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Le sobrie nevrosi della pandemic fatigue

Giuliano Ferrara

Le nostre nuove vite tra sobrietà normativa e impasto di oblio. Un gran film

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Il coprifuoco contro la movida, che poi è questo il senso della decisione apparentemente stralunata di chiudere tutto quando la notte è a un punto buono di cottura, e fino all’aurora, ha una doppia faccia. Perché la movida ha anch’essa una doppia faccia, non è solo uno struscio luccicante di chiacchiera e di contatti. Ieri alla Festa del Cinema di Roma hanno presentato il film, Druk, Drunk o in italiano Un altro giro, di un bravo e riconosciuto regista danese, Thomas Vinterberg, campione di una scuola poetica capace di stordire e inquietare detta Dogma dal suo manifesto di estetica. Martin e tre suoi amici insegnanti sono in età appropriata di movimento e di crisi e soffrono di qualcosa di simile alla pandemic fatigue, tristezza, noia, ripetitività dei fatti e dei comportamenti, disillusione, difficoltà a capire quando finisce questa situazione di merda, ché l’inquietudine precede il virus, dunque vita affetti insegnamento si chiudono in una penombra di automatismi, di nevrosi, di miserie e mediocrità. I quattro amici discutono la teoria di un fisiologo norvegese: al nostro organismo manca un tanto di alcol. E provvedono di conseguenza.

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Il coprifuoco contro la movida, che poi è questo il senso della decisione apparentemente stralunata di chiudere tutto quando la notte è a un punto buono di cottura, e fino all’aurora, ha una doppia faccia. Perché la movida ha anch’essa una doppia faccia, non è solo uno struscio luccicante di chiacchiera e di contatti. Ieri alla Festa del Cinema di Roma hanno presentato il film, Druk, Drunk o in italiano Un altro giro, di un bravo e riconosciuto regista danese, Thomas Vinterberg, campione di una scuola poetica capace di stordire e inquietare detta Dogma dal suo manifesto di estetica. Martin e tre suoi amici insegnanti sono in età appropriata di movimento e di crisi e soffrono di qualcosa di simile alla pandemic fatigue, tristezza, noia, ripetitività dei fatti e dei comportamenti, disillusione, difficoltà a capire quando finisce questa situazione di merda, ché l’inquietudine precede il virus, dunque vita affetti insegnamento si chiudono in una penombra di automatismi, di nevrosi, di miserie e mediocrità. I quattro amici discutono la teoria di un fisiologo norvegese: al nostro organismo manca un tanto di alcol. E provvedono di conseguenza.

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Il risultato è smagliante, incoraggiante e anche pessimo. Incrinata la cappa puritana di una normalità detestabile, con tutte le proporzioni al loro posto e niente più, tutto diventa più allegro e degno e ironico e possibile, per loro, per i loro ragazzi, amici, famiglie eccetera. Movida, appunto, aperitivi, drink, conversazioni, movimenti e slittamenti del piacere di vivere insieme, ma il tutto cresce su una decisione privata, di circolo ristretto, e i quattro amici al bar si sottraggono alla sana acqua con un po’ di limone inscenando segretamente qualcosa che col tempo sostituisce alla dipendenza puritana dall’esistenza piatta un’altra dipendenza che sa di disgrazia e allude a una nuova impossibilità di vivere. Poi si vede, e sarà dura, ma il film esce nelle sale tra un po’, e non è quello il problema.

   
Nostro affare è questa detestabile mania del virus, le informazioni, la politica, il lavoro, la scuola, l’economia, tutto gira ormai da un anno quasi intorno alla pandemia, e in un modo o nell’altro sentiamo la claustrofobia, il lento coprifuoco mentale che ci innerva di insopportazione, ci estenua nell’asettico, imprigiona il respiro, induce abitudini ultrapuritane, separa e raffredda ogni relazione, ci darebbe una gran voglia di chiudere gli occhi e annegarci in un mare di Martini e di Negroni, alla ricerca come gli eroi di Vinterberg del tasso alcolico estremo, la Grande Bouffe liquida, un gradino più in su del tollerabile.

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Il negazionismo strisciante, la ribellione anche inconsapevole e graduale, fatta di trascuratezza, alla quale si addossa con criterio epidemiologico la colpa dell’Esponenziale, della ripresa con seconda ondata del male, si spiega così, senza tante storie, e chiaramente allude alla paura della morte che da sempre è anche una pulsione, un avvicinarsi a ciò che si scongiura per le vie intrattabili della trasgressione, se non del peccato.

        

Non è solo una questione di regole, regolette, misure del governo, amministrazione dell’inaudito profilo sanitario della vita civile, non è solo che è stata una sorpresa oppure lo sapevamo e non ci siamo preparati, e via con i sensi di colpa che si alternano alla nozione magica, alchemica, dell’infezione universale. E’ che viviamo contemporaneamente in uno stato di sobrietà normativa imposta, che addirittura trova nelle proibizioni il nome guerresco o terroristico di coprifuoco, e in un potenziale impasto di oblio che fa della movida il porto sepolto di una lunga attesa e di una rotta ignota, quanto lunga non si sa, come curarla non si sa. Quella storia di quattro quarantenni che alternano veglia e sbronza, e scelgono una via clandestina per la fuga dal loro grande e secco e freddo nord, una bella storia e ben raccontata, parla della nostra sobria nevrosi, della nostra disciplina sociale, della solidarietà e dei doveri ai quali possiamo far fronte seriamente soltanto se ne intuiamo lo sfondo tragico.

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