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Statue da innalzare

Maurizio Stefanini

Altro che damnatio memoriae. La storia americana è piena di personaggi che meriterebbero di essere ricordati, come l’indiano Ely Samuel Parker

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Modesta proposta non solo per gli Stati Uniti, ma anche per tutti coloro che sono stati contagiati dal furore iconoclasta dei Black Lives Matters ormai pure in Europa o in Italia: piuttosto che buttare giù statue, non si potrebbe dare un grande messaggio contro il razzismo innalzandole? Ad esempio, come risposta al dramma di George Floyd, riempire gli Stati Uniti con monumenti a Ely Samuel Parker. Chi era Ely Samuel Parker? Ecco: forse il fatto che non sia universalmente conosciuto come altri personaggi oggi contestati è il problema. Utile dunque raccontare la sua storia, ma non partendo dall’inizio, bensì da quando aveva 37 anni.

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Modesta proposta non solo per gli Stati Uniti, ma anche per tutti coloro che sono stati contagiati dal furore iconoclasta dei Black Lives Matters ormai pure in Europa o in Italia: piuttosto che buttare giù statue, non si potrebbe dare un grande messaggio contro il razzismo innalzandole? Ad esempio, come risposta al dramma di George Floyd, riempire gli Stati Uniti con monumenti a Ely Samuel Parker. Chi era Ely Samuel Parker? Ecco: forse il fatto che non sia universalmente conosciuto come altri personaggi oggi contestati è il problema. Utile dunque raccontare la sua storia, ma non partendo dall’inizio, bensì da quando aveva 37 anni.

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Torniamo dunque al 9 aprile 1865, domenica delle Palme, a Appomattox Court House, in Virginia. Alle 4 del mattino gli ultimi resti di quella parte dell’esercito confederato che è agli ordini diretti del comandante supremo, generale Robert Edward Lee, hanno fatto un estremo tentativo per sfondare l’accerchiamento nordista, ma presto è stato chiaro che è impossibile. “Non c’è nulla da fare se non recarsi a vedere il generale Grant”, sbotta Lee. “Avrei preferito morire di mille morti”. Alle 8 del mattino Lee parte a cavallo verso il suo grande avversario accompagnato da tre aiutanti di campo, mentre cannonate e spari echeggiano ancora. Mentre cavalca, gli arriva un messaggio di Grant. Alle 11 e 50 giunge a Grant la sua risposta. In cambio di un cessate il fuoco, i sudisti discuteranno i termini di una resa incondizionata.


Per caso aveva fatto amicizia con un garzone depresso, ex ufficiale cacciato dall’esercito per il vizio del bere: Ulysses Simpson Grant


 

Il colonnello Charles Marshall è mandato in avanscoperta, a cercare una casa dove l’incontro possa aver luogo. Viene scelta l’abitazione di Wilmer McLean, che ormai ha fatto il callo a ospitare generali. Il 21 luglio di quattro anni prima, all’epoca della battaglia di Bull Run, che è stata il primo grande scontro della guerra, l’ha già messa a disposizione di Pierre Gustave Toutant Beauregard, il famoso generale sudista discendente da una famiglia francese arrivata in Louisiana ai tempi del Re Sole. Famoso per la sua eleganza, la bellissima testa bianca, Lee è vestito con un’immacolata uniforme grigia nuova, gli stivali perfettamente puliti e una sciarpa rossa, e ha ai fianchi una sciabola con l’elsa d’oro cesellato.

 

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Grant si presenta alle 13 e 30. Nato in una capanna di tronchi e figlio di un conciapelli, pessimo studente a West Point, arrivato 21esimo in una classe di 39, già cacciato dall’esercito per ubriachezza, vi è stato riammesso all’inizio della Guerra Civile giusto per la disperata carenza che il Nord ha di ufficiali. Ha continuato a bere ma ha scalato la carriera fino al massimo grado, e ogni volta che gli ricordano il vizio di Grant Lincoln risponde: “Scoprite la sua marca di whisky preferita e mandatene qualche barile agli altri generali, così magari iniziano a vincere pure loro!”. A quell’appuntamento storico arriva in uniforme da soldato semplice, gli stivali infangati e la faccia ancora stravolta per una delle terribili emicranie cui è soggetto, anche se poi dirà che gli è passata subito non appena letta la lettera di Lee. Nello stringere la mano, sente il bisogno di giustificarsi per il suo aspetto trasandato: “Il mio bagaglio personale è rimasto indietro”. I due ricordano un altro loro incontro di tanti anni prima, quando entrambi avevano combattuto nella guerra contro il Messico. Poi Grant presenta gli uomini del suo stato maggiore.

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Uno per uno il gentiluomo del Sud saluta e stringe la mano, con le sue maniere flemmatiche e un po’ tristi, fino a quando non arriva al brigadier generale Ely Samuel Parker; un geniere che di Grant è diventato segretario. Non dice niente, ma tutti notano che nel guardare quella faccia scura è stupefatto. Si può immaginare quello che pensa: “Un negro? Hanno fatto generale un negro apposta per mettermelo davanti al momento della resa?”. Indubbiamente, l’umiliazione per il Sud schiavista sarebbe profonda. Se vogliamo, meritata. Ma poi Lee guarda meglio, e in qualche modo si rassicura. Ha la faccia scura, ma non è un negro. Ma sì: è un indiano! Il Brigadier Generale Ely Samuel Parker infatti ha preso quel nome per interagire con i bianchi, ma il nome con cui è nato nel 1828 nella riserva indiana di Indian Falls, nello Stato di New York, è Hasanoanda, “Il Lettore”, perché i genitori hanno deciso che dovrà studiare nelle scuole dei bianchi, in cui sarà un primo della classe. Ma ha anche un terzo nome, che ha assunto quando nel 1853 è diventato sakem dei Seneca: Donehogawa, che in irochese significa “Custode della porta occidentale”.

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Parker spiega agli Indiani che è loro interesse entrare da protagonisti nel sogno americano, ma veglia perché l’affare sia fatto senza imbrogliarlo


 

Appartenente all’aristocrazia tribale, Hasanaonda era figlio di una delle matriarche il cui consiglio doveva per tradizione scegliere i capi della Confederazione Irochese, con facoltà di revocarli in ogni momento. Tra i suoi avi diretti era stato il famoso “profeta” e riformatore religioso Hansome Lake, fratello dell’altrettanto famoso capo Complanter. L’altro grande capo Giacca Rossa era un suo prozio, che da bambino lo visitava spesso per raccontargli storie. Perfettamente partecipe della cultura ancestrale della sua gente, era stato lui a 23 anni il principale informatore grazie al quale il pioniere dell’etnologia e antropologia americana, Lewis Henry Morgan, aveva scritto il libro sulla Lega degli Irochesi che è il punto di inizio dei moderni studi sugli Indiani d’America, e che è infatti gli è dedicato. Ma proprio perché quelle memorie orali le conosceva bene, Hasanandoa sa bene che il “buon selvaggio” non è mai esistito, e non idealizza affatto il passato. Quattro anni prima della sua morte, nel 1891, farà un famoso discorso a Gettysburg, in cui spiegherà come prima dell’arrivo dei bianchi le tribù indiane erano state tra di loro in uno stato di guerra continua e ferocissima, che aveva visto da ultimo i Delaware soccombere di fronte agli Irochesi. Aveva però pure ricordato che all’arrivo degli europei gli Indiani li avevano accolti con tutti i riguardi, considerandoli quasi essere divini. Ma ne erano stati spessi ricambiati con ostilità e avidità.

 

Insomma, secondo lui il modello degli Stati Uniti offriva effettivamente la possibilità agli Indiani di vivere meglio, e gli Indiani dovevano fare ogni sforzo per integrarsi. Ma d’altra parte la società americana doveva rispettare la loro identità, e doveva valorizzare le capacità di tutti senza guardare al colore della pelle. Che non fosse una cosa facile, Hasanandoa lo aveva realizzato quando si era messo a studiare Diritto. Dopo tre anni, quando provò a iscriversi come avvocato, lo respinsero in quanto Indiano. Senza piangersi addosso, si era allora messo a studiare Ingegneria. Là gli Stati Uniti erano in piena febbre di costruzione di canali e ferrovie, e i datori di lavoro erano meno schizzinosi. Era stato lui uno dei realizzatori del famoso Erie Canal. Ci aveva fatto anzi un bel gruzzolo, con cui aveva comprato una fattoria e si era messo ad allevarci cavalli. Ma poi era stato richiamato a lavorare per un altro canale in Virginia, ed infine era stato assunto dal dipartimento al Tesoro, che lo aveva mandato nel West. Nel 1857 era arrivato in Illinois, per costruire una nuova dogana. E andando in un negozio aveva fatto amicizia con un depresso garzone che era poi un ex ufficiale cacciato dall’esercito per il vizio del bere. Sì, proprio Ulysses Simpson Grant!

 

Nel 1862, dopo lo scoppio della Guerra Civile, aveva dato le dimissioni dal Tesoro per tornare nello Stato di New York. Aveva offerto di arruolare un reparto di Indiani al suo comando, e lo avevano liquidato con disprezzo. Si era allora rivolto al segretario di Stato William Henry Seward, spiegando che poteva essere utile al nuovo corpo del Genio che l’esercito federale stava approntando. “Non abbiamo gradi di ufficiale per Indiani”, gli aveva risposto a brutto muso. E allora Parker se ne era tornato ad allevare cavalli nella sua fattoria.


Il generale Ely Samuel Parker ha preso quel nome per interagire con i bianchi, ma è nato nel 1828 nella riserva indiana di Indian Falls


 

Ma intanto l’ex garzone Grant stava scalando gradi, e comunque il bisogno di ufficiali qualificati si era fatto più impellente. Nel maggio 1863 Parker era stato infine accettato come capitano, ed era stato mandato sul fronte di Vicksburg, nello stato maggiore del suo amico. Era risultato che l’Indiano studente modello scriveva in inglese molto meglio del comandante, e quindi era diventato il segretario di Grant, autore di tutta la sua corrispondenza. Nel contempo era diventato il vero comandante del Genio dell’Unione, abilissimo supervisione allo scavo di trincee, all’edificazione di bastioni e alla sistemazione delle artiglierie. Insomma, mentre i gentiluomini del Sud in nome della supremazia bianca mandavano al macello i loro uomini in cariche di cavalleria e alla baionetta da selvaggi, era stato il sakem ingegnere l’artefice di un conflitto tecnologico che aveva anticipato la Grande Guerra, e triturato la macchina militare sudista.

 

Ma questo Lee non lo sa. Semplicemente, preso in contropiede, dopo essersi assicurato che dopo tutto quel generale nordista non è un negro, per darsi un contegno se ne esce con una frase che vuole essere cortese. “I am glad to see one real American here”, “Sono lieto di vedere che qui c’è un vero Americano”. E allora Parker risponde con una battuta da leggenda: “We are all Americans!”. “Siamo tutti americani!”. Tutti, i bianchi nordisti e sudisti che fino a qualche ora prima si sono ammazzati e che ora devono tornare a essere cittadini dello stesso paese; gli schiavi liberati; il sakem indiano che redigendo col suo inglese forbito i termini della resa sta ponendo fine alla guerra.

 

155 anni dopo, quella frase pronunciata da Parker significa ancora che i neri hanno diritto a non essere massacrati dalla polizia. Ma anche gli italo-americani hanno il diritto a vedere salvaguardare quei monumenti a Colombo che segnarono l’affermazione della loro identità, gli ispanici che hanno il diritto a vedere salvaguardati gli altri monumenti che ricordano il ruolo degli spagnoli nel sud-ovest degli Stati Uniti, in generale una maggioranza di americani che non può vedere smantellata tutta una storia, certo spesso difficile e complessa, ma che ha costruito una società in cui sono integrate genti da tutta la terra.

 

Anche Lincoln la pensava a quel modo. Una delle prime cose che chiese dopo la resa fu che la banda della Casa Bianca gli suonasse l’inno sudista “Dixie”: “E’ una bella canzone, mi è sempre piaciuta”, spiegò. Grant a sua volta chiese ai suoi soldati di non festeggiare mentre Lee se ne andava, offrì agli affamati soldati sudisti 25.000 razioni, e diede loro anche il diritto di portarsi a casa i cavalli. “Ne avranno bisogno in campagna per i lavori della primavera”, disse.

 

Ma la straordinaria storia del sodalizio tra Grant e Parker non si è ancora conclusa. Pur restando ancora nell’esercito, il sakem ingegnere fa da consulente per stipulare nuovi trattati di pace con tribù che trovandosi nel Sud per convenienza o per forza hanno combattuto con i Confederati. Ma nel frattempo problemi si stanno creando con le tribù che nell’ovest si trovano sul percorso della nuova grande ferrovia transcontinentale. Il 21 dicembre 1866 un reparto di 81 soldati americani al comando del capitano William Fetterman è completamente massacrato dai sioux di Nuvola Rossa nella Battaglia dei Cento Uccisi. Il 6 novembre del 1868 il governo americano è costretto a firmare con Sioux e Arapaho quel Trattato di Fort Laramie con cui si impegna a sgomberare i forti dal loro territorio, in cambio dei diritti di passaggio per la ferrovia. Intanto Grant è stato eletto presidente , e si insedia il 4 marzo 1869. Subito nomina Parker commissario dell’Ufficio degli Affari Indiani che è l’organo federale incaricato di gestire gli affari dei nativi. In pratica, un ministro per gli indiani. Il primo, e tutt’ora l’ultimo a essere un indiano a sua volta: 45 anni prima che agli indiani sia data la cittadinanza; quasi un secolo prima della stagione dei diritti civili. In questa veste diventa lui il grande garante degli accordi di pace con il capo sioux Nuvola Rossa, che fa viaggiare a Washington con altri capi in modo da fargli incontrare il presidente. Pure Parker fa correggere il testo degli accordi, quando verifica che con la scusa della traduzione a Nuvola Rossa hanno fatto firmare qualcosa di diverso da quanto gli hanno detto.


“Sono lieto di vedere che qui c’è un vero americano”. E lui risponde con una battuta da leggenda: “We are all americans!” 


Insomma, Parker spiega agli Indiani che è loro interesse entrare da protagonisti nel sogno americano, ma veglia pure perché l’affare sia fatto senza imbrogliarlo. Per questo è il grande avversario del possibile sfruttamento minerario delle Black Hills del Dakota, terreno di caccia sacro dei Sioux. Va da sé che razzisti e affaristi si scatenano e montano contro di lui uno scandalo. Parker è pienamente assolto, ma preferisce dimettersi. Senza di lui sulle Black Hills si scatena la speculazione che porterà alla violazione degli accordi di pace, alla rivolta di Sioux e Cheyenne e alla battaglia del Little Big Horn, dove è annientato il Settimo Cavalleggeri di George Armstrong Custer. Il colonnello maneggione che ha trafficato con gli interessi minerari che hanno fatto saltare Parker.

 

Per un curioso scherzo del destino, la stessa crisi economica che nel 1873 ha pompato la “corsa” alle Black Hills ha distrutto la fortuna di Parker, che per diventare commissario agli Affari Indiani ha rinunciato al grado. Per dargli una mano lo nominano allora nel Board of Commissioners of the New York Police Department’s che gestisce la polizia della Grande Mela. Morirà nel 1895.

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