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C’è un altro mondo che è nelle nostre condizioni, sempre. Cominceremo a capirlo?

Laura Zanfrini*

Solo adesso che non possiamo più muoverci liberamente ci immedesimiamo nei milioni di uomini e donne del mondo privati del diritto alla mobilità

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Adesso, forse, possiamo cominciare a capire. Avvertiamo l’ansia di non poter più muoverci liberamente; e allora forse possiamo cominciare a capire i milioni di uomini e donne del mondo privati del diritto alla mobilità, internati in un campo profughi, non più in grado di elargire l’ennesima tangente per superare l’ennesimo varco lungo il cammino verso la libertà. Sperimentiamo la paura di restare temporaneamente separati dai nostri familiari, senza poter sapere come stanno davvero; e allora forse possiamo cominciare a capire quanti lo sono e lo saranno per anni… come una mia amica eritrea, che ha rivisto sua mamma dopo quasi vent’anni, quando le è stato concesso di uscire dal suo paese perché tanto ormai era così vecchia da aver perso ogni interesse agli occhi del regime. Ci accontentiamo con rammarico di seguire la messa per televisione; e allora forse possiamo capire meglio chi la segue ogni domenica immobilizzato nel suo letto. Viviamo la frustrazione di non poter uscire ogni giorno e incontrare i colleghi e gli amici; e allora forse possiamo cominciare a capire la sofferenza di chi è disoccupato e il tormento di chi si è autorecluso, sopraffatto dalla depressione e dalla paura di vivere. Ci “consolano” dicendo che il virus può essere letale soprattutto per i “meno giovani”, e questi ultimi sono amareggiati nel sentirsi d’improvviso tanto vulnerabili; e allora forse possiamo cominciare a riflettere sul fatto che in Italia, come nella maggior parte del Nord globale, l’aspettativa di vita svetta sopra gli 80 anni, mentre altrove – in buona parte dei paesi dell’Africa – non supera i 50 (che è come dire milioni di uomini e di donne cui la scarsità di cibo, l’assenza di assistenza sanitaria, il lavoro logorante o la violenza diffusa sottrae anzitempo alla vita).

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Adesso, forse, possiamo cominciare a capire. Avvertiamo l’ansia di non poter più muoverci liberamente; e allora forse possiamo cominciare a capire i milioni di uomini e donne del mondo privati del diritto alla mobilità, internati in un campo profughi, non più in grado di elargire l’ennesima tangente per superare l’ennesimo varco lungo il cammino verso la libertà. Sperimentiamo la paura di restare temporaneamente separati dai nostri familiari, senza poter sapere come stanno davvero; e allora forse possiamo cominciare a capire quanti lo sono e lo saranno per anni… come una mia amica eritrea, che ha rivisto sua mamma dopo quasi vent’anni, quando le è stato concesso di uscire dal suo paese perché tanto ormai era così vecchia da aver perso ogni interesse agli occhi del regime. Ci accontentiamo con rammarico di seguire la messa per televisione; e allora forse possiamo capire meglio chi la segue ogni domenica immobilizzato nel suo letto. Viviamo la frustrazione di non poter uscire ogni giorno e incontrare i colleghi e gli amici; e allora forse possiamo cominciare a capire la sofferenza di chi è disoccupato e il tormento di chi si è autorecluso, sopraffatto dalla depressione e dalla paura di vivere. Ci “consolano” dicendo che il virus può essere letale soprattutto per i “meno giovani”, e questi ultimi sono amareggiati nel sentirsi d’improvviso tanto vulnerabili; e allora forse possiamo cominciare a riflettere sul fatto che in Italia, come nella maggior parte del Nord globale, l’aspettativa di vita svetta sopra gli 80 anni, mentre altrove – in buona parte dei paesi dell’Africa – non supera i 50 (che è come dire milioni di uomini e di donne cui la scarsità di cibo, l’assenza di assistenza sanitaria, il lavoro logorante o la violenza diffusa sottrae anzitempo alla vita).

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Reclamiamo aiuti per le aziende e i lavoratori che soffrono del calo degli ordini o di una chiusura imposta dalle autorità; e allora forse dovremmo interrogarci sul destino di chi ha dovuto prendere atto, impotente, della mancanza di opportunità, della crisi inarrestabile, dell’impoverimento diffuso e magari tentare la fuga emigrando. Sperimentiamo, per la prima volta, la paura che in ospedale non ci sia posto per tutti; e allora forse possiamo cominciare a capire l’angoscia di chi vede morire figli, madri e padri, senza potere fare nulla, perché in molte regioni del pianeta manca perfino l’assistenza sanitaria basilare e milioni di bambini perdono la vita per infezioni che sarebbero curabilissime. Guardiamo con speranza al progetto di costruire in pochi giorni un ospedale speciale, per potere curare “tutti”; e allora forse possiamo cominciare a capire l’avvilimento di chi attende le briciole della nostra “cooperazione” allo sviluppo per potersi sentire un po’ meno disuguale. Discutiamo senza fine di quanti tamponi si sono fatti e andavano o non andavano fatti; ma cominciamo a pensare che tanti altrove si ammaleranno senza nemmeno sapere cosa sia un tampone. Temiamo il peggio ma siamo quasi tutti certi che le cose volgeranno al meglio; allora avremo cominciato a capire?

 

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*Laura Zanfrini è sociologa delle Migrazioni e della convivenza interetnica, Università Cattolica del Sacro Cuore

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