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Sua eccellenza lo Spallanzani

Giuseppe De Filippi

La ricerca, l’esperienza con altri virus, l’adattabilità. Così l’istituto romano si è guadagnato la fiducia di tutti

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Altri volontari, dopo la donna cinquantenne prima persona disponibile all’inoculazione (e che sta benissimo, dando così le prime utili rassicurazioni sul prodotto), hanno avuto l’iniezione con uno dei vaccini contro il Sars-CoV-2 in sperimentazione avanzata nel Lazio, o meglio, presso l’Istituto Lazzaro Spallanzani. Prima e dopo le iniezioni è il lavoro del grande polo nazionale sulle malattie infettive a consentire l’avanzamento verso la speranza del risultato pieno, e cioè l’applicazione del vaccino su larga scala. Le aziende che li hanno concepiti e avviati sono piccole, piene di competenze, certo, ma ovviamente non in grado di condurre test nella massima sicurezza ed efficacia mondiale. Lo Spallanzani ha risposto in modo efficiente sia durante le prime fasi, quando ancora non c’era la dichiarazione di pandemia da parte dell’Oms, attraversando la gestione del lockdown, della fase 2 e ora dei mesi della corsa paziente (bisogna fare presto ma soprattutto bisogna fare bene) verso cure e vaccini.

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Altri volontari, dopo la donna cinquantenne prima persona disponibile all’inoculazione (e che sta benissimo, dando così le prime utili rassicurazioni sul prodotto), hanno avuto l’iniezione con uno dei vaccini contro il Sars-CoV-2 in sperimentazione avanzata nel Lazio, o meglio, presso l’Istituto Lazzaro Spallanzani. Prima e dopo le iniezioni è il lavoro del grande polo nazionale sulle malattie infettive a consentire l’avanzamento verso la speranza del risultato pieno, e cioè l’applicazione del vaccino su larga scala. Le aziende che li hanno concepiti e avviati sono piccole, piene di competenze, certo, ma ovviamente non in grado di condurre test nella massima sicurezza ed efficacia mondiale. Lo Spallanzani ha risposto in modo efficiente sia durante le prime fasi, quando ancora non c’era la dichiarazione di pandemia da parte dell’Oms, attraversando la gestione del lockdown, della fase 2 e ora dei mesi della corsa paziente (bisogna fare presto ma soprattutto bisogna fare bene) verso cure e vaccini.

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La linea sui vaccini: test avviati il più rapidamente possibile ma conservando le garanzie di sicurezza e di significatività scientifica


 

Non ha un profilo forte nella comunicazione, e meno male. Non è entrato in modo invadente nella produzione, inevitabilmente eccessiva, di informazione e discussione a getto continuo sul nuovo coronavirus e sulla crisi sanitaria. Non è titolare di una linea interpretativa caratterizzata, di una narrazione made in Spallanzani, su ciò che si sarebbe dovuto fare o non fare per fronteggiare la diffusione del virus e la cura clinica del Covid-19. Non perché i suoi medici, infermieri e dirigenti non sappiano cosa fare, ma proprio perché lo sanno e assieme sanno che di fronte a un virus nuovo bisogna essere aperti a più soluzioni, non si deve essere apodittici né procedere per fissazioni o idiosincrasie. E sanno che una crisi sanitaria non è il momento per discettare di categorie astratte ma è il momento di agire, ma senza fare ammuina. Che è la linea seguita sui vaccini. Test avviati il più rapidamente possibile ma conservando le garanzie di sicurezza e di significatività scientifica. E anche nella comunicazione sulla sperimentazione vaccinale sono più le parole prudenti di quelle arrembanti, arrivando anche a prendere cortesemente le distanze, più volte è successo, dalle dichiarazioni trionfalistiche dei capi azienda i cui vaccini erano stati affidati ai check e alle osservazioni mediche dello Spallanzani.

 

Prudenza e rapidità assieme, come nei motti rinascimentali sull’accelerare lentamente, sono coppie che formano una strategia appresa nel tempo, nell’Istituto che si è confrontato con crisi come quella del colera negli anni 70 e con l’esplosione di epatiti virali dovute alla diffusione di droghe pesanti inoculate in vena e poi con l’esplosione dell’Hiv dagli anni 80 e ancora le Sars che ci sembravano lontane ed esotiche, quelle che arrivavano nelle nostre case solo attraverso le immagini di asiatici con mascherina e di città che, allora neanche capivamo bene cosa significasse davvero, venivano bloccate dalla quarantena collettiva. Avere a che fare con l’ultimo grande caso di diffusione del colera in un paese europeo significa imparare che l’azione di cura deve essere rapida ma che quella precauzionale deve essere continua, intensa, approfondita. E l’esperienza delle epatiti diventa invece formativa per capire come le epidemie abbiano possibilità di diffusione anche fuori da quelli che potevano sembrare i canoni prevedibili del contagio, perché le droghe pesanti con una diffusione che si potrebbe definire di massa non rientravano certamente nelle previsioni ragionevolmente possibili da parte di medici e scienziati qualche anno prima del 70. E si impara così a trattare anche gli aspetti sociali delle malattie infettive, a gestirne le mille difficoltà e a contrastare malattie in soggetti che a volte non sono propriamente collaborativi con la struttura sanitaria. Ma si accumulano enormi esperienze.


Il direttore scientifico è nominato direttamente dal ministro della Salute e non dalla regione. Un buon incastro


 

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La stessa gestione di reparti per le polmoniti virali e in generale per le infezioni che passano per le vie aeree è diversissima da quella necessaria per i ricoveri dovuti a complicazioni del contagio da Hiv. Per le prime lo Spallanzani, dietro alla sua facciata da architettura di inizio secolo, anche se l’avvio delle attività fu nel 1936, ha sviluppato negli anni una capacità di isolamento dei pazienti sempre più efficiente e sempre più in grado di tutelare gli assistiti e il personale. Nel caso dell’Hiv, e ancora alla fine degli anni 80 nessuno lo avrebbe saputo indovinare, lo sviluppo tecnico e terapeutico ha portato alla riduzione delle ospedalizzazioni e allo sviluppo di forme di day hospital e di medicina a distanza. E altrettanta esperienza è stata fatta, con risultati di eccellenza mondiale e molto proficui contatti tra aziende farmaceutiche e attività clinica, nel contrasto alla diffusione del virus Ebola e nell’approntamento di un vaccino efficace.

 

Accanto a tutto questo, un po’ misconosciuto, c’è il lavoro ricorrente e accurato per le cure e la prevenzione dell’influenza stagionale, causa ogni anno di migliaia di morti e per la quale lo Spallanzani coordina anche altri ospedali per fare in modo che una sempre maggior parte della popolazione a rischio venga vaccinata. Nel prossimo autunno la campagna vaccinale per l’influenza sarà particolarmente intensa e potrà dare risultati di grande rilievo, in modo indiretto, anche per contenere gli effetti della seconda ondata di Sars-CoV-2. Prudenza e programmazione, un’altra coppia, forse meno affascinante di quella che rimanda agli antichi motti, sono state alla base del continuo rafforzamento di dotazioni tecniche dell’Istituto. Favorito anche da uno speciale inquadramento giuridico. Già dagli anni 90 ha potuto usare in modo vantaggioso l’istituzione degli Irccs (istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) diventandone il più importante in Italia per le malattie infettive e dotandosi anche di un importante polo per i trapianti.

 

Tra i vari aspetti che rendono questi istituti capaci di maggiore efficacia operativa c’è che il direttore scientifico è nominato direttamente dal ministro della Salute e non dalla regione. Si trova quindi ad avere una fonte di nomina che lo mette al riparo da influenze locali troppo forti ma allo stesso tempo deve saper lavorare con altre strutture invece rispondenti alla regione. E’ un buon incastro, con cui si danno competenze e poteri ma si evitano i rischi di eccessi. La concezione originaria poi ne fa qualcosa a metà, prendendo, se si è capaci, il meglio di entrambi i modelli, tra ospedale in senso stretto e polo universitario. C’è la ricerca, ma non la didattica di base. Con l’esperienza, pur se in Italia allora non vedemmo le mascherine, sulle due Sars precedenti quella ora circolante, lo Spallanzani ha potuto gestire il ricovero in condizioni di perfetta sicurezza dei due famosi turisti cinesi colti da gravi sintomi durante una vacanza a Roma, in un momento, precedente all’esplosione dei focolai italiani, in cui ancora il Covid-19 sembrava una malattia esotica e rara. Lì però si vide subito che cosa significava aver investito, in tempi di vacche grasse o di epidemie assenti, sulla conoscenza di quelle specifiche modalità cliniche e terapeutiche da usare per casi assimilabili a quello dei due cinesi.


La cura del colera e delle epatiti ha insegnato a trattare anche gli aspetti sociali delle malattie infettive, a gestirne le mille difficoltà


 

Un medico privo di spirito di corpo strettamente spallanzaniano, ma occasionalmente collaboratore dell’Istituto ci dice che “hanno gestito in maniera esemplare l’emergenza Covid nel Lazio, tutti i reparti sono stati riconvertiti per dedicarsi a questa patologia, sia nei posti letti ordinari sia in quelli di terapia intensiva. Mentre la loro capacità integrata ha consentito di sviluppare all’interno sia la capacità diagnostica, essenziale per un nuovo virus, sia la conoscenza della struttura molecolare del virus, con il famoso annuncio sull’isolamento del nuovo coronavirus”. Ricorderete certamente i giorni delle ricercatrici, con anche il riconoscimento, seppure tardivo, di un miglioramento della posizione lavorativa di chi tra loro aveva ancora contratti non stabili, quando la capo team Maria Rosaria Capobianchi e le ricercatrici Concetta Castilletti e Francesca Colavita, poterono annunciare al mondo che allo Spallanzani era stata isolata una copia di Sars-CoV-2, dando avvio a una ben più approfondita attività di ricerca e di studio in laboratorio. Cosa possibile nell’Istituto romano perché dotato, per primo in Italia, di un laboratorio di biosicurezza a livello 4, il massimo esistente, e di altri laboratori di livello 3, sufficiente per molte ricerche avanzate. Insomma, assieme al mantenimento della vocazione di polo di ricerca, l’arma vincente è stata la capacità adattativa, con rapida riorganizzazione di tutta la logistica interna, e quindi con la possibilità di offrire in tempo utile spazi e posti letto, senza bisogno di avviare complesse strutture di costruzione completamente nuova (come ad esempio è avvenuto per i letti di terapia intensiva e semi intensiva approntati nell’ospedale Fiera di Milano, con tempi inevitabilmente sfasati rispetto alle necessità). Tanto che ora i sindacati della sanità laziale cominciano anche a spingere perché si torni alla normalità o ci si avvicini per quanto è consentito dalle previsioni ragionevoli sull’andamento dei contagi. E ricordano come, non allo Spallanzani ma in altri grandi ospedali romani, sia diventata gravemente strutturale la sottoutilizzazione della sale operatorie. ”Sappiamo benissimo che i risultati dello Spallanzani sono eccellenti – ci dice uno dei tre leader sindacali della sanità nel Lazio – ma è anche vero che con la sua specificità amministrativa riesce a ricevere ingenti finanziamenti e sempre nei tempi attesi, mentre il resto della sanità regionale ha sofferto prima nel periodo del commissariamento, con riduzione drastiche di personale e prestazioni, e ora in questi primi passi post commissariamento si sta mostrando, anche a causa della crisi pandemica, un aumento drammatico della durata delle liste di attesa cui si tenta di ovviare con la scorciatoia sbagliata e cioè con il ricorso al privato in convenzione, mentre, come si diceva, c’è l’assurdo di sale operatorie pubbliche disponibili ma non utilizzate e tutte dotate dello staff medico necessario”. La critica, quindi, potremmo tradurla, anche se la compatibilità finanziaria non sarebbe semplice, nell’idea di trasformare anche il resto della sanità laziale, e ovviamente di altre regioni, in modelli efficienti come quello dello Spallanzani. Certo, serviranno risorse, ma è una delle tante ragioni per fare pressioni sul governo affinché venga usato, e in modo inattaccabile e proficuo, il fondo Mes.

 

Il ruolo dello Spallanzani, anche come punto di riferimento nazionale, in questo autunno e anche prima, con la ripresa della scuola, crescerà di importanza perché l’Istituto è in grado di fornire la merce più rara e desiderata in questo momento: la fiducia. Una fiducia ragionevole, fondata sull’esperienza del passato e su procedure testate e continuamente migliorate. Può capitalizzare la sua credibilità e trasferirne qualche quota sulle istituzioni pubbliche. E nella collaborazione tra ospedali: a Roma sta succedendo con la ricerca congiunta tra lo Spallanzani e un’altra eccellenza romana, il Policlinico Gemelli, sull’efficacia di un anticorpo monoclonale (la nuova frontiera della medicina biotecnologica) per la cura del Covid-19, in giugno è partita la sperimentazione su due pazienti. Uno dei tanti casi di collaborazione e di ricerca in corso con cui si fa leva sulle capacità dello Spallanzani. E una soddisfazione in più nella storia di uno dei pochi ospedali romani non intitolato a regnanti o parenti di regnanti, o a santi o a altri nomi legati alla religione, o a governanti o leader politici.


Un po’ misconosciuto, c’è poi il lavoro ricorrente e accurato per le cure e la prevenzione della influenza stagionale 


 

E’ una rarità, forse perché nel 1936, anno infausto per altre ragioni, nessuno voleva associare il proprio nome a un luogo in cui si curavano gli infettivi, con tutto lo stigma legato a quella condizione. E allora si scelse uno scienziato morto molti anni prima, ma che, con coraggio e intelligenza, seppe indirizzare la biologia verso la strada più promettente, confutando la teoria che andava per la maggiore nel ‘700 e cioè l’idea che nella materia, autonomamente, ci fosse la capacità di generazione spontanea della vita, aprendo invece alla possibilità che esistessero agenti esterni, come i germi o i batteri che verranno scoperti in seguito, ma grazie alle sue intuizioni. La dimostrazione avvenne creando il vuoto in un contenitore che conteneva brodo di pollo e verificando che, in assenza di aria e di altro, non avvenivano modificazioni biologiche. Insomma, un’idea buona pure per sviluppare la conservazione degli alimenti. E da quel brodo, per vie forse tortuose, si è fatta tanta strada, fino a trovare, per primi in Italia, come era fatto il nostro nemico attuale, il Sars-CoV-2.

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