“Dagli abusi sessuali di Weinstein e di qualche regista nazionale non ancora accertato, siamo diventate campionesse dell’invettiva a prescindere” (foto LaPresse)

Il dongiovanni mazzolato

Fabiana Giacomotti

Nel dopo Weinstein, tra i maschi è tutta una gara di sensibilità. Mentre le donne si liberano di ogni laccio

Gennaio 2018. Quarant’anni di pay off pubblicitari azzerati e un lessico antico recuperato nell’arco di un autunno anche meteorologicamente non troppo mite. Dalle cartelle stampa dei milleduecentotrenta marchi presenti all’edizione 93 di Pitti Uomo, in apertura martedì 9 gennaio a Firenze ma già ampiamente anticipate agli addetti via mail e posta prioritaria, emerge un uomo nuovo anzi vecchissimo. Prevedibile, comme il faut e insomma noiosetto: è scomparsa per esempio la pur abusatissima nozione di “eccentricità” per lasciare il posto alla “tradizione”, all’“eleganza”, alla “discrezione” e al nuovo mantra della moda sempre in cerca di patenti di nobiltà, l’heritage, insomma quel po’ di storia smagliante che possa offuscare le origini gloriosamente umilissime di tante aziende, dato significativo ma di cui noi italiani non vogliamo ancora trarre partito.

 

Nessuno potrebbe né vorrebbe mai paragonare i cosiddetti peacock, i giovani “pavoni” in doppiopetto rosa e lisciature Proraso seduti sul muretto di fronte al Padiglione centrale della Fortezza da Basso a farsi fotografare, con il butteratissimo e irsutissimo Harvey Weinstein, ma si ha l’impressione che non sia comunque più aria e che il ridicolo non faccia più sorridere ma semplicemente pena. Il celeberrimo, ubiquo e malinteso “dandy” è stato ormai dato per disperso. Il metrosexual degli anni Novanta è finito, dimenticato perfino da chi, galeotto, ne scrisse. Come ovvio, sono invece in ascesa i no gender, dopotutto chi può mai temere prese di posizione sessuali da parte di gente che non vuole prenderne una neanche in merito alla propria persona. Nonostante il tema scelto per questa edizione di Pitti Uomo, il cinema e la mostra di sé, non ci sono dubbi che vada preparandosi una parata di uomini solidi, seri, affidabili e soprattutto sottotraccia. Raso i muri. Per passare dall’“uomo-che-non-deve chiedere-mai” all’“uomo-che-non-deve-chiedere-mai-più” sono bastati tre mesi, una quindicina di attrici di memoria lunga e una rispolverata alle teorie femministe di Catherine McKinnon sulle molestie sessuali come rafforzamento dell’ineguaglianza sociale fra uomo e donna: ti occupo il corpo come se fosse una terra di mia proprietà, fosse pure per dare solo una dissodatina o uno sguardo alla “cosa che ami più di me, Tara”, mettendoti una zolla umida in mano.

 

Vedi le cartelle stampa del prossimo Pitti Uomo e ti accorgi che il dandy è dato per disperso, il metrosexual degli anni 90 è finito

Da ragazze, avevamo letto con attenzione le massime di Susan Brownmiller sullo stupro come tattica oppressiva del genere maschile su quello femminile (“Contro la nostra volontà”, prima edizione italiana anno 1976 per la Bompiani, naturalmente la casa editrice di allora) che oggi vengono rilanciate su tutti i media. Però ce ne eravamo dimenticate per concentrarci sui temi dell’oppressione di genere del momento: i soffitti di cristallo per tutti gli anni Ottanta e Novanta, la conciliazione casa-lavoro a cavallo del millennio e le quote rosa dai primi anni Duemila. Questo progressivo spostarsi, dilatarsi e annacquarsi del problema è avvenuto fino a oggi, quando le quote rosa sono improvvisamente riemerse come la battaglia combattuta da tutti gli attori di bella presenza con un film in promozione. Nessuno, né fra le paladine del #metoo né fra questi uomini improvvisamente attenti al ruolo culturale e sociale del lavoro femminile, sembra aver tempo per esprimersi sulle ragazze che scendono in piazza senza velo in Iran (ma come, allora non era una tradizione culturale da difendere?) rischiando le manganellate e la prigione. In compenso, in Europa e negli Stati Uniti è una gara di sensibilità fra emuli di Achille che confessano di essere cresciuti fra le donne con le gonne, e di mettersene pure una, ogni tanto, per esplorare “il mio lato femminile”, e di paladini della presenza donnesca nei consigli di amministrazione che contano. Per l’influenza di Natale, mi sono regalata quasi ogni mensile di moda in circolazione, trovando fra le pagine tracce di autodafé da tutti i bellocci in ascesa del cinema. Su Elle, per esempio, Lino Guanciale si è sperticato a favore del genere femminile e delle sue infinite, sempiterne ma ohibò nuovissime virtù: “Sì alle quote rosa, sono favorevole all’uso di strumenti che forzino la mano per creare una discontinuità culturale e innescare un cambiamento sul lungo termine”. Considerando che nemmeno il più spudorato dei politici o il più sciagurato dei mental coach si esprimerebbe in modo così affettato e pedante, dopo aver controllato la firma in fondo all’intervista (una giovane collega), ho pensato che quando gli uomini ci sono simpatici, o vogliamo trovarli tali, non esitiamo a ricorrere alle più vetuste delle tecniche retoriche, compreso il “sì” dantesco tonitruante, per avallarne la buona fede e presentarlo alle nostre simili come Lancillotto. A chi non ci piace, dallo scandalo Weinstein in poi non facciamo invece sconti, e fosse solo per sospetti di molestie. Mentre gli uomini imparano a controllare linguaggio e pensieri, noi ci liberiamo di ogni laccio. Screpolata anche l’ultima patina di acquiescenza indotta dalla buona educazione, abbiamo smesso di tollerare perfino le pompose ovvietà del medico di base del paese di vacanza, ricacciandogliele in gola durante la cena di Capodanno e senza più nemmeno l’ansia di essere interrotte come la Tonia del “Malato immaginario”.

 

Sui social le donne stanno riversando gli stessi pensieri che un tempo riservavano ai propri diari, erotici o perfidi che fossero

Noi donne godiamo di un magico momento di apertura di credito, del quale andiamo approfittando con la voluttà della lunga privazione e la determinazione di un caporale di giornata. Pur ancora in dubbio sulla validità delle argomentazioni portate in questi mesi contro l’ottica patriarcale della mercificazione del corpo femminile e la dinamica di genere, nella quale sono finite le attrici che hanno denunciato le molestie quasi fossero state loro, con il proprio uso libero del corpo e della bellezza per lavoro, a perpetuare uno schema sessista di cui sarebbero almeno parzialmente responsabili, sulla colpevolezza maschile (“in tensione da mascella a tallone” come il palestrato della Szymborska) nutriamo invece solo certezze. Dagli abusi sessuali di Weinstein e di qualche regista nazionale non ancora accertato al mancato saluto dell’idraulico sulla porta di casa, siamo diventate campionesse dell’invettiva a prescindere, quasi che il patriarcato fosse un esclusivo dominio maschile. Ogni denuncia equivale a una condanna, in barba a qualunque principio di garantismo, ogni battuta a una provocazione. Mentre gli uomini ribelli vanno sventolando l’intervista di Tom Wolfe a Repubblica sul politicamente corretto come “strumento di controllo sociale” e il movimento #metoo come “potente strumento di intimidazione che prima le donne non avevano”, in queste settimane le ragazze progressiste vanno scambiandosi la rilettura iconografico-spiritosa di Edward Sorel  sul celeberrimo processo del 1936 a Mary Astor, la diva che rischiò di far saltare la Hollywood più becera e kitsch e la Broadway più colta e snob con i suoi “diari bollenti”, in cui tutti gli uomini coinvolti, fossero i suoi mariti insipienti e arrivisti o autori celebrati come George Kaufman, fanno una figura barbina. Come capirete, da questo clima forcaiolo è del tutto improbabile che escano riletture critiche o anche solo articoli di costume su temi come l’amore o, il Signore ce ne scampi, il romanticismo. Dalla pila di riviste femminili cui accennavo nelle prime righe è uscito un sacco di sesso, alla faccia del #metoo e fortunatamente molta solidarietà e cameratismo, ma del mito rousseauiano non ho trovato più alcuna traccia. Dai “messaggi whatsapp che lui non scorderà mai più”, tema forte dell’ultimo numero di Cosmopolitan che, unico, dà sempre molto spazio alle voci maschili, sono emersi messaggini femminili di natura gastro-sessuale (“foto del pollo alle mandorle cucinato da me”), estetico-brutale (“ma tu sei quello alto e moro o quello basso e bruttino?”), schiettamente erotica (“voglio accarezzarti il culo”), tragicamente ignorante (“ti andrebbe di vederci stasera? Ha me farebbe piacere”, a cui pare abbia fatto seguito la fuga di lui, cultore dell’italiano di base). L’amore, in tutti questi whatsapp, mi pare sia stato citato dalle donne una volta sola, nella declinazione bollente e riduttiva dell’infatuazione (“sono innamorata di te”).

 

Se è difficile immaginare un Weinstein al femminile, essendo lo sfruttamento o il ricatto sessuale comportamenti sociali, dunque determinati dalla struttura della società stessa e non dalla natura, è però abbastanza evidente che sui social le donne stiano riversando gli stessi pensieri che un tempo riservavano ai propri diari, erotici o perfidi che fossero, e con la stessa dose di spudoratezza. La differenza rispetto a un tempo, come ha lasciato intuire Tom Wolfe, sono gli strumenti di coercizione di cui, all’improvviso, godono, anzi godiamo. A lui, ai suoi ottantasei anni, al suoi vestiti bianchi e alla sua meravigliosa opera omnia, nessuna donna ha ancora osato ribattere. Tutti gli altri uomini, possono pentirsi anche per lui.

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