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I giovani, i vecchi e questa bruttissima bestia

Adriano Sofri

Il coronavirus è una malattia terribile per la facilità del contagio, l’aggressività, la rapidità, e la lunghezza del decorso. Ma anche perché costringe i medici a scelte estreme, etiche e sanitarie. Dialogo con Paolo Malacarne, rianimatore speciale

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Paolo Malacarne, 62 anni, dirige dal 2008 una terapia intensiva dell’Ospedale pisano di Cisanello, l’Unità di Anestesia e Rianimazione legata al Pronto Soccorso. Avevo due domande soprattutto. Questa pandemia otterrà di fermare e invertire uno dei più significativi indici del progresso del genere umano, il più significativo forse: la longevità? Se il virus risparmia, fortunatamente, i piccoli e i più giovani, e infierisce sui vecchi e provati – vecchiezza e vulnerabilità sono sorelle – quando sia avanzato bene nel suo lavoro avrà fatto abbassare la durata media della vita, la “speranza di vita”. L’età media di una popolazione può ringiovanire grazie all’avvento di nuovi nati, quello che non succede da noi. Noi abbiamo un’età media di 45 anni e una aspettativa di vita di 82,5 (37 anni l’età media in Cina con una aspettativa di vita di 77; 15 anni la Nigeria, con un’aspettativa di vita di 30 anni inferiore alla nostra!). Oppure l’età media può abbassarsi, ringiovanire per così dire passivamente, regressivamente, non perché cresca il numero assoluto dei giovani, ma perché muoiono di più i vecchi. E’ questa l’insidia principale del coronavirus, la spiegazione dell’apparente sproporzione della sua minaccia? Ricacciare indietro la speranza di vita? 

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Paolo Malacarne, 62 anni, dirige dal 2008 una terapia intensiva dell’Ospedale pisano di Cisanello, l’Unità di Anestesia e Rianimazione legata al Pronto Soccorso. Avevo due domande soprattutto. Questa pandemia otterrà di fermare e invertire uno dei più significativi indici del progresso del genere umano, il più significativo forse: la longevità? Se il virus risparmia, fortunatamente, i piccoli e i più giovani, e infierisce sui vecchi e provati – vecchiezza e vulnerabilità sono sorelle – quando sia avanzato bene nel suo lavoro avrà fatto abbassare la durata media della vita, la “speranza di vita”. L’età media di una popolazione può ringiovanire grazie all’avvento di nuovi nati, quello che non succede da noi. Noi abbiamo un’età media di 45 anni e una aspettativa di vita di 82,5 (37 anni l’età media in Cina con una aspettativa di vita di 77; 15 anni la Nigeria, con un’aspettativa di vita di 30 anni inferiore alla nostra!). Oppure l’età media può abbassarsi, ringiovanire per così dire passivamente, regressivamente, non perché cresca il numero assoluto dei giovani, ma perché muoiono di più i vecchi. E’ questa l’insidia principale del coronavirus, la spiegazione dell’apparente sproporzione della sua minaccia? Ricacciare indietro la speranza di vita? 

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“Noi siamo stati i primi a volere la rianimazione aperta ai famigliari. Come fai, ora, con i famigliari assenti e isolati? Dico al malato che non posso dargli le cure migliori? Sono stretto fra il dovere di informarlo e il rischio di aggravarne lo stato”


 

La seconda domanda è legata alla prima. Si certifica che i morti per, o con, il coronavirus hanno (al 18 marzo) un’età media di 79,5 anni. E si dice che tutti avessero una o più patologie concorrenti (benché si conoscano casi singoli divergenti, per esempio fra i sanitari morti). La conclusione ufficiale è che la pandemia riservi la sua letalità ai vecchi e malati, che sia una “malattia dei nonni”. Non torno qui sulla distrazione o sul cinismo che, soprattutto all’inizio, hanno contrassegnato il linguaggio e le fisionomie delle autorità competenti. Qui mi interessa una conseguenza di quella conclusione. Se è una malattia di vecchi, e ai giovani e agli adulti riserva tutt’al più i fastidi di un’influenza, la richiesta di adeguarsi alle misure tese ad arginare i contagi fa appello all’altruismo: restiamo in casa, facciamolo per i nostri nonni. L’altruismo è nobile, ma si capisce che un cambiamento drastico nel modo di vita così motivato si presti a sottovalutazioni, elusioni, impazienze. Ed ecco la domanda: senza le cure, comprese le più impegnative – la terapia intensiva, insomma – la polmonite da coronavirus non colpirebbe severamente (letalmente, o con conseguenze permanenti) anche i meno anziani? Perché se fosse così, se così è, la questione dell’esaurimento delle risorse ospedaliere, personale, posti e macchinari, minaccia progressivamente nonni, figli e nipoti.

 

Questa malattia, dice Malacarne, è una bruttissima bestia. “Non solo per la facilità del contagio, ma per l’aggressività, la rapidità, e la lunghezza del decorso. La differenza fra giovani (e sani) e vecchi (e malati) è ovvia: non ti aspetti che un ottuagenario anche in buona salute si metta a correre la maratona. La terapia intensiva serve a guadagnare tempo, il tempo serve all’effetto dei farmaci e soprattutto al recupero delle risorse dell’organismo. Queste ultime sono forti nei giovani, sono deboli o completamente insufficienti negli anziani e malati. L’esperienza del resto è ancora troppo recente per farci sapere quale sarà, per i ‘guariti’, la qualità di vita a tre mesi, a sei mesi”.

 

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Ma si pone anche qui, per le persone più vulnerate, il problema dell’accanimento terapeutico? E’ a quello che si riferiscono i criteri della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), che hanno sollevato tanto allarme? “Quel documento conteneva una premessa, evocando uno scenario da medicina delle catastrofi, e 15 raccomandazioni. La terza dice che ‘può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in Terapia Intensiva… Si tratta di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha più probabilità di sopravvivenza e a chi può avere più anni di vita salvata… In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di first come, first served equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi’”.

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Poteva esser detto meglio, no? “Si ipotizza una condizione estrema: se le risorse sono finite, è ragionevole destinarle prima a chi ha più probabilità di farcela e più anni di vita salvata. Non può valere il criterio che chi arriva prima prende il posto. Certo l’età per sé non può essere il criterio. E’ comunque, di fronte a una malattia grave e prolungata, uno svantaggio, unito alla concomitanza di patologie. Noi non parliamo di accanimento ma, come nella legge 219 del 2017, sul testamento biologico, di ‘ostinazione irragionevole’, da cui astenersi quando non c’è più possibilità di recupero e si possono solo lenire le sofferenze. Insisto sul decorso lungo e pesante, che chiama in causa riserve funzionali. C’è certo una responsabilità etica: facciamo questo mestiere per la passione di salvare vite, e le vite che arrivano a noi sono in pericolo estremo. Quando si può, è molto meglio rischiare due, tre giorni di insistenza, anche se si sia convinti che non ci sia nulla da fare, piuttosto che interrompere subito la speranza. Quando si può. Una scelta etica è quotidiana e si ripropone per situazioni diverse. Si mettono su per l’urgenza nuovi posti, inevitabilmente con medici e infermieri meno esperti, e la formazione non si improvvisa: anche un esperto anestesista operatorio interviene su polmoni sani, è un’altra cosa. Al pronto soccorso bisogna decidere, e immediatamente, dove destinare i pazienti. E’ ragionevole che si indirizzi al posto più efficace chi ha più possibilità di farcela. Ancora: il malato ha diritto a conoscere la sua situazione, all’autodeterminazione. Noi siamo stati i primi a volere, ormai tanti anni fa, la rianimazione aperta ai famigliari e una comunicazione continua. Come fai, in questa situazione, con i famigliari assenti e isolati? Dico al malato che non posso dargli le cure migliori? Sono stretto fra il dovere di informarlo e il rischio di aggravarne lo stato. La polmonite da influenza è tutt’altro affare. All’inizio speravo anch’io in un’infezione più trattabile, poi ho sentito i colleghi lombardi, e poi ho visto arrivare i malati. E l’età dei ricoveri tende ad abbassarsi. Il punto non è che il coronavirus risparmia i giovani; è che i giovani reagiscono molto meglio alle cure. Ma bisogna che le cure ci siano”. La controprova sono i paesi, come l’Iran, in cui anche i giovani sono decimati. 


In mancanza “di uno spazio in cui l’aria viene risucchiata, bisogna scegliere: disporre comunque la ventilazione vuol dire correre il rischio di far ammalare medici e infermieri. Valutazione etica e sanitaria intervengono di continuo” 


“In Lombardia sono bravissimi, sono ormai generazioni di rianimatori formate a scuole eccellenti, come quella di Luciano Gattinoni, un vero campione internazionale della terapia intensiva e delle malattie polmonari. Fra noi, anestesisti e rianimatori, più che uno scambio di informazioni strutturato c’è una comunicazione continua di telefonate, whatsapp. C’è una consolidata rete, aperta, il Gruppo di valutazione degli interventi nelle terapie intensive, che fa capo all’Istituto Negri. Su circa 500 terapie intensive il GiViTi ne raccoglie 250. Ha messo ora in rete tre videoconferenze, racconti sul campo, seguitissimi. La difficoltà non sta solo nella novità del virus. Per esempio, il tampone registra dei falsi negativi nel 10-15 per cento dei casi. Poi la Tac toracica, che è molto sensibile, mostra che il paziente è positivo e il tampone ripetuto lo conferma. Si capisce il rischio che il paziente falso-negativo venga mandato in una zona senza protezione. Il tampone impiega ancora dalle 8 alle 16 ore per il referto. A Pisa, oggi, 12 ore. Al Pronto Soccorso, che da noi ha 40-50 barelle, viene fatto a tutti, qualunque sintomo mostrino: dunque stazionano a lungo. Per un infarto, un ictus, un’emorragia cerebrale la decisione è immediata. In questo caso invece dove li teniamo? Se respirano già male? Di norma non possiamo fare la ventilazione non invasiva: nel casco passa un forte flusso di aria, 40 litri al minuto, una cui gran parte viene ributtata fuori e con lei anche il virus può essere diffuso. E non nelle goccioline, ma in aerosol, sparso nell’ambiente. C’è bisogno di uno spazio con la pressione negativa, in cui l’aria viene risucchiata. Di nuovo, bisogna scegliere: disporre comunque la ventilazione vuol dire correre il rischio di far ammalare medici e infermieri, quelli cui spetta di continuare a prendersi cura dei malati. Valutazione etica e sanitaria intervengono di continuo, e la situazione muta così presto e profondamente: la ventilazione non invasiva sembra da evitare, ma ecco che tutti i posti sono saturi e allora d’un tratto si cambia idea. Devo dedicarmi all’urgenza estrema, e pensare a quelli che arriveranno. Da 4-5 giorni anche qui il Pronto Soccorso è ingolfato. Ma la Lombardia è davvero in una condizione eccezionale”.

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