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Nero su nero

<p>Mentre l&rsquo;occidente emenda il razzismo come pu&ograve;, turbato ma non ancora convinto, Beyonc&eacute; lo sradica. &ldquo;Black is King&rdquo; riscrive &ldquo;Il Re Leone&rdquo; e ne fa la storia primigenia dell&rsquo;Africa. Non senza polemiche</p>

Simonetta Sciandivasci
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L’origine è la meta, Karl Kraus aveva ragione. L’origine è nera. Al Black lives matters manca questo passo, questo viaggio a ritroso: il Back to Black. Lo ha fatto Beyoncé nel suo film, “Black is King”, il visual album della colonna sonora di “The Gift”, remake del “Re Leone” che l’anno scorso era uscito al cinema e aveva richiamato adulti e bambini a rivedere la storia del mondo, delle sue razze, dei suoi regni. Un Out of Africa più largo di quello a cui si riferiscono alcuni scienziati quando vogliono intendere che l’uomo è nato nel grande continente e da lì s’è poi spostato, andando a popolare e abitare il pianeta.

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Mentre l’occidente emenda il razzismo come può, e lo fa nel suo modo genitoriale, rammagliante, accondiscendente e preoccupato ma non ancora convinto, né realmente coinvolto, Beyoncé lo sradica. L’occidente nomina capi neri, aggiusta le quote, redistribuisce il potere, toglie ai bianchi per dare ai neri, punta al bicameralismo cromatico perfetto perché spera, in sostanza, che la disuguaglianza stia solamente negli occhi di chi guarda e che per questo sconfiggere il razzismo sia possibile rappresentando tutti i colori dell’umanità, distribuendoli equamente. Questa uguaglianza così contrattualizzata, sindacalizzata, e di fatto forzosa, a Beyoncé non interessa. Sa che è un certificato e che ogni certificato presuppone una divisione, uno schema di subalternità: c’è sempre un richiedente e un elargitore; c’è sempre un giudicato e un giudicante: entrambi si rifanno a un paradigma, a una convenzione che non hanno deciso, né stipulato, ma a cui devono devono aderire. Beyoncé si tira fuori dal cul de sac e non descrive un mondo di uguali ma di collegati. E’ il collegamento che ci affratella, non l’uguaglianza. Il fatto di sangue che c’è tra i viventi è il collegamento. Il fatto è incontestabile, per questo Beyoncé lo racconta.


Fa incarnare il grande cerchio della vita da uomini, donne, bambini neri che camminano, ballano, migrano, giocano


 

L’uguaglianza, invece, è un patto di sangue: viene dopo, con tutti i problemi di autenticità, paternità, legittimità che ogni patto reca con sé, e che determinano divisioni, scremature, ruoli, differenziazioni e tutte le altre cose che, faticosamente, stiamo cercando di correggere e riequilibrare.

 

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“Tutto ciò che vedi coesiste grazie a un delicato equilibrio. Devi capire questo equilibrio e rispettare tutte le creature, dalla formica alla gazzella”. Il grande cerchio della vita che Beyoncé fa incarnare da uomini, donne, bambini neri che camminano, ballano, migrano, giocano, talvolta semplicemente si guardano e, soprattutto, si lasciano guardare. “Siamo sempre stati meravigliosi”, dice. “Essere re significa riprendersi ciò che è nostro”. L’orgoglio nero stavolta non chiede un posto accanto al potere bianco, non chiede un’inclusione: vuole il palco.

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Dopo la morte di George Floyd, il mondo bianco porge l’altra guancia per dipingerla di nero. Il mondo nero rifiuta l’offerta, forse fa l’esatto contrario. “Black is King” è il primo film nero sui neri: non sono neri soltanto gli autori e i registi. E’ nera la storia. Hollywood ha raccontato la discriminazione, l’apartheid, l’Africa, il razzismo, ma lo ha fatto sempre dal punto di vista dei bianchi. Lo ha fatto per coscienza, per rimborso, per senso di colpa. O almeno così viene contestato.

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“Cry Freedom”, “The Power of One”, “The color Purple”, persino “La mia Africa” e “Il Principe d’Egitto” sono oggi “opere anglo-americane spesso prive di un’autorevole voce africana o non bianca, mentre ‘Black is King’ è disinteressato allo sguardo bianco”. Così ha scritto Vulture, evidenziando tuttavia che questa attenzione all’inoppugnabilità e all’inclusione rischia di dare al lavoro di Beyoncé un incarico politico per il quale una HipHop Opera, per quanto travolgente, efficace, inedita non può che risultare inadeguata. Beyoncé è un popstar, non un capo di stato. Sembra un’attivista, ma è una divulgatrice. “Black is King” è infatti soprattutto questo: ostensione, racconto, divulgazione. Vi facciamo vedere che i film sull’Africa si possono fare con gli africani. Che una storia del mondo si può ricostruire ricorrendo solo e soltanto a rimandi africani, strutture africane, filosofie, versi, quadri, colori: tutto africano. Ma è forma, è estetica.


Per Beyoncé il bene e il male compaiono insieme perché tutto è scambio, tra di loro non c’è una battaglia, ma una conversazione


 

Beyoncé non se lo sarebbe forse aspettato, e probabilmente non se ne cura, ma da giorni Twitter le contesta l’appropriazione culturale (incredibile, proprio a lei, la prima che fa fare un film nero sui neri per i bambini di tutto il mondo, destinato a Disney Plus): come si permette questa di riscrivere il Re Leone, di farne la storia primigenia dei popoli, la storia primigenia dell’Africa, se è nata a Houston, in Texas, e in Africa non ci è neppure mai stata in vacanza? La accusano anche di aver proposto un’immagine distorta, falsata, megalomane, disattenta alle differenze (vai per unificare e livelli, vai per differenziare e discrimini: non se ne esce). L’Africa di Beyoncé non esiste. E’ un sogno, una visione, un musical. Non esisterebbe neanche motivo di assentire alle critiche che la stanno travolgendo se soltanto lei fosse riuscita a esimersi dall’opera mondo, dall’antidoto al razzismo, dalla proposta di una nuova via, dalla riscrittura di una nuova semantica visiva. Se soltanto Beyoncé fosse esclusivamente una pop star, e non il simbolo della rinascita nera. Se soltanto quella rinascita Beyoncé non la facesse coincidere con il suo potere, la sua influenza. Ma Beyoncé non può arretrare.

 

La sua musica è marketing, e il suo marketing è attivismo. La prima a portare sul palco di un evento pop mondiale le parole di Chimamanda Ngozi Adichie, “Dovremmo tutti essere femministi”, è stata lei. Era il 2014, aveva appena ricevuto un premio agli Mtv Video Music Award e stava cantando un medley di sue canzoni con addosso un body Tom Ford ingioiellato. Poche settimane dopo, “Dovremmo essere tutti femministi” cominciò a riempire status, magliette, sfilate di moda, discorsi, interviste.

 

Da istanza, teoria, pensiero, il femminismo si fece imperativo socioculturale e, soprattutto, etichetta identitaria. Dirsi femministe diventò cool. Un dato irrinunciabile ai fini della propria presentabilità sociale, una tessera di partito per il partito degli intoccabili. Soprattutto, il femminismo cominciò a far vendere. Più del sesso. La blackness di Beyoncé segue la medesima logica, punta a ottenere il medesimo risultato, ma in una scala più grande, più imponente e, a tratti, sembrerebbe persino più assoluta, quasi autoritaria. L’aspetto che a Beyoncé non è stato contestato (difficilmente accadrà), è l’esaltazione della superiorità nera. Dopo lo svelamento delle origini africane, a un loro racconto che si muove tra la paccottiglia e la visual art più raffinata, tra l’hip hop e la lirica, tra il monumentale e il familiare, tra il paleontologico e il futuristico, Beyoncé conduce sicura lo spettatore verso la magnificazione di sé, che s’irradia nella progenie che le gravita intorno e che è la sua, chiaramente discende da lei (al pubblico viene fornito qualche elemento per pensare di discendere da quella progenie, ma in modo assai soffuso, per non dire confuso). Beyoncé è una pop star, ma è anche una regina social. Un’influencer. Come ogni grande influencer mondiale, non parla con la stampa, non rilascia interviste e, soprattutto, sa che ciò che più conta è ispirare il pubblico, inorgoglirlo.


Dopo la morte di George Floyd, il mondo bianco porge l’altra guancia per dipingerla di nero. Il mondo nero rifiuta l’offerta


 

La seconda parte del film è ricca di sequenze che non sono che foto, fermi immagine che durano minuti e vengono proposti come fossero lo sfoglio di un album: ritraggono famiglie nere, numerose, felici, potenti. Come quella di Beyoncé. Tutte le famiglie nere si assomigliano, ogni famiglia nera è nera al modo di Beyoncé. Un modo fiero, intenso, commosso, ricco, luccicante, vario, ma identitario e quindi superbo. La stessa voce fuori campo che conduce il racconto, intrecciandosi a quella di Beyoncé, dice mentre quegli album vengono sfogliati: “Siamo sempre stati meravigliosi”, “Noi eravamo bellezza prima ancora che loro sapessero cosa sia la bellezza”, “Ci è stato tolto tanto, essere re significa riprenderti ciò che è tuo”, “Dobbiamo prenderci la responsabilità di superare la barriera in cui ci hanno confinati, dobbiamo farlo per le nuove generazioni”. Quell’emozionante, bellissimo collegamento nel quale all’inizio del film Beyoncé vedeva gli esseri viventi uniti per la vita, improvvisamente svanisce, sostituito dall’esaltazione identitaria, dal pride. Non dice più che non è facile essere neri se non sai come farlo: dice proprio che non puoi essere nero se non sei nato nero, e non lo dice soltanto come fosse l’evidenza neutra che è, lo dice per indicare un privilegio che si tradurrà in potere, se soltanto i neri riusciranno a scollarsi di dosso la paura, la modestia, la contenutezza, la subalternità che hanno introiettato dopo secoli di schiavitù, quella stessa schiavitù che, in uno dei suoi deliri, Kanye West aveva detto essere responsabilità di africani e afroamericani: “Quando senti dire che la schiavitù è durata circa 400 anni… quattrocento? Sembra una scelta. Sei stato lì per quattrocento anni e per te è tutto? E’ come se fossimo mentalmente incarcerati”. In quel periodo i rapporti tra West e sua moglie Kim Kardashian e Beyoncé e suo marito Jay-Z cominciarono a incrinarsi ancora di più, andandosi ad aggiungere alle uscite pubbliche di West sulla concorrenza tra lui e Queen Bey, la galoppante impresentabilità sociale di West, alla quale non molti giorni fa Kim Kardashian ha tentato di dare una spiegazione, raccontando il disturbo bipolare del marito.

 

A casa Beyoncé mai una grinza, invece. A parte quelle che ci vedono i cronisti pauperisti, che li accusano di essere un’industria spietata, due artisti che usano l’arte per costruirsi un impero privato continuamente in espansione. Non che ai coniugi importi una sillaba di queste obiezioni. La loro reazione al subbuglio nel mondo nero, però, non è affatto detto che non arrivi: ignorarla potrebbe essere controproducente.

 

L’Africa sognata e idealizzata di “Black is King” è politica, ma non ha a che fare con l’Africa vera, è un’astrazione. Non dice nulla di quello che ci succede dentro, ne ignora i flagelli: Beyoncé la usa per aggiustare ciò che le sta intorno. Tuttavia, c’è un’Africa che esiste e, in questo periodo in particolare, urla. Il Guardian ha raccontato la scorsa settimana del gran numero di rapper africani che negli ultimi anni affiancano alla protesta un’attività politica che non è soltanto militanza, ma pure tentativo di costituirsi in partito, guidare le persone, entrare nel palazzo. Non sarebbero i primi: farebbero seguito alla grande tradizione di musicisti africani impegnati direttamente in politica (aprifila di spicco: il nigeriano Fela Kuti, che inventò l’afrobeat e si batté per il panafricanismo, i diritti dei neri, l’abbattimento delle dittature africane per tutta la vita, dentro la Nigeria e fuori dalla Nigeria, dall’Europa e soprattutto dagli Stati Uniti, fu tra i primi musicisti nella storia del continente a tentare di candidarsi). In Uganda un importante deputato dell’opposizione, Bobi Wine, è un musicista. Tra i candidati che, alle elezioni del prossimo anno, sperano di mandare a casa Yoweri Kaguta Museveni, presidente dal 1986, c’è lui. Un rapper. L’anno scorso, in Nigeria s’è presentato alle elezioni Banky W. Rapper, anche lui. E’ stato sconfitto, ma non conta (non per lui, almeno, che non ha mollato la piazza un momento).

 

I giovani africani chiedono ai musicisti che amano di intervenire: riconoscono loro un potere di coinvolgimento che nessun altro ha su quelle popolazioni. Niente di tutto questo entra, neanche come accenno, nel lavoro di Beyoncé, che a questo punto è una terza via, tra l’Africa che fa da sé, e non può contare su nessun supporto esterno, perché nessuno la aiuta, e prima che dal razzismo ha bisogno di essere liberata da guerre, miseria, fame, dittatori, e il senso di colpa occidentale, che nomina regista del sequel di “Captain Marvel” una donna nera, Nia Da Costa, impone ad Anna Wintour di scusarsi a nome della Condé Nast per aver discriminato i dipendenti di colore, fa chiedere al sindacato dei giornalisti del New York Times che ogni articolo venga sottoposto, prima di essere pubblicato, a “sensitivity reads”, letture attente a scovare discriminazioni reali, percepite, percepibili, involontarie, di modo da eliminarle – o eliminare del tutto l’articolo. Ogni giorno un qualche ufficio, capo, dirigente viene accusato di mancanza di inclusione, discrezionalità, diversità di trattamento di bianchi e neri. A questo mondo così pentito, terrorizzato, allarmato, che cerca la pace preparando la guerra, Beyoncé toglie il campo minato da sotto i piedi e dice: il bene e il male compaiono insieme perché tutto è scambio, tra di loro non c’è una battaglia, ma una conversazione. Una conversazione su un mondo dove si muore per un niente, perché si è nati nel posto sbagliato con la pelle sbagliata.


Da giorni Twitter le contesta l’appropriazione culturale. Ma l’Africa di Beyoncé non esiste. E’ un sogno, una visione, un musical 


 

“Bentornato a casa da te stesso, lascia che nero sia sinonimo di gloria”, dice Beyoncé fuori campo, mentre battezza un neonato in riva a un mare irriconoscibile, il mare di tutti i mari, il primo mare del mondo. Ed è così bella che vorremmo fosse nostra regina, nostra e di tutte le galassie, inclusa l’Africa che però non la vuole, non la conosce neppure. Se solo bastasse una regina.

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