PUBBLICITÁ

il capo di fi

Ministro degli Esteri, ma pure di Confindustria: Tajani è costretto all'equilibrismo

Valerio Valentini

Il capo di Forza Italia, in viaggio a Pechino, ora deve capire come uscire dalla Via della Seta evitando ritorsioni commerciali

PUBBLICITÁ

Deve sembrargli quasi una beffa: proprio ora che il suo ruolo gli concede l’onore della massima visibilità, ritrovarsi a constatare che questo privilegio coincide anche con una rogna clamorosa. Per l’Italia, certo, ché l’uscita dalla Via della seta, per quanto obbligata, pone incognite e rischi notevoli. E pure per lui, per Antonio Tajani, per la sua immagine di leader ancora da consolidare. Perché ovviamente, se da capo della Farnesina è volato a Pechino per avviare le pratiche della separazione, da capo di Forza Italia è impegnato ad accreditarsi come il riferimento nel governo di quel mondo delle imprese che un’eventuale ritorsione commerciale da parte della Cina la teme e la paventa. Ministro degli Esteri e un po’, nelle sue ambizioni, anche di Confindustria. E la Via della seta che sta lì, a evidenziare la difficoltà di conciliare i due fronti. Si spiegano così, del resto, anche certe sue azzardate dichiarazioni non proprio concilianti verso gli Usa dei giorni passati.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Deve sembrargli quasi una beffa: proprio ora che il suo ruolo gli concede l’onore della massima visibilità, ritrovarsi a constatare che questo privilegio coincide anche con una rogna clamorosa. Per l’Italia, certo, ché l’uscita dalla Via della seta, per quanto obbligata, pone incognite e rischi notevoli. E pure per lui, per Antonio Tajani, per la sua immagine di leader ancora da consolidare. Perché ovviamente, se da capo della Farnesina è volato a Pechino per avviare le pratiche della separazione, da capo di Forza Italia è impegnato ad accreditarsi come il riferimento nel governo di quel mondo delle imprese che un’eventuale ritorsione commerciale da parte della Cina la teme e la paventa. Ministro degli Esteri e un po’, nelle sue ambizioni, anche di Confindustria. E la Via della seta che sta lì, a evidenziare la difficoltà di conciliare i due fronti. Si spiegano così, del resto, anche certe sue azzardate dichiarazioni non proprio concilianti verso gli Usa dei giorni passati.

PUBBLICITÁ

Quella sua esortazione a “non correre sempre dietro agli Stati Uniti” pronunciata a Cernobbio, che molto pare aver indispettito i colleghi di FdI e tra loro in particolare Guido Crosetto, anche a questo serviva: a far sapere a Xi Jinping, alla vigilia della missione diplomatica a Pechino, che se si decide di uscire dalla Via della seta non è per assecondare una richiesta americana. 

Solo che uscire, come che sia, bisognerà. E per questo Tajani ha elaborato, d’intesa con Giorgia Meloni, una strategia che punta tutto sul sostituire il Memorandum incriminato sciaguratamente firmato da Luigi Di Maio nel marzo del 2019 con una nuova intesa meno imbarazzante a livello diplomatico. Di qui l’idea di rispolverare l’idea del “partenariato strategico globale”, rimando quanto mai evocativo, per Tajani, visto che a proporlo per primo fu, nel 2004, l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi insieme al primo ministro cinese Wen Jiabao. Il progetto è insomma questo: archiviare la Via della seta, con tutte le sue ambiguità geopolitiche così sgradite a Washington, ma potenziare un accordo di natura prettamente commerciale. Che tanto basti a rassicurare Xi, che inevitabilmente subirà l’abbandono italiano come uno sgarbo, essendo il primo grande paese – e membro del G7 – a recedere dal Memorandum, chissà. Di certo Tajani, oggi, ha confidato ai collaboratori una certa soddisfazione per l’apprezzamento che all’idea ha espresso il ministro degli Esteri di Pechino con cui ne ha parlato.

E’ stato proprio lui, Wang Yi, nel corso dell’incontro tra le due delegazioni a Pechino, a fare un riferimento diretto a ciò che Tajani s’era guardato bene, forse per cautela o forse per un eccesso di riguardo, di nominare. E cioè, appunto, la Via della seta. “La costruzione congiunta della ‘Belt and Road’ ha prodotto risultati fruttuosi”, ha rimarcato Wang. “Negli ultimi cinque anni, il volume dell’interscambio tra Cina e Italia è aumentato da 50 a quasi 80 miliardi di dollari, e le esportazioni dell’Italia verso la Cina sono aumentate di circa il 30 per cento”. Col che fornendo un quadro parziale, però, se non distorto, delle relazioni commerciali tra Roma e Pechino, almeno a confrontarli con quelli registrati dall’Ice. L’Istituto per il commercio estero che proprio dalla Farnesina dipende, certifica infatti che l’export italiano in Cina è salito  da 19,9 a 26,9 miliardi di dollari a partire dalla firma del Memorandum. Ma quella crescita non conferma altro che un trend già in atto da oltre un decennio: nel 2008, per dire, l’export italiano in Cina era di appena 11 miliardi di dollari, e solo tra il 2017 e il 2018, dunque prima dell’entrata in vigore della Via della seta, era salito di un notevole 22 per cento in appena 12 mesi. Ma c’è di più: perché quei circa 7 miliardi di dollari in più che l’Italia ha esportato in Cina  sono nulla rispetto agli oltre 22 che sono andati in senso opposto nello stesso arco di tempo. E dunque, nel complesso, si dovrebbe riconoscere che se un effetto l’ha avuto, questo disgraziato Memorandum, l’ha avuto nel favorire enormemente l’export cinese, contribuendo a sbilanciare a favore di Pechino una bilancia commerciale che invece in precedenza s’andava sia pur lentamente riequilibrando.

PUBBLICITÁ

Ennesima dimostrazione di come, se tutto si risolvesse in una separazione amichevole, la manifattura italiana avrebbe ben poco da temere dalla cessazione della Via della seta. E che l’idea di potenziare accordi commerciali che nulla abbiano di manifestamente politico sarebbe una buona idea. Sempre a patto, però, che Xi accetti davvero questo percorso alternativo, senza ricorrere a rappresaglie. Che è poi il timore che agita Confindustria, e che solo pochi giorni fa ricordava anche Mario Boselli, il presidente della Fondazione Italia-Cina. E’ qui, dunque, su questo filo sottile, che Tajani gioca la sua partita: diplomatica, commerciale e politica insieme.  Partita che è resa poi ancora più delicata dal fatto che a doversi esporre su questo fronte è proprio il ministro degli Esteri. Il suo collega vicepremier, Matteo Salvini, che pure molto bercia contro la Cina e il suo espansionismo economico, si guarda bene dall’immischiarsi nella faccenda. E anche Giorgia Meloni persegue una linea di cautela che è quasi reticenza, forse quasi ambiguità, e s’è decisa a rimettere al Parlamento, nella speranza di diluire le sue responsabilità, la scelta di non rinnovare l’accordo.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ