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diario di scuola

Gli insegnanti di sostegno. La scuola è un ripiego ma si fanno in quattro per i ragazzi

Marco Lodoli

Una è laureata in veterinaria, un’altra in farmacia, una terza in economia e commercio, un altro ancora in architettura, e un altro addirittura ha fatto la scuola alberghiera ed era chef. Le storture di un mondo del lavoro che non riesce a far fruttare questi talenti

Un punto a favore della scuola italiana è sicuramente l’attenzione che rivolge agli studenti “diversamente abili”, attenzione e cura e affetto che altre nazioni non hanno. Nei licei arrivano pochi di queste ragazze e di questi ragazzi così sfortunati, crudelmente penalizzati già in partenza, ma nelle scuole tecniche e nei professionali le iscrizioni sono molto aumentate. 

Nella mia classe quinta che tra poco affronterà l’esame ci sono ventuno studenti, e di questi dieci hanno problemi. Solo due, in realtà, hanno disabilità piuttosto gravi, gli altri sono dislessici, disgrafici, discalculici, hanno qualche lieve ritardo cognitivo o faticano a trovare la concentrazione necessaria per affrontare con calma e sicurezza i programmi delle varie materie. E però tutti sono seguiti passo dopo passo, anno dopo anno, giorno dopo giorno, dagli insegnanti di sostegno e anche da tecnici della formazione: a volte, quando faccio lezione, ho in classe almeno cinque o sei insegnanti di sostegno, ognuno accanto al suo protetto, ognuno pronto a produrre riassunti, schemi, mappe concettuali per rendere la comprensione e lo studio più facili.

E i genitori sono riconoscenti alla scuola per l’impegno che ci mette a sostenere i loro svantaggiati figlioli. Quasi ogni mese c’è un incontro tra gli insegnanti della classe, curricolari e di sostegno, e i genitori per spiegare a che punto siamo arrivati, come procede la preparazione. Insomma, c’è da essere fieri per come la scuola italiana si occupa di questi studenti, per lo sforzo che profonde e anche per i risultati che vengono ottenuti. 

L’unico aspetto che mi lascia un po’ perplesso è la provenienza degli insegnanti di sostegno: certo, hanno tutti fatto corsi di preparazione, sanno quello che devono fare, e hanno una sensibilità davvero speciale, si applicano con infinita dedizione agli studenti che sono loro assegnati. Però ogni tanto, nei tempi morti delle lezioni o nella quiete della sala professori, chiedo qual è la loro storia universitaria, da dove provengono, come si sono trovati a fare questo lavoro così delicato e necessario. Ebbene, un’insegnante è laureata in veterinaria, un’altra in farmacia, una terza in economia e commercio, un altro ancora in architettura, e un altro addirittura ha fatto la scuola alberghiera ed era chef in un ristorante della Campania. C’è chi ha studiato management, chi scienze motorie, chi matematica e informatica, chi giurisprudenza. 

Quasi tutti hanno provato inizialmente a mettere a frutto i loro studi, hanno cercato lavoro nel loro settore di competenza: e qualcuno ce l’ha anche fatta, ma poi l’azienda ha chiuso, i posti sono saltati, oppure l’attesa di un lavoro consono era lunghissima, incerta, rischiosa. E allora hanno dovuto ripiegare su quest’altro lavoro: sostegno ai disabili della scuola. Ripeto, tutti quanti danno anima e corpo per questi studenti in difficoltà, li preparano al meglio, li incoraggiano nei momenti di crisi, li circondano di attenzioni e di affetto. Sono sempre presenti, sono una sicurezza. 

Però mi domando: come mai il mondo del lavoro in Italia non ha saputo accogliere questi professionisti nel settore che hanno studiato per tanto tempo? Lo stato italiano in fondo ha investito denaro ed energie per formare lavoratori specializzati e poi non ha trovato il modo di utilizzare tutte le loro particolari conoscenze. Potenziali farmacisti, avvocati, informatici, veterinari, architetti, giovani usciti spesso con il massimo dei voti dall’università, capaci anche di specializzarsi in master prestigiosi, oggi sono diventati insegnanti di sostegno. 

C’è qualcosa che non va, mi sembra. Forse sarebbe meglio dare lavoro nella scuola del sostegno a psicologi, pedagoghi, anche ad antropologi e sociologi, e impegnare chi ha studiato a lungo tutt’altre discipline nel proprio specifico settore. La disoccupazione galoppante evidentemente li ha costretti a questa soluzione, che è un ripiego nobilissimo, ma è pur sempre un ripiego. 

Insomma, credo che bisognerebbe programmare meglio il passaggio dall’università al mondo del lavoro, perché così si rischia di bruciare tanti talenti intellettuali che, in cuor loro, coltivano inevitabilmente un pizzico di dispiacere per i tanti anni trascorsi e sprecati nei loro studi: ora stanno in classe con me, si fanno in quattro per aiutare i disabili, ma forse ogni tanto sognano ancora di lavorare in una farmacia, in un cantiere, in una clinica veterinaria, in un laboratorio di informatica…

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