Sinti di origine abruzzese, i Casamonica abitano villette pacchiane nel quartiere della Romanina (foto LaPresse)

La Roma dei Casamonica raccontata senza fiction

Massimo Solani

Affari e controllo del territorio. Le carte dei pm e le indagini della polizia. Storia di una famiglia tra folklore e criminalità

Roma. Mehdi Dehnavi, artista del marmo, quando quegli uomini sono entrati nel suo studio non sapeva che la sua vita sarebbe cambiata per sempre per colpa di dieci capitelli. Era il 17 febbraio del 2010 e lui, iraniano da dieci anni a Roma, fu il primo a ribellarsi pubblicamente ai Casamonica. “Tu sai chi siamo noi, se non mi dai i capitelli ti uccidiamo, ti diamo fuoco e poi chiudiamo tutto”, gli gridò Guido Casamonica quando l’artigiano provò a impedirgli di prendersi i manufatti senza pagare. Poi ci furono le botte e altre minacce. Come quella che, qualche ora dopo, gli rivolse Raffaele Casamonica, portandosi le dita alla tempia a mo’ di pistola e mimando di premere il grilletto quando nello studio dell’artista iraniano trovò la polizia. Se denunci – era il messaggio – ti ammazziamo. Mehdi, invece, denunciò. Anche dopo essere stato di nuovo picchiato selvaggiamente per strada, appena una settimana più tardi, e dalle stesse persone. Poi arrestate, come all’alba di martedì i fratelli Cristan e Vincenzo Di Silvio, Antonio Casamonica e Nando Di Silvio, responsabili della brutale irruzione del giorno di Pasqua nel Roxy Bar, e del pestaggio del proprietario Marian Roman e di una cliente disabile. Una spedizione punitiva per lavare col sangue l’affronto di non aver chinato la testa all’arroganza del potere criminale imposto dal clan sulla Romanina, feudo e riserva di caccia di una delle famiglie mafiose più potenti della Capitale. Un sodalizio che in tre decenni ha stretto solidi legami con le organizzazioni criminali storiche e ancora in costante espansione sui mercati più redditizi, dallo spaccio di droga al riciclaggio internazionale. E il giorno dopo gli arresti, in questo reticolo di strade fra via Tuscolana, via Baccarini e via del Ponte di Sette Miglia, nessuno vuole parlare. Dicono che la Ferrari nera dei Dei Silvio sia ancora in giro, che le vedette osservino tutto e tutto riferiscano. E guai a chi ha il coraggio di aprire bocca con i giornalisti. Come quelli della troupe di “Nemo” di Rai 2, che sono stati aggrediti dalle donne del clan perché stavano filmando gli arresti. “Infami le spie, infami gli sbirri e infami i giornalisti”, ripetono a denti stretti ragazzotti ingioiellati che sui maxiscooter pattugliano la zona senza sosta.

 

Qui negli anni Settanta vennero “deportate” alcune famiglie nomadi diventate poi stanziali. Fra loro anche i Casamonica, sinti di origine abruzzese in grado in pochi anni di prendersi la Romanina e farne la rampa di lancio verso gli affari sporchi della Capitale. “Uno dei gruppi malavitosi più potenti e radicati del Lazio, i cui affiliati dichiarano in forma costante, quasi indefettibile, un reddito inferiore alla soglia di povertà ma vivono in ambienti protetti da recinzioni, videocamere, vigilanza armata”, scrisse il gup Simonetta D’Alessandro nel 2013 in una ordinanza in cui raccontava una delle maggiori piazze di spaccio della Capitale. “Un territorio militarizzato in cui l’attività di spaccio è praticata di giorno e di notte, senza sosta, a condizioni di vendita uniformi – proseguiva – con la consegna di bustine dal prezzo uniforme, dalla confezione elettrosaldata uniforme, dalla qualità e dalla quantità uniforme, sicché nulla può far pensare ad attività individuali, ma tutto riconduce a un sistema organizzato e coeso”. Talmente forte da imporre il proprio dominio anche con l’arroganza pacchiana di ville sfarzose nascoste dietro cancelli altissimi e protette da sofisticati sistemi di videosorveglianza, cresciute di anno in anno e di piano in piano fino a divorare i marciapiedi e le fermate degli autobus. Spostate qualche metro più in là, dove non danno fastidio. Come il quartier generale di Consiglio, il sessantunenne nuovo reggente del clan che ha ereditato lo scettro alla morte di Vittorio Casamonica, quello del funerale in stile mafioso con tanto di lancio di petali dall’elicottero nell’estate del 2015. Gli atti giudiziari lo raccontano freddo, pericolosissimo e spietato. Senza scrupoli al punto di incastrare e ricattare uno dei magistrati della Dda romana, l’ex pm Roberto Staffa, recentemente condannato a 11 anni per corruzione e vari altri reati, con decine di video pornografici di cui era protagonista. Girati anche dentro gli uffici della procura, e addirittura con la partecipazione della compagna dello stesso Consiglio.

 

Non ingannino perciò i modi, i vestiti o le foto in pose risibili postate su Facebook con armi, gioielli, auto di lusso e troni da re. I Casamonica si sono stabilmente apparecchiati un coperto al tavolo della mafia che conta, e lo hanno fatto con la ragione della forza, con un’accurata regia economica che li ha portati a investire persino a Montecarlo, con alleanze di ferro. Come quelle con il gruppo camorristico di Michele Senese e con le famiglie ’ndranghetiste Molè-Piromalli, con le quali si sono spartite il controllo degli affari del Porto di Gioia Tauro. O quella, saldata su vincoli di sangue, con gli Spada che comandano a Ostia. Così se uno dei capostipiti della famiglia, Enrico Casamonica, veniva condannato negli anni Novanta perché in affari con quello che è stato sempre considerato il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, più di recente la famiglia aveva stretto accordi anche con Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, che proprio ai Casamonica si rivolsero per risolvere i problemi con le famiglie rom del campo di Castel Romano. Una “mediazione culturale” pagata ventimila euro al mese a Luciano Casamonica, parente dei capi Guerino e Giuseppe.

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