Lo smart working è la fine non del lavoro bensì del consumo: il crollo dell’indotto della fettina panata e della foglia d’insalata (nella foto LaPresse, Nina Moric a Milano)

Tavolini selvaggi

Michele Masneri

Da Milano a Roma, né con l’ufficio né con lo smart working. La pandemia ha sconvolto la vera istituzione dell’Italia produttiva: la pausa pranzo

“Tutti in ufficio!”, urla Beppe Sala, come un visconte Cobram (“Tutti in sella!”) ai suoi dipendenti/ciclisti, nella Milano che è ormai un’unica grande ciclabile, mentre si pedala in qualunque direzione tranne che verso il posto di lavoro.

 

Il rischio è che con tutti in smart working il rito e il topos identitario della pausa pranzo vada a ramengo, soprattutto a Milano

“E’ ora di tornare a lavorare”, ha intimato il sindaco, offendendo tutti i sinceri smartworker che si son sentiti dare dei lavativi. Ma chissà che ne sarà di questa Milano e questa Italia di uffici e di impiegati, ora che con lo smartworking nessuno vuole tornarci più nell’orrido luogo, che sia l’urfido open space o l’angusto cubicolo. Poi Sala si è scusato, ha rettificato, non voleva dire quello, però è chiaro che ciò che terrorizza, non solo il sindaco di Milano, è la fine non del lavoro bensì del consumo: il crollo dell’indotto della fettina panata e della foglia d’insalata. Un indotto su cui Milano ha costruito tanto del suo successo, forse più che col Salone del Mobile: bar e baretti e tavole calde, con cassa di risonanza di blog e Instagram e siti che consigliano e recensiscono e ratificano posti. Se di notte i rider si accapigliano per tornare nei loro suburbi coi pullman (sui treni li scacciano, perché le loro #blacklives non valgono abbastanza), a mezzogiorno il rischio è che con tutti in smart working il rito e il topos identitario della pausa pranzo vada a ramengo. Rito non solo ambrosiano ma italiano, italianissimo, uno dei pochi condivisi su tutta la penisola. A Torino infatti subito la Confesercenti del Piemonte ha tuonato: “Fermate lo smart working!”; “Prendiamo Sala a modello!”, e poi ha spiegato: “Mancano diecimila impiegati all’appello per la pausa pranzo”. (Segue petizione su Change.org). E dunque bisognerà pensare seriamente a come risolvere il problema, a come trovarli, nuovi impiegati affamati. Certo, si avranno anche effetti positivi di lungo periodo, non solo meno traffico, ma anche meno petti di pollo, crisi degli allevamenti intensivi, e forse dunque benefici effetti sull’ambiente. Ma “l’effetto Grotta” di cui parla Sala necessiterà di grandi operazioni keynesiane? Concorsi di massa di impiegati magari part-time, assunti solo in orario meridiano, per sfamarsi in ristoranti e bar?

 

  

La pausa pranzo è istituto fondamentale della Costituzione materiale italiana, dunque naturalmente esiste una legislazione esaustiva: il decreto in materia di orario di lavoro (Dlgs. n. 66/2003) prevede il diritto godere di una pausa finalizzata “al recupero delle energie psico-fisiche; alla consumazione del pasto; ad attenuare la monotonia dell’attività lavorativa”. Se non abbiamo il diritto alla felicità, verso mezzogiorno arriva qualcosa di simile. Secondo una ricerca di Nomisma di quest’anno, il 49 per cento dei lavoratori dedica alla pausa pranzo tra i 30 e i 40 minuti, ma non manca chi sostiene di avere ancora meno tempo a disposizione: il 21 per cento dice di riservare a questo momento della giornata meno di 20 minuti. La ricerca non sembra registrare differenze regionali, equiparando il culto lombardo del “panino in piedi” (seppur gourmet) alla dilatazione prandiale romana. Il 43 per cento dei lavoratori mangia in ufficio almeno 2 o 3 volte a settimana, contro un’altra consistente percentuale (45 per cento) che riesce a tornare a casa, mentre il 35 per cento va in mensa. “Salutismo e benessere si riscontrano anche nelle scelte dei lavoratori: il 38 per cento si è orientato verso piatti light, il 34 per cento verso menù naturali o biologici e il 23 per cento verso alternative ipocaloriche”. Anche qui, inversioni di tendenza: se durante il lockdown ci siamo scoperti un paese di panificatori, e la preparazione dei pasti era l’unico obiettivo delle nostre giornate (fare la coda per la spesa, pagare, cucinare, lavare “piatti e mani”, cit.), difficile adesso tornare alla cotoletta avvizzita e alla quinoa riscaldata al microonde. Qui Nomisma non conferma, ma forse sull’impossibile ritorno all’ufficio pesa proprio il non poter più farsi la matriciana a casa.

  

Una mancata schiscetta causa un tornado a Wall Street. Sarà un caso, ma proprio il gruppo americano Tupperware è in crisi nera

Già, ma che fare dunque? Quando si potrà tornare alla normalità? Il paese fondato sulla pausa pranzo si interroga. E la crisi dell’indotto non è da sottovalutare: non ci sono solo bar e ristoranti. Il 65 per cento dei lavoratori si porta in ufficio cibo cucinato da casa. Che ne sarà dunque della tragica schiscetta? Del micidiale Tupperware con le verdure lesse che all’apertura scatenano una nube di particelle acquose sugli incolpevoli colleghi? Una mancata schiscetta a Milano causa un tornado a Wall Street. Sarà un caso, ma proprio il gruppo americano delle scatole di plastica è in crisi nera, e a fine maggio ha proposto un piano di rientro dagli enormi debiti accumulati. Le azioni della società fondata da Earl Tupper nel 1946 sono crollate. Un altro marchio che sembra risentire della crisi dell’ufficio è Brooks Brothers: negli anni Ottanta gli impiegati italiani correvano in pellegrinaggio al negozio di Madison Avenue per sentirsi un po’ “Mad Men” ante litteram (copiando le camicie con bottoncini indossate dall’Avvocato). Ma adesso il marchio, da anni in mani italiane, starebbe per licenziare un sacco di dipendenti (e, dunque, ulteriori crisi di pause pranzo). E’ un circolo vizioso: e i motivi della crisi sartoriale saranno ben altri, però certo chi avrà voglia oggi di comprarsi cappotti e doppiopetti e annodarsi cravattoni al collo, con bottoni o senza, dopo aver scoperto la felicità in tuta?

   

Bei tempi, gli anni Ottanta: erano il sogno dell’ufficio; 40 anni fa usciva al cinema “Nine to five”, da noi “Dalle nove alle cinque orario continuato” (la specifica serviva probabilmente a spiegare al pubblico italiano che non c’era chiusura per pausa pranzo). Jane Fonda, Lily Tomlin e Dolly Parton al suo debutto sullo schermo raccontavano la storia di tre segretarie coalizzate contro un capo che sembra l’assessore milanese Massari. La stessa Parton, che oggi molti in America vorrebbero monumentalizzata al posto delle statue sudiste, cantava la canzone poi leggendaria (“Workin’ 9 to 5, what a way to make a livin’ / Barely gettin’ by, it’s all takin’ and no givin’ / They just use your mind and they never give you credit / It’s enough to drive you crazy if you let it”). Ma già Fantozzi aveva anticipato tutti, insultando una statua, addirittura di femminile: la mamma del megadirettore naturale (e veniva poi redarguito ovviamente in sala mensa).

 

“E’ stato chiamato smart working, ma forse un po’ impropriamente”, ha precisato Sala, che ormai ha adottato la strategia comunicativa della toppa peggiore del buco. Ma ci vuole davvero poco a sfottere adesso Sala, ormai abbandonato da tutti e soprattutto dai suoi più entusiasti fan degli inizi. Per dire: lo stilista argentino-milanese Marcelo Burlon, che con il suo marchio “County of Milan” è pura costituency beppesalica, ha attaccato il povero sindaco su Instagram, sostenendo che questi ormai non lo rappresenta più, e che “toglierà le sue donazioni al comune”. Siamo al #defundSala, addirittura. Ma si sa che per i sindaci è un momentaccio in generale: la sovraesposizione coatta, col tatuaggio e il gin tonic in mano, lo scivolamento instagrammatico che prima faceva sognare o veniva tollerato, quello che aveva trasformato taluni di loro in testimonial, in influencer, adesso viene percepito come solitostronzismo suprematista. Il New York magazine ha messo in croce il sindaco Bill De Blasio, con titolo “Tutti odiano Bill”, e tutti qui hanno pensato a Beppe (e non si vorrebbe qui scadere nel “l’avevamo detto”: piuttosto stupiscono questi sentimenti così vivaci e compatti; prima, innamoramenti velocissimi e assoluti, con stigma per chi osa criticare. Dopo, tutti ugualmente allineati nella condanna).

  

A Roma, capendo la malaparata, la Raggi è stata furbissima, fingendosi morta e lasciando parlare le buche

Sentimenti incomprensibili vivendo nella landa della disillusione, dove l’unico sindaco amato è quello morto, Petroselli. A Roma, capendo la malaparata, la Raggi è stata furbissima, fingendosi appunto morta; e lasciando credere ai cittadini di non esserci mai stata. Scomparendo da Instagram lasciava parlare piuttosto tombini, buche, alberi, panchine, presi e fotografati in close-up, uno per uno, in un feed ipnotico, che appassiona tutti. Mentre Sala faceva photobombing, infilando il suo faccione anche tra le Frecce Tricolori che sfrecciavano sul Duomo, Raggi si sottraeva, smaterializzava, in favore di esseri inanimati che improvvisamente hanno acquistato un’anima: tosaerba, marciapiedi, aiuole, rotonde, scavatrici, gru, sono state romanticizzate come in fotografie di Ghirri. Ormai ognuno ha una sua panchina preferita sulla Nomentana, un oleandro a cui tiene a villa Borghese, un materasso abbandonato sulla Trionfale di cui segue le vicende.

  

“Ci sono nubi su quell’aggettivo, smart”, ha detto ancora Sala. A Roma l’aggettivo è stato sostantivizzato: “smartuorki” o solo “smart”; “ma che sta in ufficio o sta in smart?”, si sente dire, con l’abbreviazione tipo l’acqua leggermente frizzante che diventa solo “leggermente”. E se a Milano anche gli intercettati pessimi della metropolitana tendevano allo smart, con quello che dice “se stai in Atm ti fossilizzi, invece io ho una mentalità imprenditoriale, quando vedo il soldo e l’affare, lo faccio”, e ancora “c’ho in testa l’agriturismo, i cavalli”; insomma, un ritorno ai borghi, come insegnano peraltro le meglio archistar, a Roma “la Pubblica amministrazione si prepara a ripartire”; scrive il Messaggero. “Sta prendendo forma in queste ore la direttiva con cui il ministero della Pubblica amministrazione disciplinerà la riapertura degli uffici pubblici dal 31 luglio in poi per garantire il ritorno in sicurezza degli statali sul luogo di lavoro”. Nella capitale, spiega il quotidiano, “si contano 400 mila dipendenti pubblici, di cui 100 mila hanno già fatto rientro nei ministeri, negli enti pubblici, nelle agenzie fiscali e all’Inps”. Altri duecentomila “andranno accompagnati progressivamente sul luogo di lavoro”, non si capisce se in senso figurato o proprio bisognerà andarli a prendere casa per casa. E i restanti centomila? Forse avranno aperto bar e ristoranti per pause pranzo. Una peculiarità romana infatti è che nelle ultime settimane è tutto un fiorire di tavolini. Mentre le altre capitali internazionali studiano stratagemmi urbanistici futuribili, a Roma è esploso il tavolino diffuso: ovunque, su marciapiedi, strisce pedonali, anche autostrade in corsia di emergenza. Staccionate, banchine, balaustre vengono conficcate con trivelle tra sampietrini e pietre di inciampo per mangiare comodamente sulla striscia blu – è l’urbanistica tattica alla romana. Ci si chiede piuttosto chi dovrà fruire di questa offensiva di

Intanto, nella Capitale, ecco questo gigantesco ponte di San Pietro e Paolo, che inaugura ufficiosamente la grande vacanza

tavolini. Forse i centomila della Pubblica amministrazione, o comunque professionisti e lavoratori vari che in ufficio non vogliono più tornare, e però non vogliono nemmeno rimanere a casa con mogli e mariti, stremati da mesi di convivenza forzata con consanguinei che possono essere molto peggio dei colleghi di lavoro. Né con l’ufficio né con lo smartworking. Vogliamo solo la pausa pranzo.

  

E parlando di tavolini, spiace rilevare la scomparsa di Settembrini, tavolino istituzionale-aspirazionale per smart worker ante litteram della Rai; segno questo della decadenza Rai peggio della fuga di Eleonora “Tinny” Andreatta passata a Netflix (già fervono i meme con lo scudo crociato e la Silicon Valley a partecipazione statale). Certo la svolta Netflix fa pensare: un pezzo di Silicon Valley a Roma, col fondatore Reed Hastings, gagliardo surfista a Santa Cruz, che forse a questo punto cambierà destinazione e si allungherà fino a Santa Marinella. Però che scelta davvero a km zero: se la sede centrale in California, territorio che si è salvato dalla pandemia proprio grazie allo smart working, è un open space dall’aspetto giocoso tipicamente siliconvallico, a Roma mettono su un ufficio da CogefarImpresit. Ufficio prestigioso, finiture d’epoca, partecipazione statale anzi risorgimentale, con la presa di uno dei due villini Rattazzi voluti dal governo unitario per la famiglia del conte Urbano, terzo presidente del Consiglio del regno d’Italia; villino severo, nel cuore di quella che era la villa Ludovisi, prima speculazione immobiliare di Roma: la dinastia sventrò infatti la villa di città (oggi quartiere Ludovisi, appunto, con omonimo parking) per lottizzare. E chissà se alla ex capa della fiction Rai mancheranno gli uffici di viale Mazzini, quelli con la mensa sul tetto e le pennette alla vodka nel menu (e cubicoli davvero fantozziani, con ficus e interni in pelle a seconda delle gerarchie: non restringibili come nella “Terrazza” di Scola, ma per il resto assai istruttivi). E chissà le masse netflixiane, dove e cosa mangeranno, se importeranno avocado e cavolo nero californiani o sbracheranno nelle matriciane e carbonare.

  

Ma intanto, a Roma, ecco questo gigantesco ponte di San Pietro e Paolo, che inaugura ufficiosamente la grande vacanza che ci porterà dritti a settembre: e lì, ritorno in palestra, diete, recovery plan, forse macelleria sociale e addirittura ritorno in ufficio. Nel frattempo, godiamoci l’estate, quest’unica, sterminata e malinconica pausa pranzo.

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