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Il futuro è una tavola imbandita. Ma forse sarà l’Asia a servirsi per prima

“In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere". Come affrontare le sfide del XXI secolo. Torna il libro di Harari

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Quando non si hanno competenze, si lavora di fantasia. Lo insegnano narratori e poeti. E dato che non ho futuro sono curioso di sapere che cosa ne pensano coloro che mostrano di possedere una misura sufficiente di competenze per fare previsioni. Impugno perciò un libro di Yuval Noah Harari uscito due anni fa da Bompiani e recentemente ristampato da Repubblica per i suoi lettori. Il titolo è invitante, 21 lezioni per il XXI secolo, le pagine sono molte, quasi cinquecento, e l’indice è una tavola imbandita di ogni alimento e prelibatezza. Parte prima: la sfida tecnologica. Parte seconda: la sfida politica. Parte terza: disperazione e speranza. Parte quarta: verità. Parte quinta: resilienza. E per concludere: dall’uomo all’algoritmo.

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Quando non si hanno competenze, si lavora di fantasia. Lo insegnano narratori e poeti. E dato che non ho futuro sono curioso di sapere che cosa ne pensano coloro che mostrano di possedere una misura sufficiente di competenze per fare previsioni. Impugno perciò un libro di Yuval Noah Harari uscito due anni fa da Bompiani e recentemente ristampato da Repubblica per i suoi lettori. Il titolo è invitante, 21 lezioni per il XXI secolo, le pagine sono molte, quasi cinquecento, e l’indice è una tavola imbandita di ogni alimento e prelibatezza. Parte prima: la sfida tecnologica. Parte seconda: la sfida politica. Parte terza: disperazione e speranza. Parte quarta: verità. Parte quinta: resilienza. E per concludere: dall’uomo all’algoritmo.

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Mi pare proprio che Harari voglia essere esauriente, come ha già fatto capire con i titoli di due libri precedenti: Sapiens. Da animali a dèi (2014) e Homo Deus (2017). E’ questa, del resto, una caratteristica ricorrente della produzione scientifica, storica e filosofica dell’epoca attuale, in cui la Postmodernità di fine Novecento ha esaurito le sue risorse antimoderniste retrospettive, e ora il futuro incombe perché “è già cominciato” e impedisce di distogliere lo sguardo dalle minacce che annuncia. Mutazioni di ogni genere sono in atto, vanno veloci e la velocità, che è il nostro dogma e idolo, ci divora o divorerà senza aspettare le nostre obsolete reazioni riflessive e consapevoli. La politica riesce sempre meno a essere consapevole e riflessiva e ora come sempre è troppo incalzata dalle urgenze del momento per pensare a quei cosiddetti “tempi lunghi” di cui non disponiamo più. Non invidio i giovani: il mondo in cui vivono e dovranno vivere è così complesso e accelerato, così predeterminato dal determinismo economico-tecnico che compiere scelte ponderate ma tempestive sarà più difficile che mai. Acchiappo al volo, tanto per dirne una, l’idea più preoccupante e macroscopica nella geopolitica prossima ventura.

 

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In questi mesi la Cina ha già mostrato di saper vincere la competizione globale con gli Stati Uniti: è più o meno uscita dalla pandemia prima di tutti con un’efficienza organizzativa e decisionistica assoluta e tipica delle dittature, riuscendo a guadagnare grandi vantaggi sul piano economico, facendo affari dovunque e con chiunque. La più drammaticamente arretrata e devastata delle realtà continentali, l’Africa, è lì pronta per essere colonizzata a tutti i livelli dalla Cina, che gode il vantaggio di non essere stata in Africa una potenza né colonialista né imperialista. Darà lavoro agli africani costringendoli a una disciplina metodica che non hanno mai conosciuto; potrà riuscire a farli emigrare meno disperatamente e insegnerà loro a vivere nel suo capitalismo. E’ quindi probabile che espandendo il suo potere e la sua presenza, sarà la Cina a dover combattere contro l’islamismo radicale e terroristico, cosa che farà certo con una determinazione e un’abilità ammirevoli. Finché l’Occidente aveva il monopolio di un potere economico che solo il capitalismo poteva dare, aveva anche il privilegio di migliorare in senso liberale e democratico società e politica. Ma oggi la crisi delle democrazie liberali di cui tanto si parla forse deriva anche dal confronto competitivo che sono costrette a sostenere con dittature come quella cinese, che è anche una forma di capitalismo reso potentissimo dal controllo dispotico che lo stato esercita sull’economia e sulla società.

 

Ma sto dimenticando Harari. Il quale vola sempre alto nelle sue cinquecento pagine.

 

Come riassumerle? E’ facile, perché da bravo divulgatore Harari si riassume da sé, sia nell’Introduzione che all’inizio di ogni parte del libro. Nelle prime righe definisce subito il mio stato mentale di ex intellettuale che capisce sempre meno: “In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere. In teoria chiunque può partecipare al dibattito sul futuro dell’umanità, ma è molto difficile mantenere una visione chiara (…) Miliardi di noi possono a stento permettersi il lusso di approfondire, poiché siamo pressati da ben altre urgenze”. E poi: “La duplice rivoluzione informatica e biotecnologica ci pone davanti alle più grandi sfide che la nostra specie abbia mai affrontato. La convergenza delle tecnologie informatiche e di quelle biologiche potrebbe presto espellere dal mercato del lavoro miliardi di soggetti e mettere a rischio sia la libertà che l’uguaglianza. Gli algoritmi che elaborano i Big Data potrebbero instaurare dittature digitali in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di una minuscola élite mentre la maggior parte delle persone soffre non tanto per lo sfruttamento, bensì per qualcosa di molto peggiore: l’irrilevanza”. Quando si usano espressioni come “la nostra specie” e “le sfide da affrontare”, ci si può chiedere se la nostra specie è un soggetto dotato di una coscienza e di una volontà, e non invece una pluralità di soggetti oscillanti, instabili, discordanti e in più fra loro in competizione o in lotta aperta. Per ora una dittatura mondiale non c’è, cosa che costringe a una certa democrazia, per quanto difettosa e apparente, dato che il maggior potere è nelle mani di chi ha già più potere economico e militare. Dice Harari: “Qualsiasi soluzione per la sfida tecnologica richiede necessariamente la cooperazione globale. Ma il nazionalismo, la religione e la cultura dividono l’umanità in parti ostili e rendono molto difficile cooperare a livello globale”. E’ un vero guaio, eppure è così. Fra la nostra specie e le sfide da affrontare c’è la politica, una delle attività umane più inevitabili e diabolicamente esasperanti. A questo punto Harari mi toglie la parola di bocca ancora una volta introducendo la parte del libro dedicata alla verità: “Se vi sentite sopraffatti e confusi dalla difficile situazione del pianeta, siete sulla buona strada. I processi globali sono diventati troppo complicati perché una qualsiasi singola persona possa comprenderli”. Il che vuol dire che la verità forse esiste ma nessuno è in grado di vederla intera. Per fortuna arriva la quinta parte del libro dedicata alla famosa Resilienza, amatissimo anglicismo latineggiante per dire elasticità o capacità di rimbalzare. Ecco, “per rimanere rilevanti” (quando mai lo sono stato?) Harari dice che avremo “bisogno di continuare a imparare e a reinventare noi stessi”, il che significa “grande flessibilità mentale e cospicue risorse di equilibrio emotivo” perché dovremo “abbandonare continuamente parti della nostra migliore competenza ed essere sereni nell’ignoto”. Bene, queste sono più o meno prestazioni da superuomo. Non ho incontrato mai nessun ventenne, né quarantenne, né sessantenne capace di tutto questo. Mi chiedo quale, fra i più grandi geni della storia umana, somigli all’ideale di Harari. Forse Buddha o Lao-tse. Se è così, sarà l’Asia a vincere la gara.

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