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Crisanti, Bassetti e Pregliasco: il “Jingle Vax” che rassicura

Giuliano Ferrara

Elogio del rap dei virologi, che cantano come Crosby, Elvis e Sinatra. Una farsa divertente che fa bene, nel mezzo della tragedia

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A me sono piaciuti, mi hanno fatto ridere e mi hanno in modo strano e lieto, “sì sì vax sì sì vax vac-ci-nia-mo-ciiii”, rassicurato. Parlo dei virologi Crisanti, Pregliasco e Bassetti, del loro trio improvvisato sulle note di “Jingle Bells”, camici bianchi in salsa natalizia. Da sempre, da tempi non sospetti, il mio idolo è il professor Locatelli, che stupì i giornalisti in conferenza stampa, all’epoca del primo lockdown, dicendo loro che si scusava per aver forse “scotomizzato”, cioè rimosso a cagione dell’ansia, alcune loro domande sul virus arrembante. Ma non si vive di sola serietà ufficiosa, di impeccabilità, di capacità di intervento rarefatta e sofisticata, autorevole e essenziale. Non basta la scotomizzazione né aiuta il suo opposto, la drammatizzazione. Eppoi la vera grande ricchezza di una democrazia sanitaria appesa a procedure d’emergenza è sempre stata, a pensarci bene, nella varietà, più o meno plausibile ma quasi sempre benintenzionata, dei portatori di sapere che si mettono in gioco davanti a tutti. Anche le lezioni del professor Burioni da Fazio sono un teatrino, composto magari, severo, un tantino ripetitivo, ma teatrino, con tanto di aula accademica e cattedra immaginaria a rafforzare il senso o il significato delle parole curative. 

 

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E’ teatrino o teatro dei pupi tutto il repertorio magnifico del dottor Fauci, che ha passato mesi al fianco di un presidente semi negazionista, uno che voleva “liberare il Kentucky” con le armi dall’obbligo di mascherina, cercando di limitarne i danni con la sovrana sornioneria di un grande attore degno di Mel Brooks. Siamo noi che cerchiamo un effetto di farsa commovente o divertente nel mezzo della tragedia, e siamo felici quando andiamo a vaccinarci, tra mascherine o dramatis personae di ogni foggia e colore, e ci sembra di stare in Svizzera per l’efficienza e la dedizione protestante del personale o per la carineria usata, quando si tratti di bambini, verso le fragilità dell’infanzia davanti alla punturina. Il teatro o teatrino è il nostro destino pluralistico e incasinato, ma incoraggiante, anche nella comunità postmoderna o postpfizer della pandemia, il mondo sovrano delle “Jingle Pills” (citazione da Giuseppe De Filippi).

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Il trattamento mediatico della pandemia ha avuto il suo lato oscuro, la pulsione a mandare avanti i freak e a mettere in imbarazzo i volenterosi medici del Covid, ma alla fine la polifonia patologica e narcisistica delle comparsate epidemiologiche ha ridimensionato la sensazione di molestia universale che ci attanagliava di fronte ai rischi sociali e sanitari, e ha per così dire normalizzato l’eccezione. Ci è capitato qualcosa che esigeva in realtà solo la più cieca e inesperta obbedienza a dettati dell’autorità, il che non è certo un bene per il funzionamento di una democrazia anche piuttosto slabbrata come la nostra, e la girandola degli esperti, questo strano mondo che è emerso, si è messo in costume, ha calcato le scene e si è ingegnato a parlottare per ogni dove, spessissimo con vera competenza e con dati che non avremmo saputo riperticare da nessuna altra parte, è stata una ricchezza non un impoverimento.

Così i tre che hanno rappato delicatamente la vecchia e gloriosa canzone natalizia dell’Ottocento, nata in Georgia, si sono messi in concorrenza con Armstrong, Bing Crosby, Elvis, i Beatles, Sinatra e i coristi dell’Armata Rossa, e hanno rimediato quella magra figura di performer abborracciati e esposti alla derisione che fa parte del quadro di doveri e di occasioni di rassicurazione della famosa Scienza. Complimenti.

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