piattaforma tende a caratterizzarla come scelta preferita, se non unica, nel suo mercato di riferimento. La regolamentazione può finire con l’imporre sulle piattaforme emergenti, de facto se non de iure, elevati costi di compliance legale che finiscono col limitare l'innovazione e la concorrenza. L’intervento pubblico rischia di trasformare in monopolio anche ciò che monopolio non è, alzando le barriere all’ingresso per i concorrenti che non possono permettersi il costoso apparato necessario ad applicare i controlli imposti dal regolatore. Trattare i social media come essential facilities minaccia di congelare l’innovazione del mercato e incoraggia gli utenti ad accontentarsi di una piattaforma regolamentata. Peraltro i social media sono quasi universalmente ad accesso libero e gratuito per gli utenti: l'obiettivo del servizio universale che motiva molte richieste di regolamentazione dei servizi di pubblica utilità appare quindi già ampiamente soddisfatto in via di principio.

 

Va peraltro segnalato che il recente pacchetto “Digital Services Act”, proposto dalla Commissione europea per superare la tradizionale dicotomia fornitore di contenuti/fornitore di servizi, prevede esplicitamente, all’art. 20, che “le piattaforme online sospendano, per un periodo di tempo ragionevole e previo avviso, la fornitura dei loro servizi ai destinatari del servizio che forniscono contenuti manifestamente illegali”. Per la Commissione europea, infatti, l’uso improprio dei servizi di piattaforme online con contenuti chiaramente illegali o infondati “mina la fiducia e lede i diritti e gli interessi legittimi delle parti coinvolte”. Pertanto, la Commissione europea ritiene necessario mettere in atto salvaguardie adeguate e proporzionate contro tali fenomeni. Un approccio che impone obblighi di trasparenza, autoregolamentazione e di interazione, soprattutto verso le piattaforme più grandi e nei confronti dei soggetti più deboli, come condizione di mantenere le immunità degli intermediari di servizi.

  

 

La migliore tutela per gli utenti è data da un contesto di vera concorrenza: da un lato bisogna impedire che si verifichino situazioni di monopolio od oligopolio permanente, abbassando le barriere all’entrata, dall’altra serve assicurare la possibilità che gli utenti “votino coi piedi”. Invece, la politica antitrust è stata spesso opposta, consentendo ad esempio integrazioni verticali tra diversi social (vedi Facebook/Instagram). Sarebbe importante assicurare la possibilità di non perdere i vantaggi di rete passando da una infrastruttura all’altra, invece di rimanere imprigionati in piattaforme che si comportano come “silo” di informazione, senza alcuna interoperabilità. Ma si tratta di qualcosa non imponibile dall’alto ed è un’esigenza che al momento – purtroppo – non viene avvertita.

 

E’ il possibile abuso di potere di eversori, reali o potenziali, come Trump, a dover costituire la preoccupazione di chi difende la libertà di espressione. La critica a Twitter e Facebook è semmai di non aver avuto il coraggio di intervenire subito ed efficacemente sugli abusi dei potenti o dei criminali. Il tardivo intervento contro le sistematiche violazioni dei patti di utilizzo da parte di Trump è ciò che deve preoccupare chi ha a cuore le regole delle democrazie liberali: certo per la scarsa trasparenza delle procedure di sospensione, che vanno migliorate, ma molto di più per le intimidazioni ricevute. In paesi dove l’autoritarismo non è solo una minaccia ma una realtà, i social media sono vietati, ostacolati o controllati dai locali regimi politici.

 

E’ indiscutibile che il potere e l’influenza delle piattaforme digitali siano diventati così pervasivi da richiedere una riflessione sul loro ruolo in una società democratica che voglia garantire pluralismo e diritti di espressione. Ma per un liberale che assiste allo scempio delle libertà individuali da parte dei regimi autoritari e alla diffusione di fake news effettuata da organi editoriali controllati da partiti e governi, è prioritario proteggere i social media dai potenti, e non certo proteggere i potenti dai social media.

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